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 2015  settembre 12 Sabato calendario

LA KAMIKAZE HEATHER “I MIEI ORDINI ERANO COLPIRE IL QUARTO AEREO”

WASHINGTON.
Il suo soprannome era “Lucky”, fortunella, la sua missione era semplice: morire. Portare il suo caccia F16 a speronare in volo il Boeing 757 dirottato verso Washington e precipitare insieme. «Sarei stata la prima pilota kamikaze della storia americana», sorride ora il maggiore Heather “Lucky” Penney, dirigente della Lockheed per il programma del tanto contestato F35, ricordando la mattina dell’11 settembre 2001 quando fu mandata in missione sucida contro il volo United 93, ai comandi di un caccia senza munizioni.
Del volo dei due “Falcon F16” per abbattere il quarto aereo si sapeva. Ma non che ai comandi ci fosse la prima donna pilota da caccia e che la sua sarebbe stata un massione suicida. Per più di dieci anni non aveva parlato, prima di raccontare quelle ore al
Washington Post. “Lucky” era stata la prima donna pilota da combattimento assegnata al 121esimo Stormo della Guarda Nazionale di Washington ad Andrews, in Virginia, la base dalla quale partono e arrivano gli aerei presidenziali e gli ospiti internazionali. Erano le 9 e 30 quando lei, e il suo partner fisso, il colonnello Marc Sasseville, tornati alla base dopo una mattinata di addestramento, ricevettero dal comandante dello Stormo l’ordine di “scramble”, di decollare immediatamente. «Ma non abbiamo nessuna munizione a bordo, solo i colpi a salve», si stupì lei. “Scramble, scramble” abbaiava il comandante e lei personalmente tolse i tacchi che bloccavano le ruote del caccia, si arrampicò sotto la cupoletta del posto di pilotaggio, attese il “clear for takeoff”, l’autorizzazione al decollo e via, senza neppure il tempo per la checklist, il vangelo prevolo di ogni pilota.
Erano già in quota, ala contro ala, a 1500 metri che un caccia agile e potente come lo F16 raggiunge in pochi secondi, quando lei, e il suo compagno di volo capirono quale fosse la missione. Nel panico, nella sorpresa di quel mattino, qualcuno si era finalmente accorto che c’era un quarto aereo, il 757 United, volo ‘93, che volteggiava nel cielo della Pennsylvania e sembrava puntare diritto su Washington. La base di Andrews era la più vicina. I suoi caccia non erano “hot”, non erano armati perché ancora tutte le difese americane erano puntate verso l’esterno dei confini, non verso l’interno del Paese, ma mancava il tempo di lanciare aerei dalle basi più lontane.
Il tenente Fortunella e il colonnello Sasseville si parlarono via radio, mentre volteggiavano sulle colline e i boschi a nord est di Washington, da dove sarebbe arrivato l’incredibile nemico, un jumbo civile di una linea americana. Avevano capito benissimo quale sarebbe stata la loro unica possibilità. «Nessuno ci aveva mai addestrato a speronare un aereo in volo», ricorda ora Lucky, una bella signora quarantenne con ancora tutta la capigliatura bionda che doveva comprimere dentro il caso da pilota, «e il mio compagno e io cominciammo a ragionare».
«Andiamo sparati contro i due motori?». No, i motori sono progettati per staccarsi senza disintegrare l’ala e il 757 era troppo vicino a Washington, avrebbe ancora potuto planare e schiantarsi nel centro della città. Sfondargli le ali contemporaneamente? Una manovra difficile, il Boeing volava a oltre 800 kilometri all’ora. Alla fine si accordarono per una manovra a tenaglia: il colonnello avrebbe puntato sulla cabina di pilotaggio. Lei, la tenentina al primo servizio, la figlia di un pilota militare passato all’aviazione civile, la ragazza che si era laureata in letteratura inglese e poi aveva scoperto che l’Air Force reclutava anche donne e ci si era buttata per seguire la vocazione del padre, avrebbe tranciato il timone di coda. «Tutti e due pensammo alla possibilità di spararci fuori dall’aereo con il sedile esplosivo un attimo prima della collisione, ma tutti e due sapevamo benissimo che non ci sarebbe stato il tempo».
Pattugliarono per un’ora, senza potersi permettere il lusso di chiedersi se e quanti innocenti civili ci fossero a bordo dell’aereo. «Mi concentravo sul pilotaggio, sugli strumenti, sui radar, sui computer di bordo, sull’orizzonte, sul carburante, senza pensare ad altro che alla missione e respingendo un pensiero che ogni tanto bussava: e se ai comandi di quel 757 ci fosse stato mio padre, pilota di linea proprio con quella compagnia?». Non c’era e Lucky fu fortunata: non trovarono mai il loro obiettivo e tornarono alla base di Andrews quando la notizia della caduta del quarto aereo fu confermata.
Ma la sua giornata non era finita. Otto ore più tardi, questa volta con l’armamentario d’ordinanza sotto le ali, il tenente Penney si alzò di nuovo in volo per intercettare un altro aereo: l’Air Force One, il Boeing 747 azzurro e argento che riportava finalmente George Bush a Washington. Il presidente racconterà di avere visto con sollievo dall’oblò, la silhouette dell’F16. Senza sospettare che ai comandi c’era una donna di 26 anni che non avrebbe esitato un attimo a puntare il muso contro l’Air Force e sfondarlo, se così le avessero ordinato.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 12/9/2015