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 2015  settembre 12 Sabato calendario

LA LUNGA NOTTE DEL PETROLIO

Molti paesi produttori di petrolio cercano con ansia di intravedere una luce in fondo al tunnel della lunga onda ribassista cominciata a luglio del 2014. Ma aldilà dei temporanei rimbalzi speculativi dei prezzi dell’oro nero, le uniche luci che rischiano di vedere sono quelle di un treno che viaggia contro di loro. La lunga notte del petrolio non solo è arrivata, ma durerà più del previsto. Le ragioni sono facilmente spiegabili alla luce di quanto avvenuto in altri periodi del passato.
Le società che sviluppano materie prime iniziano a investire molto quando i prezzi sono alti e ogni progetto appare remunerativo. Investono in un panorama competitivo in cui ciascuno persegue i suoi interessi e nessuno può esercitare alcun controllo sulla somma finale delle nuove produzioni. Queste ultime richiedono molti anni prima di diventare disponibili, spesso almeno otto-dieci nel caso di un giacimento petrolifero. Il problema è che nessuno sa in partenza quali saranno i livelli di prezzo e domanda dopo dieci anni, cioè quando la nuova capacità produttiva arriverà sul mercato: così, man mano che il tempo passa, l’offerta comincerà a crescere a dispetto della reale situazione di mercato. Al contrario, nello stesso arco di tempo la domanda tende a calare per la stessa ragione che ha favorito i grandi investimenti – i prezzi sempre più alti della materia prima, che di per sé riducono i consumi e spingono a una maggiore efficienza energetica. Ma ormai i buoi sono usciti dalle stalle, cioè la nuova capacità produttiva comincia a rendersi disponibile proprio mentre la domanda non cresce più come dovrebbe e i prezzi calano.
A peggiorare le cose, gli investimenti in via di completamento non possono essere fermati se i prezzi di una singola materia prima collassano, perché chi ha già speso miliardi di dollari per sviluppare un giacimento (o una miniera) perderebbe tutto. I costi già sostenuti, pertanto, sono considerati investimenti “affondati”, e il nuovo giacimento sarà messo comunque in produzione purché remuneri almeno i costi operativi. L’asincronia tra domanda, offerta, prezzi e l’inerzia ineluttabile degli investimenti già avviati sono stati all’origine del collasso petrolifero degli anni Ottanta (il c.d. controshock del 1986) e della caduta dei prezzi che stiamo vivendo oggi.
In termini probabilistici non sono necessarie sfere di cristallo per capire che la fase di petrolio a bassi prezzi potrebbe durare almeno fino al 2017-2018. L’asincronia già sperimentata in passato è ancora in piena attività: il barile sopra i 100 dollari di pochi anni orsono ha alimentato investimenti per sviluppare o ri-sviluppare giacimenti in ogni parte del mondo. Una parte di questi investimenti è stata completata, ma un’altra non lo sarà fino al 2018 e nessun progetto in corso è stato fermato dalle società petrolifere. I tagli annunciati da tutte riguardano investimenti che ancora dovevano essere avviati, o altri settori dell’industria petrolifera.
L’unica parziale eccezione riguarda lo shale oil americano. Ma attenzione. A dispetto dei tagli drastici, la produzione di greggio non convenzionale degli Stati Uniti ha retto bene, registrando il picco a aprile per poi perdere relativamente poco (ad oggi, meno del 2%). Questo perché, nel frattempo, la tecnologia e l’efficienza per sfruttare le formazioni shale si è evoluta con grande rapidità e continua a evolversi, le società si sono concentrati sulle aree più produttive e economiche dei singoli giacimenti, mentre i costi di produzione continuano a cadere. Inoltre, la produzione di shale ha una caratteristica del tutto nuova rispetto a quella di petrolio gas convenzionali. Per motivi che richiederebbero una lunga spiegazione tecnica, un pozzo shale può essere portato in produzione in pochi mesi e nelle prime settimane di attività raggiunge subito il picco produttivo: una rivoluzione copernicana rispetto al mondo conosciuto dai petrolieri tradizionali. La rapidità di interruzione e riavvio delle produzioni shale, infatti, introduce un fattore di instabilità sconosciuto nel mondo petrolifero: non appena i prezzi risalissero, gli investimenti tornerebbero a aumentare immediatamente in modo massiccio, perché il tempo necessario a remunerarli è brevissimo, spingendo di nuovo in alto la produzione. L’esatto opposto della legge bronzea del “vecchio” petrolio. Bastano alcuni numeri per dare il senso del paradosso che sta vivendo il mercato petrolifero. Dall’avvio della caduta dei prezzi del petrolio nel luglio 2014 a oggi, la produzione di greggio è aumentata in tutti i paesi chiave del mondo – fatta eccezione per Cina e Messico. Gli Stati Uniti producono oggi quasi 1 milione di barili al giorno (mbg) in più, nonostante il calo registrato da aprile; stesso incremento per l’Arabia Saudita, mentre l’Iraq ha registrato un balzo di quasi 1.3 mbg, l’Iran di 300.000 bg, il Brasile di 200.000 bg. Perfino il Canada, uno dei paesi con i costi marginali più alti al mondo, produce quasi 300.000 bg. Il Mare del Nord, poi, sembra aver sfidato la legge di gravità. Era in declino da anni, poi in aperta crisi: eppure in un anno la sua produzione è aumentata di 200.000 bg.Nel complesso, la produzione mondiale a agosto a sfiorato i 98 mbg, la capacità produttiva i 102 mbg, la domanda ha probabilmente superato i 95 mbg. Ma quest’ultima tocca il picco proprio tra luglio e agosto, quando i trasporti nel mondo sono più intensi, e poi cala d’autunno e d’inverno. Per questo è lecito aspettarsi una nuova caduta dei prezzi e qualche momento di panico, probabilmente tra novembre e gennaio. Una prospettiva su cui pesano adesso anche i mille dubbi sulla tenuta economica della Cina e di altri paesi asiatici, fino a oggi motori (unici) del sostegno a una domanda mondiale di greggio troppo modesta. Per chi voglia investire nel petrolio, nel gas naturale, o in settori collegati, quindi, è bene agire con grande prudenza. Il momento migliore potrebbe ancora richiedere qualche tempo. Questa significa anche che, per i produttori, il peggio deve ancora venire.
leonardo_maugeri@hks.harvard.edu
Leonardo Maugeri, Il Sole 24 Ore 12/9/2015