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 2015  settembre 12 Sabato calendario

I GIORNALI, PER CONTRASTARE LA CONCORRENZA DEI TG E DEL WEB, HANNO SCELTO DI ENFATIZZARE TUTTE LE NOTIZIE, PUNTANDO AL PUGNO NELLO STOMACO

Il progresso dei mezzi di comunicazione ha come unità di misura la rapidità. Dalle tavole bronzee agli araldi, dai codici ai libri stampati, dal giornale alla radio, dalla televisione ai social media è un continuo superamento dell’intervallo tra evento e notizia, per realizzare la fine del tempo nella contemporaneità. Napoleone morì il 5 maggio. Manzoni cominciò a scrivere la famosa ode solo il 17 luglio, quando la «Gazzetta di Milano» pubblicò la notizia. Oggi questa rapidità è pagata dai media stampati, che sono in forte crisi proprio perché i media elettrici li hanno in gran parte sostituiti. I libri boccheggiano e cercano veicoli sostitutivi nel web, diventano e.book. I giornali aggiungono alla edizione cartacea quella elettrica, in previsione di elettrificarsi totalmente. Dal 2010 a oggi il fatturato di tutta la carta stampata è sceso da 40 a 30 miliardi.
Che tutto ciò comporti un decadimento qualitativo dell’informazione è cosa ovvia. Il giornale si visualizza, dice sempre meno e mostra sempre più: fotografie e caricature dovunque, molte le notizie sbattute in prima pagina, i titoli sempre più grandi ed enfatici. Non poteva accadere diversamente: i giornali devono minimizzare i commenti e le riflessioni, puntare tutto sull’evento e sulle reazioni ad esso. Il controllo della veridicità delle notizie è reso quasi impossibile dai ritmi incalzanti del montaggio.
Il problema, del resto, non è più quello della «verità», ma della «credibilità». Per vendere copie all’homo videns bisogna strattonare il suo torpore, sfidarlo, aggredirlo, sconvolgerlo, sapendo che l’uomo del selfie tutto ben presto dimentica e sostituisce. Occorre, soprattutto, enfatizzare. A partire dai titoli: usare parole e immagini in grado di risvegliare, non per lo spazio di un mattino, ma per un attimo, la sostanziale indifferenza del lettore. Sempre i giornali hanno inventato le notizie, non solo informavano, ma ancor più deformavano, conformavano e preformavano.
Oggi il problema dell’inventare si è spostato dalla narrazione alla semantica usata, che è quasi sempre quella della enfatizzazione. Non una menzogna dichiarata, ma una tecnica persuasiva, spesso snobista ed estetizzante, per rendere il contenuto della notizia interessante per i lettori e utile ai padroni del foglio o anche soltanto alla sua diffusione.
Non di rado con esiti demenziali e ridicoli. L’Azienda dei trasporti porta il prezzo del biglietto da 1 euro a 1.10: «Stangata»; il costo della cancelleria scolastica lievita dell’1,2 %: «Furto»; il francobollo passa da 0,70 a 0,80: «Rapina». Parole in libertà, anzi in psichiatria. Forse l’episodio più stupido e, proprio perché generalmente accettato, più preoccupante, è quello relativo alla (dis)informazione sulle norme scolastiche, che stanno immettendo in ruolo più di 100 mila insegnanti.
Erano supplenti precari, essi stessi e i loro padroni sindacalisti per anni hanno lottato per ottenere il ruolo, accusando i governi di ritardi e inadempienze. Ora che l’hanno ottenuto si lamentano, la cattedra la volevano, ma sotto casa. Ed ecco allora che la necessità di recarsi in sedi lontane (anche se riguarda circa il 10 % degli immessi in ruolo) ha suscitato una rivolta. Una parte ha rinunciato, altri hanno imprecato e, naturalmente, i giornali hanno soffiato sul fuoco, per lo più hanno enfatizzato. La parola preferita per indicare l’assegnazione di sede in luogo diverso da quello di residenza è stata: «deportazione». Eppure non vanno ad Auschwitz, ma in altre regioni, specie nelle civilissime Lombardia e Veneto.
E poi non è sempre andata così? Mi scuso se parlo di me stesso: avevo 25 anni quando il Ministero mi mandò al Liceo classico di Taranto; ne avevo 39 quando feci le valigie per l’Università di Lecce. Due sedi delle quali ho solo stupendi ricordi: oh, i tramonti sul Mar Piccolo e il «Pesce fritto», le orecchiette e il barocco leccese e, ancor più, quella calda accoglienza di cui solo i meridionali sono capaci. Non mi lamentai: Pascoli aveva cominciato a Matera, Gentile a Campobasso, Capograssi a Sassari. Era la norma. La stessa che la ministra Giannini aveva il dovere di applicare: nessuna regione deve mancare dei docenti di ruolo, neppure quelle del Nord, dove esistono per loro altre possibilità di occupazione. Se nel Sud mancano, non resta che offrire ai meridionali una possibilità altrove. Perché l’Italia è ancora una.
I giornalisti sentono franare il pavimento sotto i piedi. Non pochi reagiscono con ogni mezzo. L’enfatizzazione è uno; un altro è la menzogna meditata e programmata, come ha mostrato il nostro Direttore in due fondi la settimana scorsa, riguardo ad un presunto bracciante nero, che i giornali hanno dato per morto, occultato e seppellito, nessuno sa dove: «I media fanno da mamma ai loro lettori, privandoli degli elementi di verità di cui tutti hanno diritto.
Un’autocensura, molto peggiore della censura, non fatta perché costretti, ma solo per convenienza». Ma non è questo che importa. Ciò che oggi più conta per il quarto potere è suscitare indignazione e, di conseguenza, una diffusione maggiore del giornale. Sempre poca, ma meglio che niente.
Gianfranco Morra, ItaliaOggi 12/9/2015