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 2015  settembre 12 Sabato calendario

LA SCELTA DI JANET

Mercati con il fiato sospeso fino a giovedì 17 settembre, quando arriverà finalmente la sentenza del Comitato di politica monetaria della Federal Reserve (Fomc). Si saprà allora se sarà messa la parola fine alla politica dei tassi zero, iniziata nel dicembre 2008 per rispondere alla crisi finanziaria globale esplosa con la bancarotta di Lehman Brothers del 15 settembre di quell’anno.
Fino all’inizio di agosto il rialzo dei tassi a settembre era dato per scontato: l’82% degli economisti interpellati dal Wall Street Journal si era detto sicuro che la presidentessa Janet Yellen avrebbe annunciato la storica decisione. Nel giro di un mese la percentuale è scesa al 46%. Che cosa è successo nel frattempo? L’11 agosto le autorità cinesi hanno svalutato a sorpresa lo yuan, rivelando di essere preoccupate per il rallentamento dell’economia cinese. Da quel giorno i mercati hanno perso le loro certezze e in alcune sedute si sono lasciati travolgere dal panico, con il risultato che a Wall Street l’indice S&P 500 ha perso il 7,2% mentre a Piazza Affari il Ftse Mib ha lasciato sul terreno l’8,6%. Gli investitori, che da tempo nutrivano forti dubbi sull’affidabilità delle statistiche cinesi, hanno cominciato a domandarsi con ansia quali fossero le reali condizioni di salute della seconda economia mondiale. La maggior parte di loro si è data questa risposta: impossibile sapere se quella in corso sia una frenata appena più accentuata di quella voluta dagli stessi vertici cinesi per passare da un’economia trainata dalle esportazioni a una basata sui consumi interni, oppure se la locomotiva sia deragliata. Ci vuole tempo per capirlo. Ed ecco perché in molti hanno invocato una pausa di riflessione alla Yellen. L’allarme più forte è stato lanciato da Lawrence Summers, docente di Harvard ed ex segretario al Tesoro dell’amministrazione Clinton. «In questo momento di fragilità alzare i tassi rischia di mandare in crisi parte del sistema finanziario, con risultati imprevedibili e dannosi», ha proclamato Summers e la mossa «potrebbe minacciare tutti e tre gli obiettivi principali» della Federal Reserve, ossia stabilità dei prezzi, piena occupazione e stabilità finanziaria. Summers ha quindi avvertito che «nei prossimi dieci anni l’inflazione sarà sotto il 2%. Se le valute di Cina e altri mercati emergenti subiscono un ulteriore deprezzamento, l’inflazione Usa sarà ancor più contenuta». Una normalizzazione della politica monetaria avrebbe poi «un effetto negativo sull’occupazione perché tassi di interesse più alti rendono il mantenimento del cash più attraente che l’investimento» di quella stessa liquidità. Inoltre un costo del denaro superiore «aumenterà il valore del dollaro, rendendo i gruppi manifatturieri americani meno competitivi e mettendo sotto pressione le economie dei nostri partner commerciali».
All’allarme di Summers hanno fatto eco i moniti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, il cui capo economista, Kaushik Basu, ha detto che l’aumento del costo del denaro negli Usa «sarebbe uno choc e fonte di nuova crisi per i mercati emergenti» già messi in difficoltà dalla svalutazione dello yuan, che tra l’altro ha accelerato la fuga di capitali in corso in quei Paesi. Tenendo conto che l’inflazione negli Usa è lontana anni luce dall’obiettivo del 2% (a luglio ha segnato un misero +0,2%) e che per Goldman Sachs il prezzo del petrolio potrebbe scendere addirittura a 20 dollari al barile, un rialzo dei tassi, innescando nuove svalutazioni nei Paesi emergenti, metterebbe l’America a rischio deflazione. C’è però chi sostiene che con un rialzo dello 0,25% il 17 settembre si metterebbe fine all’attuale situazione d’incertezza. Un ragionamento del tipo: visto che bisogna togliere il dente, è meglio farlo subito. Curiosamente tra i fautori di questa tesi ci sono i governatori delle banche centrali di due Paesi emergenti, India e Messico, forse perché in questo momento le loro economie sono più toniche rispetto a quelle di Cina e Brasile (il rating sovrano di quest’ultimo nei giorni scorsi è stato abbassato al livello di spazzatura da Standard & Poor’s) e quindi meglio attrezzate a reggere l’impatto dei loro diretti concorrenti, a favore di un rialzo dei tassi.
Secondo i sostenitori dell’opportunità dell’aumento del costo del denaro, la mossa manderebbe soprattutto il segnale che l’economia statunitense sta uscendo dalla crisi iniziata ancor prima del crollo di Lehman Brothers, nell’estate del 2007 con lo scoppio della bolla subprime. In effetti, dopo otto anni sarebbe anche ora. Ma se la crisi cinese fosse davvero grave, la Yellen ripeterebbe l’errore dell’allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, che il 3 luglio 2008 aumentò il costo del denaro di 25 punti base al 4,25%, preoccupato per l’aumento del prezzo del petrolio (il Wti era a 145 dollari, ora è a 45) e dei generi alimentari. Due mesi dopo Lehman Brothers finì in bancarotta. Un appuntamento al quale Eurolandia arrivò con un’economia in forte frenata anche per colpa del rialzo deciso da Trichet. In quell’occasione il presidente della Bce volle dare l’idea che la crisi finanziaria era sotto controllo e quindi l’Eurotower doveva preoccuparsi solo dell’aumento dei prezzi. Per rassicurare i mercati, la Bce finì col darsi la zappa sui piedi.
Secondo gli economisti di Credit Suisse i possibili esiti della riunione del Fomc sono tre: un rialzo dei tassi di 25 punti base accompagnato però da segnali forti della Fed sul fatto che l’inasprimento della politica monetaria sarà graduale e non avverrà a ogni meeting; la Fed resterà ferma ma puntualizzerà che potrebbe agire entro la fine dell’anno, a ottobre o a dicembre; la Fed manterrà i tassi stabili e i toni del comunicato resteranno quasi gli stessi, con piccole variazioni sulle proiezioni e sull’outlook. Gli esperti di Credit Suisse ritengono che l’opzione più probabile sia la seconda, con un rialzo dei tassi a dicembre. A favore di una scelta attendista giocano anche le forti divisioni all’interno del Fomc, che spingerebbero la Yellen a rinviare lo scontro in attesa che si chiarisca la situazione a livello internazionale e le borse si calmino. Secondo Abn Amro, pur essendoci vari argomenti a favore sia di un rialzo sia di una conferma dei tassi, la Fed «sceglierà di non muoversi. Pensiamo che la Yellen voglia avere un forte consenso nel Fomc a favore dell’aumento», che probabilmente avverrà a dicembre. Gli economisti di Ing hanno invece evidenziato che a livello globale sull’azionario c’e’ un clima «di ansia per via del rallentamento dell’economia cinese e dell’incombente Fomc».
Il calo della fiducia nei confronti della Cina «richiede più misure di stimolo. La Fed potrebbe» quindi rinviare «l’aumento a ottobre». Per Ing c’è il rischio che se la Fed non riuscisse a comunicare bene con il mercato o se la Cina non riuscisse a ricostruire la fiducia persa, «si potrebbe innescare un’ulteriore fase di volatilità o di avversione al rischio». Danske Bank pensa che «il recente inasprimento delle condizioni finanziarie e la maggiore incertezza sulla crescita globale influenzeranno la Fed, che manterrà i tassi invariati nel prossimo meeting, nonostante la forza del mercato del lavoro americano e la solida domanda interna». Tuttavia, la Fed «dovrebbe chiarire che il Fomc è pronto ad alzare i tassi quest’anno». Mentre per Elaine Stokes, portfolio manager per il reddito fisso di Loomis Sayles & Company, «in assenza di un’inversione di rotta del mercato nel breve termine, la Fed potrebbe perfino avere difficoltà ad aumentare i tassi a dicembre». Un ragionamento un po’ pericoloso, perché implica che i mercati siano ribassisti proprio per impedire il rialzo dei tassi, che a quel punto non avverrebbe mai. Se invece decidesse di alzare i tassi, per tenere calmi i mercati la Yellen probabilmente spiegherebbe che non si tratterebbe del primo di una serie di rialzi predeterminati e che le successive decisioni dipenderebbero dall’andamento dei dati macro. Allo stesso tempo, la Yellen dovrebbe fare capire che non ci sarebbero altri aumenti del costo del denaro fino al 2016.
Una reazione positiva delle borse ci sarebbe però solo se gli investitori fossero convinti che la crisi cinese è stata una tempesta in un bicchier d’acqua. Il rialzo dei tassi verrebbe accolto bene, quindi, a patto che i mercati avessero fiducia sia nella Yellen che nelle capacità del presidente cinese Xi Jinping di governare l’economia. Prudenza consiglierebbe di non basarsi solo sulla fiducia e di aspettare invece l’arrivo di qualcosa di più concreto (in primis dati macro cinesi rassicuranti) prima di mettere termine alla politica dei tassi zero.
Marcello Bussi e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 12/9/2015