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 2015  settembre 12 Sabato calendario

ARTICOLI SU VINCI E PENNETTA PER IL FOGLIO DEI FOGLI


VINCENZO MARTUCCI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 12/9 – L’11 settembre entra nella storia del tennis italiano: Flavia Pennetta e Roberta Vinci portano due azzurri in una finale Slam come non era stato mai. Ritrovandosi straordinariamente insieme a festeggiare dopo il titolo di campionesse juniores di doppio del Roland Garros 1999. Ci riescono agli Us Open, dove tutto è più grande e più clamoroso, e quindi realizzando una doppia, grande e clamorosa impresa, battendo la numero 2 e la 1 del mondo, e superandosi nella formidabile staffetta di emozioni, dalle 12.19, quando la brindisina firma il dominio su Simona Halep, alle 14.56, quando la tarantina doma, nientepo’po’dimeno, Serena Williams, stoppandola a due partite dal Grande Slam. Cioè dal firmare anche il quarto Major nella stessa stagione, dopo Melbourne, Roland Garros e Wimbledon, come non succede da 27 anni, da Steffi Graf 1988. Per farcela, le due pugliesi dal sorriso che conquista, le due ragazze normali, senza muscoli e centimetri impressionanti, giocano un tennis delizioso, intelligente, vario, frastornando le avversarie Doc e causando la maggior sorpresa di sempre. Così riportano il tennis alla normalità, cioé a servizio, risposta, dritto, rovescio, volée. Perché quella è la leva con la quale Flavia, a 33 anni, cancella i 9 anni e 7 mesi di distanza dalla romena sottovuoto-spinta. E, soprattutto, Robertina, a 32, annulla la super-potenza di Serenona, ubriacandola di varietà con quel magico cocktail che, nel 2010, portò Francesca Schiavone a iscrivere per la prima volta il nome di un’italiana nell’albo d’oro del singolare di uno Slam, al Roland Garros.
SEGRETI Ma la terra rossa è la nostra madre terra, dove crescono i tennisti, e dove la Schiavone ha giocato anche la finale del Roland Garros 2011 e la Errani quella del 2012, oltre che quella dei due trionfi Slam di Nicola Pietrangeli e di quello di Adriano Panatta. Ma il cemento, dove si disputano gli Us Open, è un campo più duro, sotto tutti i punti di vista, è un campo moderno, se vogliamo più globale. Ed è qui, coi riflettori del mondo puntati addosso che ci strappano più di una lacrimuccia, giocando tutt’e due la partita della vita, comportandosi tutt’e due da campionesse, a dispetto di una classifica bugiarda, 26 del mondo la Pennetta, 43 la Vinci. Meritandosi quello che tutt’e due definiscono «il premio alla carriera», dopo la dura routine degli allenamenti e dei viaggi, dopo gli alti e bassi, dopo i dubbi e le gioie di tanti anni di battaglie. «Venti giorni fa, il mio fisioterapista (il fido Max Tosello) mi ha chiesto se avevo mai pensato di arrivare in una finale Slam, o di vincerlo, e io gli ho risposto di no. Ma noi tutti che facciamo sport sappiamo che non si può mai dire, che devi dare sempre il massimo e che le cose migliori arrivano sempre quando meno te lo aspetti, o quando le desideri troppo. In realtà mi alleno volentieri ogni giorno, ma qualche volta faccio fatica a lottare in partita», confessa Flavia, dopo gli applausi della Halep: «Ha giocato meglio, è stata più solida, e io ero con le gomme sgonfie, ha meritato di vincere». Flavia si sorprende di se stessa: due anni fa pensava al ritiro e la sua carriera riesplose proprio con la semifinale qui a New York, quest’anno faceva impazzire papà Oronzo dicendogli che forse non sarebbe arrivata all’Olimpiade del prossim’anno a Rio ed eccola giocare addirittura la finale, e da favorita, sull’amica di sempre. «Qui mi piace giocare, ma forse ce l’ho fatta perché ci provo sempre, do sempre tutto, ed è straordinario com’ho giocato negli ultimi tre match, battendo Stosur (regina di New York 2011), Kvitova (due volte regina di Wimbledon) ed Halep (2 del mondo), quand’ho fatto tutto bene, non ho commesso errori (16), sono rimasta sempre concentrata e aggressiva (23 vincenti)».
MIRACOLO La partita della Pennetta è talmente perfetta che termina in appena 59 minuti e due set, con l’unico brivido del contro-break ad inizio secondo set: «Ho smesso di spingere, ho pensato al punteggio, poi però ho ripreso a giocare intenso da fondo, trovando però il cambio di ritmo che in genere riesce a lei». Flavia — prima italiana «top ten», numero 10 nel 2009 — è stata già in semifinale a New York nel 2013 e quattro volte quarti (2008, 2009, 2011 e 2014). La sua finale non è una incredibile sorpresa, anche perché contro la Halep ci aveva vinto tre volte su quattro. Ma come definire altrimenti quella di Roberta Vinci che beffa Serena Williams dopo averci perso quattro volte su quattro? Prima d’ora Roberta non era mai arrivata nemmeno a una semifinale Slam. Ma la Pennetta credeva nel miracolo. «Chi ha detto che Serena ha già vinto?». Infatti, nemmeno l’avesse sentita, Robertina, con quel suo metro e 63 appena d’altezza, diventa via via sempre più grande agli occhi della Tyson del tennis. Scappa avanti per prima, si fa riprendere e superare, cede il primo set per 6-2, poi libera quel meraviglioso braccio, attiva il micidiale tira e molla, rovescio in back-fendenti di dritto, si butta a rete in controtempo, taglia il campo con sciabolate diaboliche che spezzano le gambone più famose del circuito Wta. Così guadagna il nuovo vantaggio (3-2) e non lo cede più, resistendo alle poderose spallate Williams fino al 6-4, dopo un’ora e 40 che valgono oro per orgoglio e fiducia. Con Serena già pressata all’inverosimile dalla corsa al Grande Slam, dal pronostico, dal match fratricida con Venus e quindi dai problemi che le arrivano di là della rete che, dopo troppi piagnistei e urlacci al cielo, manda in frantumi la racchetta. È il segnale del sorpasso, è il 4-3 della Vinci. «Mi ripetevo: “Divertiti, rimetti la palla in campo, non pensare a Serena, prendi le energie positive da questo game. Forza, puoi farcela. Continua a rimettere la palla in campo”. È la scelta decisiva. Perché dopo il break, con una bellissima volée di dritto e due errori di Serena, la piccoletta che non t’aspetti chiama il pubblico, portandosi le mani alle orecchie come il goleador Toni: «Non vi sento, applaudite anche me, cazzo». Meritandosi la standing ovation dei 23mila dello stadio di tennis più grande del mondo.
NERVI «Con tutto il rispetto per la Vinci, Serena era in cattiva giornata, non aveva la stessa tensione che contro Venus. Ha perso lei: tatticamente, non sapeva più che fare». Tradotto, coach Patrick Muratoglou dice che il tennis vince ancora una volta, per fortuna, rispetto al fisico, perché è con la sua racchetta che Roberta pizzica Serena fuori posizione e salva due palle-break sul 4-3. Ed è sempre col fioretto che disegna due demi-volée, la seconda, di dritto, la porta in finale, dopo due ore da sogno. «È il miglior momento della mia vita, mi spiace per Serena che è una grande campionessa e poteva chiudere lo Slam, mi dispiace per voi tifosi, questo è il mio giorno. Sorry, questa sarà una finale “all italian”». Grazie ai coach, Salva Navarro e Francesco Cinà, grazie soprattutto a queste due stupende donne che offrono al tennis italiano un fantastico manifesto per un ulteriore lancio di uno sport stupendo e pieno di significati. «Sì, questa è la più grande sorpresa del tennis». Chi pensa alla finale? Flavia e Roberta vivevano a 60 chilometri di distanza,si conoscono dai tornei under 12, dove vinceva sempre Robertina. Vogliono vivere la gioia del momento. Come sempre, per costruire un altro futuro magnifico.

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RICCARDO CRIVELLI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 12/9 – Chi l’avrebbe detto che quella foto di due ragazzine sorridenti con una Coppa più grande di loro un giorno sarebbe diventata l’icona di una delle più straordinarie giornate della storia dello sport italiano? È il 1997 e Flaviuccia (Pennetta) e Robertina (Vinci) hanno appena vinto in doppio il torneo dell’Avvenire. Un successo che in fondo non è che il completamento di un percorso da predestinate, perché le piccole diavolette, a livello giovanile, in Puglia, hanno fatto sfracelli.
INSIEME Già, Flavia e Roberta, divise da un solo anno d’età (1982 la prima, 1983 la seconda), sono figlie del Sud e del suo calore, solo che una viene da Brindisi e porta sulla pelle e nei capelli il colore del Mediterraneo, l’altra invece è bionda e con gli occhi chiari, con le sfumature del mare della sua Taranto. La Pennetta nasce con la racchetta in mano, perché papà Oronzo è vicepresidente del Circolo della città, mentre la Vinci a 7 anni segue il consiglio di babbo Angelo e comincia a giocare per imitare il fratello Francesco. Sono fortissime, imbattibili e perdono soltanto quando si sfidano una contro l’altra: 11, 12, 13 anni, non esiste categoria d’età in cui non passino con il piglio delle dominatrici. E proprio le tante partite tra di loro, invece di rinfocolare la rivalità, accendono l’amicizia. Lontane da casa, insieme nelle nazionali juniores, perfino nelle stesse camere d’albergo, inseparabili. E dopo l’Avvenire, arriva la consacrazione internazionale, con il successo al Roland Garros junior nel 1998.
LA SCELTA Le ragazzine crescono, si aprono le porte del professionismo e per entrambe la scelta è dolorosa ma necessaria, per crescere. Flavia decide per la Spagna e va da coach Urpi, Roberta si sente stretta a Taranto, anche per motivi personali, e si sposta solo di qualche centinaio di chilometri, a Palermo, dove trova in Francesco Cinà un coach che è quasi un fratello. Le accomuna un gioco classico ed elegante, ma Flavia entra prima nel mood dei grandi tornei, mentre Robi arranca un po’ come singolarista e invece dimostra subito grandissime doti da doppista, perché la rete e le volée sono il suo pane.
FED CUP Sarà così per qualche anno, con la Pennetta che scala subito le classifiche approdando già a 22 anni tra le prime 50 del mondo, mentre la storia d’amore con lo spagnolo Carlos Moya, già numero uno del mondo, fa il giro planetario delle copertine, mentre Roberta brilla per talento ma non per risultati, o almeno quelli attesi, fermata spesso da un’innata timidezza. Intanto, la vendemmia del tennis femminile azzurro produce altri buonissimi frutti, dalla Schiavone alla Santangelo e la Fed Cup, la Davis delle donne, comincia a trasformarsi in un terreno di conquista dopo che per trent’anni ha sempre respinto le nostre ambizioni. Nel 2006, l’anno dello storico, primo trionfo, Flavia e Roberta sono in squadra e si ritrovano insieme come negli anni giovanili. La Pennetta è già un personaggio, ha già vinto tornei, mentre la Vinci è come l’allieva che si ritrova a scuola: «Penso che l’esperienza della Fed Cup sia stata fondamentale, mi ha fatto crescere tanto».
NUMERI UNO Nasce così il Dream Team in rosa, la Vinci diventa un’iradiddio in doppio con la new entry Errani, mentre la Pennetta si avvicina sempre più alle più forti singolariste del mondo, senza dimenticare la passione giovanile per il doppio insieme all’argentina Dulko. È anche più forte della drammatica separazione da Moya, un trauma che rischia di destabilizzarla ma che alla fine la rende più forte. L’estate del 2009 di Flavia è da cartolina, il cemento americano le dà la spinta per raggiungere un obiettivo che nessuna donna italiana ha mai centrato: la top ten. Accade nell’agosto, la brindisina è là dove la pronosticavano i tanti che l’avevano vista giocare da ragazzina, quando lei è Robi sembravano destinate a spaccare il mondo. Non che la tarantina non abbia le soddisfazioni che il suo gioco, splendido inno alla classicità, meriti: nel 2011 diventa la prima e unica giocatrice italiana a vincere un torneo di singolare su ogni superficie, anche se il doppio continua ad essere casa sua. Fino allo Slam, fino al numero uno del mondo nella classifica di specialità nel 2012, tuttavia anche lì preceduta da Flavia, che lo raggiunge qualche mese prima.
AL BIVIO I successi le trasformano, con Schiavone ed Errani, nelle sorelle d’Italia, ma il destino a un certo punto sembra chieder il conto di un decennio di felicità. Flavia si ritrova così con un polso fuori uso, il destro, dopo che per una vita ha dovuto fare i conti con il dolore al sinistro. Si opera, si ferma, ritorna. Ma non è più la stessa, addirittura le vengono attacchi di panico durante le partite e a Wimbledon, nel 2013, dopo una sconfitta crolla in lacrime negli spogliatoi: «Quel giorno, ho davvero pensato di ritirarmi». E invece trae linfa dalla sofferenza, agli Us Open di 50 giorni dopo risorge e la rinascita passa anche attraverso un quarto di finale proprio contro la Vinci. Vince Flavia, ma il passato non si scorda e quando tornano in Italia passano qualche giorno insieme al mare. Roberta intanto è a ridosso delle top ten in singolare, ma presto tornerà giù, riempiendo la bocca di chi continua a considerarla troppo leggera fisicamente e mentalmente per stare a quei livelli. In più, a inizio 2015, scoppia la coppia con Sara Errani, e la discesa sembra non finire più. Ad aprile, mentre l’Italia proprio a Brindisi rimane in serie A di Fed Cup battendo gli Stati Uniti di Serena Williams con la Pennetta eroina del punto decisivo, la Vinci, ufficialmente infortunata a un ginocchio, non è neppure in tribuna a fare il tifo. Pare la fine di una bella favola. Ma come Flavia due anni prima, le porte dell’inferno improvvisamente conducono al paradiso e Robi risale con la tenacia di una formichina e l’eleganza dei suoi gesti bianchi, fino all’esplosione newyorkese, in cui scrive la storia impedendo il Grande Slam alla numero uno del mondo. In finale, come sui campi in terra rossa secchi e assolati di vent’anni fa in Puglia, cinsarà incredibilmente Flavia. Amiche contro. Donne d’Italia.

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GIANNI VALENTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 12/9 –
We love you! Roberta e Flavia ci avete fatto impazzire di gioia, siamo orgogliosi di voi. La finale tutta italiana che andrà in scena questa sera a New York è uno dei risultati più straordinari nella storia dello sport azzurro. Comunque vada, il nostro tennis femminile ha vinto gli Us Open, uno dei quattro tornei più importanti del mondo. Incredibile, ma vero. Tutto vero. Queste due ragazze più che trentenni ci hanno regalato ieri pomeriggio un’irripetibile sinfonia tennistica lunga tre ore. Con acuti che hanno messo i brividi e fatto esultare a migliaia di chilometri di distanza.
Prima Flavia, magnifica, perfetta. Flavia che batte la numero 2 del mondo Simona Halep demolendola con una facilità estrema. Flavia che esulta con la solita eleganza al termine della partita perfetta, pensa al suo Fabio e manda un pensiero a papà Oronzo, il primo tifoso al quale sarà scappata sicuramente una lacrimuccia.
Poi Roberta, gigantesca contro Serena Williams che proprio nella sua New York aveva l’occasione di mettere a segno il Grande Slam. Roberta che lotta tirando fuori la classe e la rabbia di una carriera intera. Che gioca come non mai e affonda quando deve spegnere il sogno della più forte giocatrice di sempre.
Il meraviglioso spettacolo italiano è cominciato con la Pennetta. Fredda, determinata, con lo sguardo della tigre che non aveva nessuna intenzione di farsi sfuggire la preda, Flavia non ci ha lasciato nemmeno il tempo di soffrire, di palpitare, di dubitare un istante sul fatto che la semifinale potesse davvero vincerla. La sua determinazione ha sorpreso e travolto l’avversaria, schiantata in poco meno di un’ora. E pensare che solo due anni fa questa cocciuta ragazza brindisina era sul punto di abbandonare il tennis per problemi al polso che parevano irrisolvibili. Poi la rinascita e un’incredibile seconda giovinezza le hanno allungato la carriera.
Da Flavia a Roberta, con l’animo felice e tranquillo perchè una finalista l’avevamo già portata a casa. Diciamo la verità, non ci speravamo più di tanto. Il confronto pareva davvero impari. Serena faceva paura solamente a guardarla tanta era la grinta dipinta nei suoi occhi. E invece la docile Robertina prima l’ha fatta sfogare e poi ha cominciato a infilzarla con il suo marchio di fabbrica, il rovescio in backspin. Rasoiate che game dopo game hanno sfiancato la Williams facendole perdere sicurezza e concentrazione. Per l’azzurra invece è stato un crescendo. Il tifo dello stadio che naturalmente parteggiava per l’americana l’ha galvanizzata ancor di più. Quando, durante il terzo set, dopo un meraviglioso punto chiuso grazie a una stop volley ha sfidato il pubblico apostrofandolo («Adesso applaudite anche me») abbiamo capito che il miracolo sportivo si stava concretizzando.

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GAIA PICCARDI, CORRIERE DELLA SERA 12/9 –
Pensavamo di averle viste tutte. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, la Schiavone regina di Parigi. E poi due italiane, Flavia Pennetta e Roberta Vinci, arrivano in finale all’Open Usa.
È la finale che non ti aspetti, nel torneo che si era promesso alla più forte di tutte e di ogni tempo, Serena Williams, deragliata come un treno senza più guida né binari a due match dal gol della vita: il Grande Slam nell’anno solare. L’impresa è di Roberta, capace di aggrapparsi all’ispirazione e a un rovescio a una mano da manuale per trascinare al terzo Serenona (40 errori gratuiti in totale), risalire da 0-2 0-40, mandare in tilt il tennis di muscolo dell’americana con un’intelligenza da piccola Minerva made in Italy, capace di non giocare mai una palla uguale all’altra. Se l’estro della Vinci provoca la sorpresa del secolo (2-6, 6-4, 6-4), la regolarità della Pennetta inchioda Serena Halep, numero 2 del ranking, alla disfatta: 6-1 6-3 in appena 59’. Una finale over 30, all italian, in casa dell’americana per cui anche Michelle Obama era pronta a scomodarsi. Crolla il mercato dei biglietti (meno 83% dopo la sconfitta della Williams), volano i nostri cuori al pensiero di questo Us Open trasformato negli Internazionali d’Italia: «Adesso a me e Roberta dovranno fare una statua» scherza, ma forse non troppo, la Pennetta.
È un torneo da matti, impronosticabile (la Vinci con Serena era data 300 a 1), che rispetta le gerarchie nel maschile e fa la rivoluzione con le donne, le nostre donne. Non c’è sorteggio favorevole, non c’è fortuna, quando si arriva in cima a uno Slam. La numero 26 contro la numero 43 (5-4 per Flavia i precedenti). Si conoscono a memoria, si vogliono bene. Chi si concede meno emozioni, vince. Comunque vada, sarà un trionfo.

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GAIA PICCARDI, CORRIERE DELLA SERA 12/9 –
C’è una foto, sulla credenza di casa Pennetta a Brindisi e sul comò di casa Vinci a Taranto, che racconta in un fermo immagine diciassette anni di amicizia. World Youth Cup 1998, prove tecniche di grande tennis. Flavia è quella a sinistra. Ha 16 anni e un miliardo di promesse chiuse strette dentro la giacca della tuta con la zip tirata su fino al collo, forse per non lasciarne scappare nemmeno una. La bellezza mediterranea è ancora in bozzolo, gli occhi che ridono sbucano sotto una frangetta già maliziosa. Roberta è quella a destra. La coda di cavallo come copyright. Stringe in mano una coppa che chissà che fine ha fatto, se nella stanza dei trofei di Oronzo Pennetta al circolo sul lungomare o sulla scrivania di Angelo, il ragioniere con il destino, Vinci, nel nome.
Figlie di papà. Inventate campionesse da italianissime mamme, Concita e Luisa, le cui specialità della casa (la parmigiana di melanzane e il tiramisù) sono leccornie note in tutto il circuito. Se non fossero nate divise da quei 73,4 km sulla strada statale 7 che va da mare a mare, sarebbero sorelle. «Come si affronta Robi? Lasciatemi assaporare la vittoria sulla Halep e poi ci penso...» ha detto Flavia salendo sul taxi che l’ha portata alla Piccola Cucina, il ristorante del Village che ha sfamato le azzurre dall’inizio del torneo. Le belle abitudini non si cambiano. E non c’è motivo di farlo se oggi in finale, per il titolo all italian dell’ultimo Slam stagionale, il torneo prenotato da Serena Williams che all’improvviso è diventato una questione tra pugliesi da combattimento, affronti la tua migliore nemica.
C’è un’aria magica in questo angolo di Sud trapiantato sull’altra sponda del fiume, là dove le mille luci di Manhattan si diradano per diventare il quartierone popolare del Queens, cuore pulsante Corona Park, l’erba dei sogni delle campionesse partite da lontano che hanno imparato a volersi bene da bambine. Flavia ha trovato una seconda casa a Barcellona, dove coach Navarro ha saputo resuscitarla da un brutto infortunio al polso (ecco il perché della fasciatura) e dove la convivenza da globetrotter con Fabio Fognini («Stupendaaaaa» ha twittato lui ieri) è diventata un nido d’amore in pianta stabile, il focolare dove donna Pennetta si ritempra dalle fatiche del tour e ricama progetti di famiglia.
Roberta ha trovato in coach Cinà, siciliano, un motivo più che valido per piantare le tende a Palermo, zona di Mondello, dove continuerà a vivere anche dopo la carriera. Si vedono, da sempre, ai tornei. L’amicizia si è cementata in Federation Cup, la Davis rosa che il nostro gineceo (Schiavone ed Errani le altre moschettiere) si è annesso ben quattro volte, scannandosi a burraco la sera e triturando avversarie la mattina dopo. La Vinci c’era quando Flavia si ritrovò con il cuore spaccato dal tradimento di Carlos Moya. La Pennetta ha saputo tacere, e poi ascoltare, quando da un infausto match di Fed Cup a Genova, lo scorso febbraio, la premiata ditta Errani-Vinci è uscita a pezzi, sul campo e nei sentimenti. La resilienza è una delle loro, molto femminili, virtù: uscire più forti dalle batoste della vita.
Trovarsi a New York, a 65 anni in due, in cima a una strada ampiamente percorsa insieme, è una meravigliosa sorpresa. La Pennetta, che meditava il ritiro a fine anno, è la veterana che gioca leggera di gambe e di testa, è stata la prima italiana nelle top-10 (agosto 2009) e a questo tennis ribaltato dall’innamoramento per le nostre girls non ha più molto da chiedere, se non il titolo Slam che manca; e poi chi lo tiene più Oronzo, sul lungomare Regina Margherita, con la bandiera al collo e l’orgoglio che gli scoppia nelle vene? La Vinci, che era finita sotto terra dopo la separazione dalla Errani, ha rimesso insieme i pezzi grazie al talento che ha permesso il miracolo con la Williams ieri, gesti bianchi contro guantoni e racchetta, perché solo chi abita in paradiso, sostenuta dagli dei del tennis, può realizzare il più clamoroso kappaò sportivo della storia moderna. «Come ho fatto? Fammi un’altra domanda...» ha riso incredula la Robi con lo scalpo di Serenona in mano: «Quando mi sono svegliata mi sono detta: non pensare a chi hai di fronte e al Grande Slam che sta per fare. Divertiti. Metti la palla in campo e corri. Così ho vissuto il miglior giorno della mia esistenza».
Le vite parallele di Flavia e Roberta sono più belle delle favole ascoltate da bambine. Avevano in programma un giro di shopping, invece s’incontrano sul centrale di Flushing. La Puglia, vista da qui, sembra appena al di là dell’Hudson. Ed emigrare non è mai stato così dolce.

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GAIA PICCARDI, CORRIERE DELLA SERA 10/9 –
Little Italy ha cambiato indirizzo. Corona Park, Flushing Meadows, Queens. Provincia allargata di Brindisi e Taranto. Dopo friselle e orecchiette, sono Flavia Pennetta e Roberta Vinci i prodotti d’esportazione che spopolano a New York. Dalla Puglia con furore. Nel torneo prenotato da Serena Williams, la padrona di casa, ci sono due italiane con il sorriso che incanta in semifinale. Dodici mesi di differenza, hanno iniziato a girare il mondo all’unisono. Da ragazze, prima che la Robi incontrasse la Errani e che la Flavia sfondasse il muro delle top 10 (una primizia per il tennis italiano femminile: correva l’agosto 2009), giocavano il doppio insieme. Piccole donne crescono, ed eccole qua, impegnate a ridisegnare la piccola geografia di un grande Slam.
Il ruggito delle pugliesi è la musica che non ti aspetti nella bolgia infernale di Flushing, lo stadio da 23 mila posti in cui l’America rumina sogni e hot dog.
La Pennetta in questa friggitoria a cielo aperto ha già raggiunto una semifinale (nel 2013, battuta dalla Azarenka), a New York si trova a suo agio come sul lungomare Regina Margherita (è arrivata almeno nei quarti di Flushing nelle ultime sette partecipazioni), l’elettricità dell’Us Open è un balsamo da buttare giù d’un fiato, prima che Petra Kvitova (60 errori non forzati e 9 doppi falli) si renda conto dell’enormità di cui la stanno scippando: Flavia ha più testa, gambe e cuore, recupera un match che sotto 6-4 e un break (3-1) pareva defluirle lentamente dalle vene, sembra esangue e invece è viva e palpitante, lotta insieme a noi, meravigliosamente tonica a dispetto della rispettabile età.
«In una partita così ti passa di tutto per la testa: come vorrei giocare, come invece sto giocando, il caldo, la tensione... La pressione gioca brutti scherzi. Devi azzerare la mente e pensare punto su punto». La veterana sa come si fa. Ha l’esperienza: dieci titoli Wta, quattro Fed Cup, più tutto il resto (se il boyfriend, Fabio Fognini, avesse un grammo della presenza di sé che Flavia sa sempre butta-re oltre l’ostacolo, oggi parleremmo di nozze d’oro a New York: «Immensa», si congratula Fogna con la futura sposa su Twitter).
Roberta ha l’allenamento delle maratone in doppio con la Errani, la palestra in cui ha imparato a soffrire, a gestire i momenti importanti di un match, a ribaltare scenari apparentemente già scritti. Stanotte contro Serena Williams, lanciata verso il Grande Slam doc (cioè realizzato nello stesso anno solare) che la traghetterà da campionessa assoluta a Immortale, la Vinci dovrà issarsi in una stratosfera che non le appartiene, ma che sarebbe bellissimo sperimentasse, nella terra delle opportunità, come omaggio alla carriera.
Sessantacinque anni in due. Le architravi della generazione di fenomene che ancora si fa valere in giro per i courts, e già ci manca. Come Flavia e Roberta ce n’è poche in giro. Mai due azzurre si erano trovate contemporaneamente in semifinale in uno Slam. La Vinci, riciclatasi in doppio con la Knapp, punta ai Giochi di Rio. La Pennetta meditava il ritiro alla fine della stagione. Ha in mente una famiglia, dei figli, una villetta a schiera con i vasi di gerani alla finestra dopo una vita da globetrotter. Oggi trova Simona Halep, con cui conduce nei precedenti 3-1 (ma l’ultima volta, a marzo sul cemento di Miami, ha vinto la rumena).
Nel braccio delle nostre arzille vecchiette c’è ancora troppo tennis perché questa storia finisca qui, tra un pop corn e un rutto alla Cocacola sulle tribune di Flushing Meadows, provincia allargata di Brindisi e Taranto, United States of Puglia.
Gaia Piccardi

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STEFANO SEMERARO, LA STAMPA 12/9 –
«Sorry, guys». Scusate ragazzi, scusa tanto America, e anche tu Serena Williams, che speravi nel Grande Slam. Scusate tutti, ma questo resterà per sempre il grande giorno dell’Italia del tennis: ieri, undici settembre. Oltre che il «più bel giorno della mia vita», come è riuscita a dire Roberta Vinci, incredula Alice fra le sue meraviglie dopo due ore di lotta, tre set pazzeschi, le lacrime, la tensione che la scuoteva anche dopo la fine di tutto. Dopo aver messo le mani alle orecchie per incitare il centrale di Flushing Meadows sotto shock per un evento che pareva irreale, la caduta della Pantera contro lo scricciolo di Taranto, una ragazzina di 32 anni capace di giocare un tennis divino, fosforo e grinta, che infilata dentro l’imbuto enorme dell’Arthur Ashe Stadium, compiuto l’ennesimo incanto a rete - Serena piegata in due sul cemento, e sull’orlo dell’isteria - chiedeva orgogliosa e confusa, metà Rocky e metà Pietro Mennea, gli occhi colmati di un’allegria folle: «Coraggio, gente, adesso tifate anche un po’ per me». Applaudi, America. Se lo è meritata.
Cresciute insieme
Oggi Flavia Pennetta e Roberta Vinci giocheranno la finale degli Us Open femminili. Bisogna dirlo e ridirlo, ripeterselo a voce alta. Con calma, perché non è Scherzi a parte: è la realtà. Anzi, qualcosa oltre la realtà (sportiva, s’intende). Un trionfo immane, che Flavia & Robi, le amiche di infanzia cresciute a 40 chilometri di distanza una dall’altra, fra Brindisi e Taranto, dividendosi camera e trofei per anni nei tornei juniores, come se non bastasse si sono costruite battendo la numero 1 e la numero 2 del mondo. Prima il successo da dominatrice della Penna (numero 26 Wta) su Simona Halep (6-1 6-3), la judoka del tennis, spezzata a furia di dritto avvelenati e rovesci di fuoco, poi l’impensabile impresa di Roberta (numero 43), domatrice della «più Grande Giocatrice della Storia», e per giunta in rimonta, recuperando un set e poi un break nel terzo. Finale 2-6 6-4 6-4.
Fosforo e tecnica
La rivincita dell’intelligenza, di un tennis ragionato, molto made in Italy, che si è fatto strada nella tonnara di picchiatrici-urlatrici che è diventato il tennis moderno. Forse la più grande sorpresa dello sport di tutti i tempi (pensateci), probabilmente una delle imprese più esaltanti dello sport italiano, da conservare nello stesso scaffale dei trionfi del calcio, di Federica Pellegrini, di Valentino Rossi. Sicuramente la prima finale tutta italiana in uno Slam, non solo in campo femminile. Fino a ieri tutto o quasi il nostro raccolto l’avevamo mietuto sul rosso di Parigi: due vittorie e due finali di Pietrangeli negli anni ’60, una a testa di Panatta nel ’76 e di Francesca Schiavone nel 2010 (finalista anche nel 2011), poi la finale del 2012 della Errani. Per quasi un secolo New York prima che una terra promessa era stato un approdo proibito, negli ultimi anni proprio le ragazze, una generazione di fenomeni in rosa «stappata» dal successo della Schiavone a Parigi, avevano iniziato le manovre di ormeggio. I derby Errani-Vinci e Pennetta Vinci nei quarti, le due semifinali di Flavia e Sara erano il segnale che il vento era cambiato. Che l’America, un paese letteralmente costruito da tante mani di migranti italiani, anche pugliesi come Flavia e Roberta, non era più un muro di cemento impraticabile. «Brava Roberta, ha giocato la partita della vita», ha ammesso la Pantera, groggy ma onesta, con il sogno del primo Grande Slam dai tempi di Steffi Graf (1988) che le evaporava dallo sguardo. «Serena non era al massimo, ma la Vinci ha giocato in maniera fantastica», ha ribadito Mats Wilander. «Il buffo è che venti giorni fa il mio fisioterapista mi ha chiesto se pensavo di arrivare mai ad una finale di uno Slam. E io gli ho risposto di no...», ha scherzato la Pennetta, anni 33, che un anno fa di questi tempi meditava il ritiro. «Stamattina mi sono svegliata e mi sono detta: okay, c’è la semifinale con Serena, divertiti. Ma non pensavo di vincere. Nell’ultimo game tremavo tutta, ora mi sembra tutto un sogno», ha detto stremata la Vinci. Dividetelo pure, ragazze, perché non finirà più.

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PAOLO BRUSORIO, LA STAMPA 12/9 –
Se è un sogno non svegliateci, vogliamo continuare a dormire e prolungare l’estasi all’infinito. Due italiane in finale agli Us Open, uno dei sancta santorum del tennis, e dopo aver battuto la numero la numero uno e la numero due del mondo. C’è qualcosa di antico in questa impresa, c’è il profumo di un lavoro cominciato in casa e perfezionato all’estero, in Spagna soprattutto, da due ragazze venute grandi insieme e ritrovatesi Grandi insieme in un weekend indimenticabile. Lo sport italiano rialza la testa e che fosse una settimana speciale l’avevamo già intuito trepidando per la Nazionale di basket e appassionandoci alla conta dei secondi per quel fantino della bici che è Aru. Non faremo sistema, e quando lo facciamo sono sempre splendide eccezioni, usciamo da un’estate in chiaroscuro dopo i mondiali di nuoto e di atletica, abbiamo qualche seria preoccupazione per come arriveremo ai Giochi di Rio 2016, ma questo settembre è dolce come un babà. A New York si parla italiano e nessuno se lo aspettava: la storia ci ha strizzato l’occhio, Pennetta e Vinci hanno raccolto l’invito e non si sono fatte pregare per scriverla e mettere la loro firma. Oggi si sfideranno come quando erano ragazzine: quando i sogni non morivano all’alba. Proprio come ora.

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STEFANO SEMERARO, LA STAMPA 10/9 –
La Little Italy abita lì: a New York, sul centrale di Flushing Meadows. Piccola solo nelle distanze, visto che nelle semifinali degli Us Open quest’anno abbiamo traslocato una fetta di Puglia, uno spicchio di Italia solare e grintosa da Taranto a Brindisi, da Roberta Vinci a Flavia Pennetta. Ma grande nel talento – che da sempre manda in visibilio i neworchesi, si tratti di Eataly o Michelangelo - nella creatività, nella passione, nei risultati.
Kvitova ko 2-6 6-4 6-2
Semifinali che accumulano storia su storia, scavando l’ennesima impresa dentro il solco di una generazione che già ci ha regalato immensità: dopo il successo a Parigi di Francesca Schiavone nel 2010 sono arrivate 2 finali Slam (sempre a Parigi, di Francesca e Sara Errani) e 5 semifinali, le ultime due raccolte martedì da Roberta contro la Mladenovic e ieri sera da Flavia contro Petra Kvitova, la numero 4 del mondo. Dicasi: la bicampionessa di Wimbledon. Un match alla Penna, fosforo e tigna, strappato dentro un caldo feroce, al terzo set (2-6 6-4 6-2), rovesciando un match ripido come un sesto grado vissuto tutto a un millimetro dallo sprofondo, punti pesanti e respiri sottili. «In certi momenti non è solo il caldo, l’umidità: è il pensiero del traguardo che ti affatica. Alla fine ho badato solo a spingere e allungare il match».
Come Pietrangeli e Sirola
Per lei è la seconda semifinale sul cemento della Grande Mela, per Roberta la prima Slam in assoluto; in tutta la storia del tennis italiano solo Pietrangeli e Sirola, nel 1960 riuscirono ad spingersi così lontano nello stesso Slam. Flavia nel 2013 per arrivarci aveva stropicciato l’amica d’infanzia, la ragazza Roberta con cui negli Anni 90 formava la coppia magica del tennis italiano. «Io e Roberta siamo cresciute insieme, abitavamo a 40 chilometri di distanza. Per anni abbiamo diviso la camera, più che colleghe eravamo sorelle». Si conoscono e si studiano dai tempi dei tornei under 10, tutta una carriera juniores in nazionale, fino al titolo di doppio vinto al Roland Garros under 18. Poi è arrivato il salto fra le grandi, una faglia che le ha separate, complice l’anno di stop di Flavia per colpa del tifo. Roberta cambiò allora compagna di doppio, incrociando prima la francese Testud poi per anni formidabili Sara Errani, ma è sempre rimasta ad allenarsi in Italia, fra Roma e Palermo dove ha trovato il suo attuale coach, Francesco Cinà. Flavia per diventare grande è emigrata in Spagna, come la Errani con cui ora fa coppia in doppio dopo aver cambiato partner illustri, dalla argentina Dulko (con cui ha vinto un Australian Open) alla russa Kirilenko, a Martina Hingis. Si sono perse ritrovate su questa rotta molto produttiva, dalla Puglia alla East Coast, incrociandosi nei tornei, aiutandosi in Fed Cup. Scambiando e mescolando sogni. Fla’ la piccola Loren che in campo si «intesisce», diventa «gialla» (copyright è di papa Oronzo) ma non molla mai, prima top-ten della storia del nostro tennis rosa; Robbi che ha imparato a distendere i nervi per affilare i colpi e in doppio si è presa 5 tornei dello Slam. Mitiche, si dice così?
Contro Halep e Williams
Si ritrovano insieme sul centrale, 32 anni la Vinci, 33 compiuti la Penna, in fondo a questa stagione che prima di New York pareva un malincuore e puzzava di tramonto, infilate in due imprese apparentemente impossibili, specie per Roberta che sfida Serena Williams (Flavia trova invece la Halep), la Pantera nera in caccia del Grande Slam. «In campo andrò con il casco – sorride – per ora mi tengo questo risultato, l’ennesimo di questo gruppo. Un premio per averci creduto anche quando le cose non giravano». Ne avete fatta di strada, sorelle d’Italia.

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LEA PERICOLI, LA STAMPA 10/9 – 
Brava Flavia, brava Roberta: sono entusiasta di queste ragazze che non smettono mai di darci gioie. In tutti questi anni, fra i tornei e la Fed Cup hanno fatto miracoli, sono donne fantastiche, al punto che ormai per me è difficile trovare degli aggettivi. Tecnicamente sono due atlete diverse. Roberta gioca il tennis di un tempo: fantasia, tocco, la perfezione della volée. Sembra uscita da un manuale classico. Flavia ha uno stile più moderno, ma quello che le accomuna è la grinta, l’impegno, la passione che mettono in quello che fanno. È straordinario poi vederle sempre protagoniste a 32 e 33 anni. La verità è che loro due sanno «ragionare» di tennis in campo, mentre le tante bambine prodigio di oggi spesso sanno solo picchiare, tanto che finiscono per... picchiarsi da sole. Flavia e Roberta sono un esempio per tutti, non solo nel tennis, e confermano che sono le donne le vere protagoniste di questi anni dello sport italiano. Ora le attendono due semifinali sulla carta impossibili. Lasciatemi però sognare una finale tutta azzurra. Io spero di risvegliarmi felice.

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ENRICO SISTI, LA REPUBBLICA 12/9 – 
Immense. Il tennis di New York non ha ancora un tetto, così Flavia Pennetta e Roberta Vinci sono salite sul tetto del mondo. Si sfideranno nella finale di un Major, due italiane, due di noi, due ragazze normali, che giocano un tennis d’altri tempi che ricorda l’odore del legno, esprime eleganza, non ha bisogno di deltoidi selvaggi. Se ne stanno felici lassù, nel punto più alto della loro esperienza agonistica, alla faccia dei sogni di Serena, che dovrà rassegnarsi a pensare ad altro perché, almeno per quest’anno, il Grande Slam si è spento come un televisore vecchio, e in barba alla predestinata Simona Halep. Viva l’Italia, piccola nazione dello sport capace di accendere luci tanto accecanti e regalare a uno sport alti valori tecnici e sentimenti forti. Non è mai accaduto che il giorno della finale di un Major, prima ancora di giocarla, si potesse mettere in un titolo: “Un’italiana ha vinto lo Us Open 2015!”. Saranno loro a decidere oggi chi prima chi seconda (ma comunque prime entrambe). Le nostre ragazze del muretto, degli anni Ottanta, pugliesi. Queste ragazze simbolo del tennis delle ultratrentenni si conoscono da una vita, hanno condiviso infanzia, adolescenza, sono state amiche, insieme hanno vinto il doppio junior a Roland Garros. Avevano percentuali di riuscita minime, Flavia il 35%, Roberta il 10%. E invece hanno dominato la n.1 e la n. 2 del mondo travestendole da comparse. La rumena ha finito per sembrare la controfigura di se stessa, l’americana, stremata, pareva una signora su con gli anni e su col peso che aveva deciso di concedersi un’esibizione nel giorno del suo compleanno, così, tanto per far ridere i convitati. Vittorie schiaccianti. Tre anni fa, mentre i suoi colleghi giocavano qui a Flushing Meadows, Flavia postava una foto col polso fasciato. Si era appena operata a Barcellona, era il 31 agosto del 2012: “Ciao a tutti, torno presto”, scrisse sorridendo, come se avesse senso mettersi lì a discutere o a lamentarsi per uno “scafo lunare” malandato e rimesso in sesto chirurgicamente. Non aveva specificato un particolare, Flavia, in quel post: che sarebbe tornata più forte di prima. Flavia, che vive a Barcellona, raccoglie la semina avviata 28 anni fa da papà Oronzo, che la conduce al campo a 5 anni e le promette che un giorno l’avrebbe portata a vedere gli Internazionali al Foro Italico e, una volta cresciuta, le avrebbe comprato il completino di Monica Seles. Flavia ha giocato con una pazienza geniale. Ha strappato il servizio due volte alla Halep nel primo set, è risalita dall’1-3 nel secondo. Rovistando fra le cianfrusaglie del suo brutto tennis di giornata, la Halep non ha trovato la forza per entrare in partita: «Anche se alle tre di notte ero sveglia e mi rigiravo nel letto. L’atmosfera di questo posto è magica su di me».
Flavia non si vede senza tennis: «Eppure inizio ogni stagione pensando che potrebbe essere l’ultima. Però amo questa vita, accidenti, non mi pesa viaggiare, e soprattutto adoro allenarmi, quindi non sento il sacrificio. E’ l’amore per il tennis che non si vede, la fatica della preparazione, che ti fa giocare bene a tennis davanti alla gente». In ogni caso meglio vivere alla giornata: “Sempre”. Meglio ancora se durante la giornata c’è una finale tinta d’azzurro da giocare.

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GIANNI CLERICI, LA REPUBBLICA –
Stappiamo lo champagne, mi dice mia moglie. Meglio lo spumante, rispondo io, mentre mi sento curiosamente patriottico, e, nel mio europeismo, nazionalista.
Perché sia Robertina, sia Flavia, vengono dalle Puglie, da due città come Bari e Taranto dalle quali mai, prima di loro, era uscito mezzo tennista.
Robertina ha addirittura avuto il tifo contro, forse, su ventimila persone, in tribuna, c’era una decina soltanto di chi teneva per lei, tra le quali il suo bravissimo allenatore palermitano, Francesco Cinà. Ad un punto, e che punto, ha addirittura alzato le braccia con un mimo di provocazione, contro tutti quegli americani che, contrariamente alla loro abituale sportività di baseball e football, facevano tifo contro la straniera. Serena andrebbe immediatamente accolta dall’Actors Studio, per le sue capacità di rendere quello che era dopotutto un match di tennis, una tragedia continua.
Disseminata di gemiti, tensioni al viso e alla bocca che parevano crampi, rictus da far temere quantomeno un’appendicite, e improvvisi sorrisi di liberazione in uno dei pochissimi colpi riusciti. Perché la fondamentale, grande differenza tra le due, è stata che Serena ha giocato soltanto i colpi, mentre Robertina non ha mai perso di vista la partita. E, prima di lei, un’altra che era riuscita, nel mezzo di corse mozzafiato, a non perdere mai di vista il risultato, era stata la mia amata Pennetta.
Mi entusiasmai la prima volta che vidi su un campo, a Bari, una adolescente bella come un’attrice tipicamente mediterranea, diciamo Antonella Lualdi, che tirava diritti e rovesci quasi fosse la Evert. «Mi pare incantevole, oltre che promettente», dissi ad un mio ignoto coetaneo che seguiva sorridendo lo spettacolo. «Tanto carina che, avessi quarant’anni meno, mi proporrei non solo come suo coach, ma come suo sposo». Il signore si presentò «Oronzo Pennetta, papà di Flavia». Sono passati, da allora, una quindicina d’anni. Dopo averla vista giocare una delle migliori partite della sua vita, vorrei ringraziare un mio concorrente, un tipo che invidiai sino a trovarlo antipatico, un bellone da spiaggia che si chiama Carlos Moya, e di Flavia fu fidanzato.
Quel matrimonio tanto vicino non doveva verificarsi. Fui intervistato da una starlette televisiva, e tempo dopo, a Barcellona, venni a sapere che questa era stata sorpresa intimamente sdraiata fianco al famoso tennista. Senza quella sua disinvolta trasgressione forse oggi Flavia sarebbe divenuta la bellissima mamma di un paio di bambini spagnoli, e non avrebbe certo trovato la forza umana per essere la finalista degli US Open. Grazie, Carlos Moya, mi sento di scrivere.

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ENRICO SISTI, LA REPUBBLICA 10/9 –
NON era una Petra così dura, la Kvitova, si poteva scalfire. Sfiorandola appena, Flavia Pennetta l’ha battuta in rimonta (4-6, 6-4, 6-2) e si è conquistata la sua seconda semifinale a Flushing Meadows, dopo quella del 2013. Dunque non importa che sia stata una partita mediocre, che abbia avuto un andamento discontinuo, che sia stato uno spettacolo senza sugo, scondito di bellezze al punto che i più sinceri applausi del pubblico sono andati a una “svirgolata” di dritto sotto rete della Kvitova. Non importa che Flavia abbia aspettato troppo, che abbia preferito la passività all’azione (il che l’ha portata per più di un’ora a giocare due metri fuori dal campo). Se vinci, va bene comunque. Flavia non aveva capito di avere a che fare con un’avversaria in difficoltà, dai movimenti macchinosi e soprattutto capace di commettere uno spropositato numero di errori gratuiti (50). Forse l’ha capito solo alla fine, quando Kvitova aveva abdicato. Flavia raggiunge Roberta Vinci. Gli ultimi due giorni dello Us Open 2015 rimarranno nella storia del tennis italiano: è la prima volta che due azzurre approdano insieme nella semifinale di un Major ( gli unici maschietti che ci sono riusciti furono Sirola e Pietrangeli a Roland Garros nel ’60). Partite alla pari (3-3 negli scontri diretti), Flavia e Kvitova cominciano a tremare quasi subito, alternandosi con fraterna comprensione negli scantinati delle brutte giocate. Si accorgono che non c’è un solo colpo del loro repertorio del quale possano fidarsi, nemmeno quelli più cari (l’accelerazione di dritto per la ceca, il lungolinea di rovescio per l’azzurra). I servizi rimangono ballerini, almeno tre doppi falli condizioneranno l’esito di altrettanti break. Kvitova vince il primo set sempre camminando sulle uova. Trova qualche micidiale seconda di servizio a 160 km/h: ma non ha altri meriti. Hanno il viso preoccupato, sembrano scontente entrambe. Come dargli torto. La Kvitova sta giocando male, la Pennetta poco. Sotto di un set, Flavia cerca una maggiore aggressività. Gli scambi di livello si contano su una mano, Flavia non si accorge che farebbe bene a mollare palle scariche sulle quali la Kvitova è in perenne ambascia. Anche nel secondo set la partita resta avara, antipatica. Neanche a farlo apposta, ogni santo gioco che il dio del tennis manda in terra riassume tutti i limiti di giornata delle contendenti, tanti piccoli Bignami di una partita tecnicamente da dimenticare. Flavia accumula punti perché l’altra non si controlla davvero più: ormai sbaglia di metri. Una rapida risposta al servizio (forse il colpo che le ha dato più punti puliti) regala all’azzurra il break decisivo per il secondo set. Nel terzo la Kvitova è come intontita, sbanda nel tornare a sedersi e in campo fissa il vuoto: è in via di scioglimento. Il break di Flavia nel quinto gioco è terminale: «Ho combattuto su ogni punto, ora sono emozionata, non pensavo di vincere questa partita dopo il primo set perso. Non è stato un macth di qualità, ma contava andare avanti, anzi contava tutto, il caldo, la tensione, quello che vuoi fare, quello non devi fare».

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GIANNI CLERICI, LA REPUBBLICA 10/9 –
Non appena ho visto l’abbraccio di Venus a Serena, dopo che quest’ultima l’aveva battuta, sono rimasto incantato da quella immagine, e mi sono chiesto se un fotografo sensibile, l’italiano Gianni Ciaccia, o l’americano Art Seitz, avessero scattato in tempo una foto indimenticabile. Perché? Ma perché ho pensato di scrivere due lettere. Una a Todd Martin, una a Vito Tongiani. Chi sono costoro? Todd Martin è stato un campione, ora Presidente della Hall of Fame, e ha un’ottima cultura. Vito Tongiani è lo scultore che vinse il concorso indetto dal mio amico e partner di doppio Chatrier, per scolpire le statue dei Quattro Moschettieri francesi che adornano la Piazza del Roland Garros e, in seguito, il bassorilievo della mia amata Suzanne Lenglen, la campionessa priva di biografia, che mi costrinse a scriverla. L’abbraccio mostrava qualcosa che non ho mai visto su un campo di tennis. La stupenda Venus aveva fatto del suo meglio per vincere, non ci era riuscita, e il suo sorriso era dolcissimo, addirittura felice, non per aver perso, ma perché sua sorella piccola aveva vinto. Sarà certo inesatto, magari grottesco, scrivere “sorella piccola“, a proposito di un’atleta quasi deformata dall’eccesso dei muscoli, a stento contenuti dall’abituccio rosa-nero, quale Serena. Ma, mentre Serena era raggiante per aver superato la partita secondo me più difficile che ancora la separa dal Grand Slam, la sorella sconfitta, dopo un match duro, di gran livello, era felice per lei come fosse stata la mamma. Giusto quanto mi disse Fulvio Scaparro, a proposito di un complesso positivo, tra sorelle, una sorta di complesso materno della più grande.
Nella mie due lettere pregherò Tongiani di dedicare parte del suo tempo e del suo talento ad una statua che, al contempo, pregherò Todd Martin di richiedergli. Una statua che rimanga, per mille anni, nel Museo del Tennis di Newport, e che racconti la storia di un match diverso da tutti, un match in cui la perdente è stata felice per la vincente. Un match in cui l’umanità prevalga su quella che è la genesi dello sport. Vincere o perdere la partita.

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GIANNI CLERICI, LA REPUBBLICA 31/8 –
«A oh Dottò, che ce vuo fà, ’na bbioggrafia?» mi ha detto l’ incaricato dell’archivio, dopo avermi spedito l’equivalente di trecentoquarantuno pagine dedicate in articoli a Serena Williams. Preleverò una minisintesi, perché ciò che ci chiedono, aficionados di tennis e addirittura lettori, altro non è che una risposta a: «Riuscirà Serena a realizzare, con la vittoria nel prossimo US Open, un Grande Slam?».
1) Si intende per Grand Slam, con riferimento al bridge, la vittoria nei quattro grandi tornei tuttora organizzati dalle maggiori Federazioni mondiali, Australian, Roland Garros, Wimbledon, US Open. Simile quadrinomio esiste dal 1933, inventato dal giorno in cui non riuscì a realizzarlo l’australiano Jack Crawford, opposto a New York al britannico Fred Perry al quarto tentativo.
2) Sin qui il Grand Slam è stato realizzato soltanto da 3 tenniste. Maureen Connolly nel 1953, che si giovò delle tracce di poliomielite di cui fu vittima Doris Hart, finalista in tre delle quattro prove. Insieme a lei ci riuscì nel 1970 Margaret Court Smith, australiana, facilitata dal grande viaggio necessario a competere nel Grand Slam di casa, che tra l’altro vinse battendo cinque connazionali. Ci riuscì infine Steffi Graf, nel 1988.
Tra le altre grandi, Martina Navratilova ci andò vicina due volte, riuscendo a vincere una sorta di Slam biennale (tre titoli in un anno più uno nel successivo) che sollevò entusiasmi e critiche nel 1984, prima che un voto di giornalisti, a Parigi, organizzato dallo Scriba, giungesse a negarne la validità.
3) Serena Williams sarebbe la quarta tra cotanti seni, nel raggiungere la Prova del Quattro, che è giunta a sfiorare nel 2002, iniziando la sua carriera tennistica prima del concepimento, quando suo padre Richard – racconta – dopo aver visto Virginia Ruzici in televisione sventolare un assegno, sostituì sul comodino della moglie Oracene, fattrice di altre tre figlie in un precedente matrimonio, le pillole anti concepimento con innocue pastigliette. Nacquero così le due mirabili sorelle, prima nel 1980 Venus, l’anno seguente, Serena. Richard, che a stento conosceva il punteggio, acquistò, forse a rate, una racchetta, si improvvisò allenatore e vaticinò il futuro paradisiaco delle figlie. Ne sono stato testimone assieme a Bud Collins, lo Scriba americano, quando rifiutò di sborsare i mille dollari richiesti da quel visionario afflitto da apparente follia. Serena ha iniziato il professionismo nel 1995 a Quebec City, vincendo in tutto due games contro la poco nota Ann Miller nelle qualificazioni. Nel ‘96 papà la rimandò all’asilo, ma l’anno dopo eccola raggiungere il fatidico n. 99, battendo tra l’altro in un solo torneo, a Chicago, la Pierce e la Seles (n. 7 e 4 mondiali) partendo dal n. 304.
Inizia di lì una vicenda che sarebbe interessante sviluppare, chiamata Williams versus Williams, o meglio Venus contro Serena. In simile vicenda ho creduto spesso, insieme a più autorevoli colleghi, di intuire la presenza del padre padrone Richards, che secondo noi giungeva addirittura a tracciare i copioni del sorellicidio, regista sin troppo presente, nel suo ego-bi-centrismo.
Papà si sarebbe comunque allontanato dal suo presunto ruolo, dopo una vicenda famigliare nella quale la moglie gli cadeva su un gomito fratturandosi tre costole, e che lo sceriffo locale attribuiva, chissà perché, ad una famigliare che si era rifiutata di testimoniare.
Quasi contemporaneamente, nel 2010, insieme a lui vedevamo apparire una bella moretta, di un anno più anziana di Venus, tale Lakeisha Graham, presto allattante un morettino, in fondo fratellastro delle tenniste, che già ne avevano avute tre, una della quali, Yetunde, uccisa da un gangster di Compton, luogo di nascita non proprio ideale.
Dicevo dei match tra le sorelle, e avrei chiesto al mio amico e specialista Fulvio Scaparro, se mai esistesse un complesso dal nome greco, che, come altri ben noti, potesse meglio definire i rapporti tra Serena e Venus. «La sorella più anziana nutre sentimenti materni», mi sarebbe stato risposto, e sarei stato quindi respinto nei miei umili territori del diritto e del rovescio. Per quanto di segreto accade dentro a noi, dovrei forse rivolgermi alle annate negative di Serena, e soprattutto al primo turno di Parigi 2012, quando la vidi battuta da una tipa qualunque, Virginie Razzano, figlia di un pugile italiano emigrato, in tre set, dopo esser stata vanamente, e due volte, a due punti dal match nel secondo set.
A questa partita, terminata in lacrime e sfasci di racchette, avrebbe assistito un coach francese, di origine greca, Patrick Mouratoglou, che iniziava a prendersi cura di Serena, con risultati negativi soltanto per la propria moglie, presto divorziata. Da quel giorno la Serena vincente ha ripreso a far evaporare la sua controfigura negativa, potenziando soprattutto un colpo già temibile, una battuta mai vista nel tennis femminile. Ma, a questo punto, dovrei provare a rispondere al quesito che mi è stato posto dai miei gestori, e da più di un lettore. Riuscirà Serena a far suo lo US Open, e quindi Grande Slam? Mi rivolgo a mia volta agli oroscopi. Cosa dicono le stelle?
Gianni Clerici, la Repubblica 31/8/2015

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GIANNI CLERICI, 17/3/2014 – 
Come in una gara ciclistica, anche nella vita dopo le salite vengono le discese, era solito dire il grande Gianni Brera. Molto probabilmente, fossimo stati ad ammirare in tv il successo di Flavia Pennetta, quel grande scriba si sarebbe ripetuto, per altro alzando insieme a me in onore di Flavia una coppa di champagne. Flavia ha infatti finito per vincere matematicamente un torneo che già aveva meritato superando Li Na, l’autentica n. 1 del mondo in un momento nel quale Serena e Sharapova latitano.
La vittoria è frutto non solo degli indubbi meriti di Piccola Penna, ma anche del destino, che aveva spesso congiurato contro la nostra Eroina, non solo sul campo ma anche nella vita. La Radwanska battuta in finale non era infatti nelle sue abituali condizioni di corridore inesauribile, e di regolarista maniacale. Un suo ginocchio sinistro, all’inizio vezzosamente celato da una sorta di pennellata rossoblù, è finito incerottato come quello di un calciatore e, a partire dal 2° set, abbiamo visto in campo solo una giocatrice, in forma splendida, e un’altra che non riusciva più a servirsi del ginocchio.
Ma cos’è successo? Possiamo forse dire che esiste una grande scuola, propiziata da chi dovrebbe occuparsene, la Federazione Italiana Tennis? Temo di no, un tentativo passato di quella sorta di ministero, diciamo sottosegretariato, insomma organo pubblico, si verificò trent’anni addietro, quando l’allenatore preposto ad un Centro collocato, chissà perché, a Latina, mi informò, pieno di entusiasmo «Er mio proggetto è de faje fa lo yogurt, vedrai er risultato».
Simpatico equivoco, per chi non avesse inteso che si voleva riferirsi allo yoga: chissà di che sapore, ancora sorrido. Dovremmo, forse, inquadrare il successo di gruppo, nella somma casuale, ma non pertanto occasionale, di quello che sta accadendo alle rappresentanti delle Quote Rosa. Quote che tuttora incontrano un’antica opposizione umana-socio-politica. Opposizione erratissima, ripeto da anni, e le mie righe me ne sono testimoni, se non esistesse anche un autorevole testimonio pronto dichiararlo, la mia collega Concita De Gregorio.
Sara Errani, Flavia Pennetta, Roberta Vinci, per non dimenticare Francesca Schiavone, dimostrano più di una sola cosa.
Primo, che la donna italiana non è più una vittima del macho italico, del quale almeno due delle nostre tenniste non si servono professionalmente, come allenatore, voglio dire. Secondo, che sono state capaci non solo di uscire dalla provincia, ma di scegliere luoghi di studio tra i più avanzati, spaziando oltre i confini, in quella Spagna che è addirittura giunta a sostituire l’America, dov’era dovuta emigrare l’ultima delle loro zie, non dimenticata Raffaella Reggi, ai suoi tempi n. 13. Terzo, che non è indispensabile giungere da una città del Nord, o del Centro, laddove si collocano i maggiori club, ma si può benissimo nascere in due città mediterranee, e meridionali, se è vero che Flavia Pennetta è di Brindisi, e Roberta Vinci di Taranto. Luoghi dai quali non è mai uscito un tennista macho, tra l’altro. Erano nati invece, i machos, nell’Emilia dalla quale proviene Saretta, Emilia che aveva dato i natali a più di un numero uno italiano quali Canepele, Camporese, Gaudenzi, per non parlare dell’adozione del dinarico Sirola.
Un’altra annotazione che riguarda le nostre eroine è se l’origine certo borghese, ma con dissimili denunce fiscali, tra Pennetta, figlia predestinata di un presidente di Club, Vinci, figlia di un contabile, e Errani, figlia di un commerciante. Per parlare un po’ più di tennis, appare ancora più chiara la diversa personalità delle ragazze. Flavia e Roberta, quasi coetanee, giocano l’una il rovescio bimane, l’altra conserva un back-hand addizionale, un colpo insolito quanto elegante e efficace. Flavia è più attaccante dal fondo, Roberta pare addirittura attratta dalla rete, dove le volè non sono certo inferiori allo smash. E’ proprio la capacità di volleare ad aver fatto di Robertina una spalla ideale alla solidità nei rimbalzi di Sara Errani, consentendo alle due i grandi risultati nel doppio, addirittura 4 titoli di tornei Slam.
Poiché non è forse realistico immaginare un lungo futuro a Flavia e Roberta, mi pare il caso di soffermarsi sulle possibilità di quell’autentico fenomeno di Sara Errani, e del suo metro e sessantaquattro, che la bolognese sfrutta al 101%. E’ il suo, un tennis di attaccante dal fondo e da regolarista, ma la manina è tanto sensibile da consentirle le smorzate che, con gli attuali schemi ripetitivi, fanno spesso la differenza. Sesta lo scorso anno, decima quest’anno, Sara è la seconda italiana capace di tanto, dopo la geniale Schiavone vittoriosa in un Roland Garros (2010) e privata di un secondo titolo da un’arbitra feroce nella sua miopia.
Continuerà, mi chiedo, questa molteplice affermazione delle nostre donne, che in passato avevano avuto soltanto una autentica nativa in una semi dello Slam, la Lazzarino, e due di passaporto italiano ma nate in paesi più sportivi, l’americana Maud Levi Rosenbaum, e la tedesca Annelies Bossi-Bellani? Ritirata per ribaditi incidenti Mara Santangelo, potremo contare su una talentuosa Camila Giorgi, o su un gruppetto di juniores che ho il torto di non conoscere? Speriamo si continui così, con le quote rosa nel tennis, di certo più fitte dei maschietti. Speriamo in una Premier Donna, e non solo nel tennis.

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ANGELO MANCUSO, IL MESSAGGERO 12/9 –
Oggi doveva essere il giorno dell’incoronazione di Serena Williams come la più grande di tutti i tempi. È invece il giorno perfetto del tennis italiano, quello che sogni per una vita intera. Quello che ti fa piangere per la gioia, quello che ti fa entrare nella storia. Perché comunque vada stasera nella finale (per la quale sono attesi in tribuna anche il presidente del Coni Malagò e il premier Renzi) abbiamo vinto gli Us Open femminili: due italiane, due pugliesi, in finale agli Us Open. La 33enne brindisina ha travolto, non solo battuto, Simona Halep, n.2 del mondo in semifinale: 6-1 6-3 in meno di un’ora, 59 pazzeschi minuti per l’esattezza. La 32enne tarantina, invece, ha esagerato, mettendo ko la n.1 Serena Williams e fermando la sua corsa verso il Grande Slam. Tre set da favola: 2-6 6-4 6-4 dopo due ore esatte. Nello stadio più grande del mondo, l’Arthur Ashe Stadium, c’è stato chi una lacrimuccia l’ha versata. Come in molti parti di New York, che celebrava la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle Torri Gemelle di 14 anni fa (era il 2001) con cerimonie un po’ dovunque, da Ground Zero a Flushing Meadows. L’11 settembre 2015 è stata anche la giornata del tennis azzurro negli States: petto in fuori con orgoglio, adrenalina a mille e la fierezza di sentirsi italiani. Lo staff della federazione a stelle e strisce aveva già preparato una sontuosa scaletta in vista della cerimonia di premiazione di oggi: festa rovinata. Anche se la Vinci, dopo aver stretto la mano ad una Serena quasi sconvolta, ai microfoni dell’ESPN si è quasi scusata: «Mi spiace gente per quello che ho fatto, ora ho tante cose nella mia testa». E ha quasi chiamato il pubblico che le ha tributato una standing ovation.
LA GIORNATA
E’ cominciata con la Pennetta, che contro la Halep ha dato una dimostrazione di lucidità tattica e freddezza incredibili. Non c’è stata partita, con l’azzurra che ha martellato sin dal primo punto la rumena, di quasi 10 anni più giovane. Il primo set è volato via in 28 minuti: 6-1 senza storia, con la Halep incapace di opporsi alle accelerazioni della brindisina. devastante come sempre con il suo colpo migliore, il rovescio bimane, ma chirurgica per la precisione anche con il diritto e micidiale al servizio. La Halep, che tanto somiglia alla formichina della favola di Esopo, non ci ha capito più nulla. Nel secondo set Flavia è partita con un break, poi l’unico piccolo calo del match: ha ceduto a sua volta il turno di battuta, quindi è andata sotto 3-1. Ma lei sorrideva sicura. Infatti ha infilato un parziale di 5 giochi di fila chiudendo con un diritto vincente. «E’ stato un match con scambi molto lunghi», ha poi raccontato Flavia. «Penso di essere stata superiore nei cambi di ritmo, che lei ha sofferto molto. Cambiando marcia la costringevo a sbagliare, cosa che lei fa di rado. Nel secondo set avevo un attimo rallentato e lei ne ha subito approfittato. Mi sono subito ripresa e anche quando ero avanti non ho più mollato di un centimetro, Contro la Halep a Miami avevo perso un set in cui ero avanti 5-2. Lei non si arrende mai».
NON È SOGNO, MA REALTA’
Quello che è accaduto dopo ha dell’incredibile: neppure il più romantico dei sognatori avrebbe pensato che la Vinci potesse battere Serena, l’Everest del tennis. Il suo rovescio slice che sembra un ricamo, soffice come la seta, come poteva far male a chi invece usa il cannone? Dopo aver ceduto nettamente il primo set, Roberta si è come liberata. Ha vinto il secondo con l’intero stadio contro e Serena che sembrava una belva ferita. Poi il capolavoro nel parziale decisivo: break sul 3-3, è andata a servire sul 5-4 e con una freddezza da campionessa ha chiuso con una demi-volée di rovescio, il suo marchio di fabbrica. Poi è stata l’apoteosi. «Come descrivere questo momento? Non ci riesco», protagonista di una delle più grandi sorprese del tennis femminile di sempre. «Vorrei che Roberta giocasse questa partita per provare a vincere e non solo per fare bella figura. Vorrei che attaccasse su ogni palla, magari rischiando di perdere 6-0 6-0, ma che ci provasse». Lo aveva detto Francesco Cinà, 40enne coach della tarantina, prima del match. Roberta lo ha fatto davvero con una grinta pazzesca. Su un punto conquistato si è rivolta al pubblico con un eloquente: «C… ora applaudite me!». L’azzurra è un fiume in piena: «Sto vivendo sensazioni incredibili, quando sono andata a servire per il match mi sono detto di non pensare. E lo stesso ho fatto per tutta la partita: mi ripetevo corri e non pensare…».
DECIMA FINALE
Quella tra la Pennetta e la Vinci la prima finale nei Major con due italiane, la quarta in uno Slam per il tennis femminile azzurro: in precedenza c’erano riuscite Francesca Schiavone al Roland Garros nel 2010 (vinse) e nel 2011, e Sara Errani nel 2012 sempre a Parigi. A queste vanno aggiunte le sei finali degli uomini, tutte al Roland Garros; una per Giorgio De Stefani (1932), quattro per Nicola Pietrangeli (trionfò nel 1959 e 1960 e perse nel 1961 e 1964) e una per Adriano Panatta (vinse nel 1976).
In tv: ore 21 Eurosport e Deejay Tv (in chiaro)
Angelo Mancuso

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ANGELO MANCUSO, IL MESSSAGGERO 10/9 –
«Vorrei che Roberta giocasse questa partita per provare a vincere e non solo per fare bella figura. Vorrei che attaccasse su ogni palla, magari rischiando di perdere 6-0 6-0, ma che ci provasse». Parole di Francesco Cinà, 40enne coach di Roberta Vinci, che quando in Italia sarà già notte si sfiderà Serena Williams, l’Everest del tennis.
IN CAMPO CON IL CASCO
La 32enne tarantina ci ha già perso 4 volte in altrettanti incontri senza mai strapparle un set. L’ultima sfida qualche settimana fa a Toronto, con la n.1 che si è imposta per 6-4 6-3. «Mi ha fatto i complimenti – racconta l’azzurra – in Canada ho avuto un paio di occasioni si strapparle il servizio. Come affrontarla? Mettendo il casco… E’ la più forte, la super favorita. Però lei avrà più pressione di me visto che insegue un traguardo storico». L’unica italiana che ha battuto Serena con l’emozione del match point vincente è stata Francesca Schiavone nel 2005 a Roma (finì 7-6 6-1). Le altre due sconfitte della statunitense contro tenniste azzurre sono arrivate per ritiro sempre nel 2005 contro Silvia Farina a Amelia Island e nel 2009 ancora contro la Schiavone a Madrid.
LA RISALITA
E’ uscita dalle top 50 (ma grazie alla semifinale agli US Open è già rientrata tra le prime 30), poi pian piano è tornata a galla. Roby ha ritrovato come d’incanto il suo tennis a New York, tra la musica a palla e l’aria densa di cipolle e hot dog che aleggia su Flushing Meadows. Gioca con una racchetta dipinta di nero che nasconde chissà quali segreti: «Saprete tutto lunedì prossimo dopo la finale», scherza. Il nuovo attrezzo l’avrà pure aiutata a uscire dal tunnel, ma l’exploit è frutto del lavoro e della fiducia di chi ha sempre creduto in lei. A cominciare da Cinà, che l’allena da 8 anni, da quando Roberta armi e bagagli si è trasferita a Palermo.
IL TORNEO DELLA VITA
«Abbiamo passato un mese di luglio in Inghilterra terribile, sempre fuori al primo turno – racconta il tecnico siciliano – Roberta vuole sempre vincere e se non ci riesce si incupisce. Dopo Wimbledon abbiamo deciso di prenderci una pausa e ha giocato a Bucarest e Istanbul da sola. Quando è tornata a Palermo era giù, la lunga trasferta americana la spaventava, mi diceva di essere convinta che avrebbe giocato da schifo…». Invece gli US Open sono diventati il torneo della vita. «Roberta continua a insistere in tutte le interviste sulla sua età – conclude Cinà – ora spero che abbia capito quanto conta la testa».

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MAURIZIO CROSETTI, LA REPUBBLICA 10/9 – 
Siamo tutti in quell’ultimo canestro. Abbiamo tutti quella racchetta in mano. Siamo tutti su quella sella, in piedi sui pedali. C’è un’altra Italia, che magari ama anche il pallone, per carità, ma non vive solo di quello. Forse è anche più sana, almeno a livello del tifo. Il resto del Paese in genere si accorge dell’esistenza dell’altro sport ogni quattro anni, solo per le Olimpiadi: stavolta siamo in anticipo di 11 mesi, è persino meglio.
A lungo, Italia-Germania è stata quella del ’70, dei messicani e del 4-3. Poi anche quella di Dortmund del 2006, dei gol di Grosso e Del Piero, sempre ai supplementari. Ora dobbiamo aggiornare il calendario della memoria, c’è una casella in più, ingombrante e piena di passione. Tra l’altro, proprio nel basket abbiamo scoperto una specie di rinascita del talento, quel mistero perduto nel calcio e in altre discipline forse più seguite, invece sotto canestro siamo anche quelli che giocano nell’Nba.
E che dire di Flavia Pennetta e della sua America? Non è mica sola, questa ragazza, in semifinale raggiunge Roberta Vinci: da un po’, da noi, le donne giocano a tennis meglio degli uomini. Forse non è solo una coincidenza statistica, forse quest’onda femminile racconta un’Italia che a volte trascuriamo, quella della pratica sportiva delle ragazze che per essere davvero brave devono essere migliori dei maschi.
E poi c’è la bici di Fabio Aru, un sardo in punta di sellino, isolano come Vincenzo Nibali che l’anno scorso si è preso il Tour: anche in bici sta cambiando la geografia del nostro Paese, con un’onda tellurica che annichilisce tutti i superficiali, tutti quelli che pensano si possa fare del grande sport solo al Nord, solo dove ci sono i soldi.
Queste vittorie sono anche dei bambini che fanno minibasket, tantissimi, dei cicloturisti che si mettono in sella ogni giorno su e giù per l’Italia, di tutti i tennisti della domenica. Perché lo sport non appartiene solo ai campioni che esprime.
Maurizio Crosetti, la Repubblica 10/9/2015

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FABIO SEVERO, UNDICI GIUGNO 2014 –
IL DIRITTO AL ROVESCIO A UNA MANO -
Quando si comincia una scuola tennis spesso ci si trova con il dubbio di quale rovescio utilizzare, incerti tra l‘uso di una o due mani, l‘impatto da privilegiare tra piatto corde e pallina, il movimento di preparazione del colpo. Il dritto è più intuitivo, qualsiasi maldestro movimento di gambe o tardiva apertura con la racchetta porta comunque a un risultato accettabile, almeno per proseguire lo scambio. Sul rovescio si cade nell‘incertezza, presi tra il tennis fantasticato guardando per anni partite in televisione e la presunta naturale predisposizione del proprio corpo. A me ad esempio è stato suggerito di continuare con il rovescio a una mano, da me proposto come colpo prediletto, e del quale il mio maestro, dopo poche palline, ha decretato sposarsi bene con il modo in cui mi muovevo.
Fatto sta che ogni volta che mi trovo a giocare sento una forte ritrosia nell‘eseguire un colpo così poco intuitivo, fatto di tanti pezzi diversi che devono cadere al loro posto al momento giusto. Nel riscaldamento lo uso più liberamente, colpendo piatto senza remore e spesso riuscendo a infilarne qualcuno in sequenza. Appena comincia la partita però l‘esitazione cresce, mi ritrovo a fare quasi solo rovesci tagliati sotto la palla che riesco a mandare oltre la rete più regolarmente, per quanto li esegua in modo poco efficace. Le poche volte che colpisco a sventaglio con tutta la forza e la palla viaggia tesa e veloce mi riempio di orgoglio segreto, e resto lì a guardarla con il braccio in iperestensione, dimenticando di riprendere il centro del fondocampo e finendo col perdere il punto perché l‘avversario la rimanda troppo lontana da me.
Nei circoli quasi tutti gli amatori sopra i trent‘anni usano il rovescio a una mano, perché fa parte del tennis con cui sono cresciuti e perché nessuno di loro si è mai chiesto seriamente come modellare i propri colpi. Quelli che giocano a due mani sono tutti più giovani e quasi sempre più forti, più impostati e con quel minimo senso della propria posizione in campo che manca agli avventori della domenica. Perché nel tennis reale il rovescio a una mano è ormai un gesto antico, feticcio di un‘epoca passata al pari della pellicola fotografica e del vinile. Una rarità nelle nuove generazioni di professionisti, tenuto in vita da una vecchia guardia sempre più ridotta, è lecito immaginare che tra quindici o vent‘anni non ci sarà più nessun Top 100 a utilizzarlo.
Attualmente nei primi dieci della classifica maschile ci sono solo due rappresentanti, Roger Federer e Stanislas Wawrinka, allargando ai primi trenta diventano dieci, uno su tre. Se guardiamo i primi 50 il totale cresce di molto poco, tredici, con un‘età media sopra i 28 anni. Nel singolare femminile ci sono solo due giocatrici tra le prime 50, Roberta Vinci e Carla Suárez Navarro, poco più in basso Francesca Schiavone, che nel 2010 ha vinto il Roland Garros. Nel 2013 proprio a Parigi sembrava che il vecchio gioco si stesse risvegliando, con la metà dei giocatori arrivati agli ottavi maschili dotati di rovescio a una mano. Ma neanche uno ha raggiunto le semifinali, e poche settimane dopo a Wimbledon la tendenza è stata confermata: per la prima volta in assoluto nessuno tra i giocatori arrivati ai quarti femminile e maschile usava il rovescio a una mano.
Come è accaduto che anche nell’ultimo bastione del gioco creativo il tennis si sia adattato alla compressione tattica e al crescente agonismo chiesto dallo sport contemporaneo? Il problema si riassume nella trinità “racchette, palline e superfici”: i materiali dei telai sono sempre più leggeri e con grandi piatti corde, che permettono di colpire con ampio margine di errore e facilità nel dare forza al colpo, anche grazie alle nuove corde sintetiche; le palline sono state diversificate per velocizzare il gioco sulle superfici lente ma non esasperare quelle già veloci; infine le stesse superfici sono state uniformate il più possibile, producendo uno stile di gioco basato sul controllo dello scambio da fondo e la progressiva scomparsa dell‘attacco e del gioco di volo. Leggenda vuole che la partita che avrebbe cambiato il tennis sia stata la finale di Wimbledon del 1994, vinta da Pete Sampras contro Goran Ivanisevic, durante la quale la potenza dei servizi e le continue discese a rete hanno prodotto solo tre scambi arrivati a cinque colpi. Da lì sarebbe cominciato l‘addomesticamento dei materiali, e in breve le racchette da bisturi sarebbero diventate clave molto efficienti.
Nel mezzo di questa ristrutturazione dello spettacolo del tennis la vittima è stata proprio il rovescio a una mano, privato delle condizioni ideali in cui prosperare: con i nuovi telai e le rotazioni esasperate i colpi viaggiano alti sopra la rete per poi rimbalzare pesanti fin sopra le spalle dei giocatori, che si trovano in difficoltà nel ribattere con una sola mano su traiettorie così ripide; molto meglio colpire usando tutte e due le mani, più semplice salire sopra la pallina e dare forza al proprio colpo. Non a caso c‘è chi lo descrive come un‘altra forma di dritto, mentre il colpo a una mano risente molto del timing dell‘esecuzione, chiede un posizionamento più elaborato, più passi da fare e preparazione del gesto. Poi magari si può anche fare tutto bene, ma ci si ritrova con la propria accelerazione depotenziata dall‘impatto a terra che la fa risalire rallentata, persino sull‘erba inglese, da anni ormai seminata in modo da evitare rimbalzi irregolari.
Ma il rovescio a una mano non è solo un colpo, è un corredo da cui scegliere fra tante soluzioni: può viaggiare a pochi centimetri sopra la rete togliendo il tempo all‘avversario oppure cadere profondo e arrotato nell‘altra metà campo, lo si può tagliare sotto per creare angoli bassi, piegare le ginocchia dell‘avversario e scendere a rete. Disinnescato da superfici che si somigliano tutte, il colpo rischia di diventare un inutile abito elegante indossato nell‘occasione sbagliata, troppo vistoso e troppo leggero. Ancora esistono giocatori estremamente competitivi che scelgono questa strada, ma sono pochi e le loro strategie si assottigliano sempre di più, abbandonando quasi del tutto l‘attacco a rete e riducendo le variazioni nel continuo timore di perdere profondità nello scambio.
Nelle accademie nessuno spinge i ragazzini a praticare il rovescio tradizionale: per un bambino di sette o otto anni un campo da tennis è enorme, e se il primo obiettivo è rimandare la palla più forte possibile è inevitabile che quasi tutti i futuri tennisti useranno il rovescio a due mani, per ovviare alla sproporzione tra il proprio corpo e la superficie di gioco. L‘anno scorso la Federazione Internazionale di Tennis ha introdotto una campagna chiamata Play and Stay, dove hanno cominciato a utilizzare campi ridotti e palle più morbide per creare le condizioni in cui a qualsiasi livello e fascia di età si possa avere un‘esperienza di gioco completa. Forse in questo modo, e senza la costrizione a vincere subito, un bambino potrà essere educato a sviluppare i propri gesti non allo scopo di colpire più forte ma per trovare l‘esecuzione migliore, scoprire i diversi modi di giocare, unire alla forza anche un po‘ di leggerezza.

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PENNETTA FLAVIA –
• Brindisi 25 febbraio 1982. Tennista. Membro della squadra azzurra che nel 2006, 2009, 2010 e 2013 ha vinto la Federation Cup (la Davis femminile). Nel 2013 ha raggiunto la semifinale agli Us Open (eliminata dalla bielorussa Azarenka). Quarti di finale sempre agli US Open (2008) e agli Australian Open (2014). Nel doppio, una vittoria al Wta Tour Championship, il torneo più importante dopo gli Slam (a Doha nel 2010, in coppia con l’argentina Gisela Dulko) e agli Australian Open del 2011 (sempre con la Dulko). Nell’agosto 2009 divenne la prima tennista italiana capace di raggiungere la top ten del ranking mondiale.

• «Bella e charming come una piccola Loren. Di quella bellezza scura e scintillante che sanno mettere insieme solo le latine: vellutata, ironica, femminile assai. Vince anche, la graziosa. Nessuna italiana prima di lei era mai riuscita a vincere back-to-back, cioè un torneo Wta dietro l’altro» (Stefano Semeraro).
• «Da bambina mi riuscivano tutti gli sport: corsa campestre, 200 metri, saltavo in alto, ero nella squadra di basket della scuola, facevo persino equitazione in un maneggio vicino a Otranto. Nel tennis, col lavoro, sono migliorata tanto (…) A 19 anni ho preso il tifo mangiando una forchettata di bianchetti crudi, olio e limone. Due settimane d’incubazione, 41˚ di febbre, 21 giorni d’ospedale. In quel periodo, avendo molto tempo per pensare, feci una scommessa con me stessa: dedicarmi al tennis anima e corpo per una stagione. Se non avessi fatto il salto di qualità, avrei smesso. Alla fine del 2002 ero numero 93» (a Gaia Piccardi) [Cds 1/12/2008].
• «Maniaca dell’ordine, seria e professionale sul lavoro (“Sento una responsabilità nei confronti del mio tennis”), zavorrata dalla sensazione di non aver studiato abbastanza (diplomata in ragioneria “e tragicamente consapevole di tutta la mia ignoranza”), avvitata alla Puglia e alla famiglia (“Mi salva sapere chi sono e da dove vengo”): la sorella Giorgia, mamma Conchita e papà Oronzo detto Ronzino, il suo paradigma di coppia (“Rispettano le reciproche differenze: anzi, si amano anche per quelle”)» (Gaia Piccardi)
• «Noi ragazze siamo più indipendenti, meno mammone, a 15 anni me ne sono andata da casa, ho lasciato Brindisi. I ragazzi invece non riescono a staccarsi dagli amici, dalla famiglia, dalla comodità di trovare tutto pronto. Due mesi fa sono stata a trovare un collega, la sua stanza da letto era un disastro. Si è scusato e mi ha detto: devo trovare una fidanzata che mi aiuti a tenere pulita la casa. Mica si va avanti così. A me andare via ha fatto bene. Lo dico senza polemiche, ma l’Italia non aiuta molto chi vuole andare avanti nello sport» (ad Emanuela Audisio).
• «Vorrei chiudere la carriera pensando di essere stata se non la migliore italiana, almeno la seconda (…) Se penso a tutti quelli che mi dicono: ”Che bella vita giocare a tennis, sei sempre in giro, chissà quanti posti vedi”. In realtà non vedo niente, non c’è mai il tempo. Ho già deciso che quando smetto ci tornerò da turista, per visitare davvero le città dove sono stata» (a Marisa Poli).
• «Ammette che “tre o quattro” tennisti le hanno fatto delle avances. Sul più bello del circuito non ha dubbi (“Tommy Haas”), anche se quello con cui passerebbe una notte è Marat Safin. Parla dell’omosessualità nel mondo del tennis (“Esiste”) e racconta che il posto più strano dove ha fatto l’amore è l’aereo, su “una tratta lunga”. Se alcuni tennisti sniffano cocaina “è per divertimento”, ma lei, giura, non l’ha mai fatto» [Cds 29/9/2009].
• «Quel che ammiro di Flavia non è soltanto la silhouette che certo non la fa passare inosservata. Non meno ammirevole è il suo carattere, dopo una vita sportiva che avrebbe spinto altre all’abbandono (…) Credo di averlo addirittura confessato al papà della Pennetta, che, fossi nato solo una cinquantina di anni avanti, mi sarei permesso di innamorarmi di suo figlia» (Gianni Clerici).
• «Con l’età sono diventata meno scaramantica. Una volta se c’era qualcuno al mio match il primo giorno, e vincevo, pretendevo che tornasse. Tutte cavolate di cui mi sono liberata».
• Nel 2009 ha sfilato in passerella per Pin Up Stars. «Ero ansiosa da matti, sono stata male tutta la mattina. Non mi ero mai sentita così nervosa, neppure per una finale importante. Avevo paura di cadere con quei tacchi!».
• Simpatizza per il Milan.
• Carlo Azeglio Ciampi la nominò, nel 2007, cavaliere della Repubblica.
• Una storia col collega spagnolo Carlos Moya da cui uscì col cuore a pezzi. «Si è innamorato di un’altra. È lecito, però si è comportato male. Mi chiamò il giorno in cui uscirono le foto con lei. Fino a quella mattina dovevamo sposarci. Ho perso dieci chili in una settimana. Una botta pazzesca, li mortacci sua...».
• Attualmente fidanzata con il tennista Fabio Fognini, per lui ha lasciato il modello Andrea Preti. Con Fognini si conoscevano già da tempo: «Abbiamo sempre avuto un bellissimo rapporto, abbiamo sempre riso tanto insieme, ci siamo detti tante cose, di tutto, anche delle nostre ultime storie».
• Si divide tra Barcellona (dove si allena) e Brinidisi. Di recente ha abbandonato la residenza in Svizzera.

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VINCI ROBERTA –
• Taranto 18 febbraio 1983. Tennista. Membro della squadra che capitanata da Corrado Barazzutti vinse nel 2006 la Federations Cup (l’equivalente femminile della coppa Davis): era in campo con Francesca Schiavone nel decisivo doppio interrotto al terzo set per il ritiro della coppia belga (infortunio di Justine Henin). In coppia con Sara Errani ha vinto i quattro tornei del Grande Slam, tra cui la storica affermazione a Wimbledon nell’edizione 2014. Insieme, hanno raggiunto la vetta della classifica ATP (2012). Nel singolo, vanta 9 tornei ATW, 11° nel ranking mondiale (2013) come miglior piazzamento.
• «Appena 1,64 per 60 chili, è un mostro di normalità in questo tennis di donnoni. Normale, eppure anomala: col suo tennis facile, “tutto tocchettini”, d’attacco, il servizio solido, la deliziosa volée di rovescio, il rovescio in back e tante smorzate» (Vincenzo Martucci).

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ANDREA TUNDO, IL FATTO QUOTIDIANO 12/9 –
Sono nate a una manciata di chilometri di distanza. Hanno vinto insieme uno Slam giovanile. Nel giro di quattro ore ieri hanno sbattuto fuori la numero 1 e 2 del mondo, mandando in frantumi sogni e nervi di Serena Williams che si sentiva già a un passo, nella sua tana di Flushing Meadows, dal completare il Grande Slam, opera incompiuta per qualsiasi tennista dal 1988.
Cosa hanno combinato, Flavia Pennetta e Roberta Vinci, arrivando entrambe in finale negli Us Open? Ci sono così tante storie dentro questa splendida storia di sport italiano che ne basterebbe la metà. Tutto inizia sulle sponde di due mari, l’Adriatico e lo Ionio, che in Puglia distano appena 70 chilometri. È lo spazio che corre tra Brindisi e Taranto, dove Flavia e Roberta nascono a un anno di distanza. Quanto basta per potersi sfidare in singolare nei tornei giovanili e combattere fianco a fianco in doppio: Trofeo Avvenire e Roland Garros Under 18 vinto insieme.
Amiche per la pelle e per la racchetta, queste Sorelle d’Italia capaci di prendersi New York al crepuscolo della loro carriera, 33 e 32 anni. Iniziate al tennis dai papà, Oronzo e Angelo, nei circoli tennis delle due città, dove ieri si è brindato fino a tarda sera allo storico risultato. Mai nessuna italiana era riuscita a qualificarsi per la finale di un torneo Slam che non fosse il Roland Garros. Figurarsi una finale tutta azzurra nel Queens. È accaduto.
Il primo pezzo del puzzle lo ha messo sul tavolo Flavia, demolendo Simona Halep in due set senza storia: 6-1 il primo, 6-3 il secondo lasciando alla romena appena 3 punti dopo essere finita sotto 3-1. “Sono molto felice.
È andato tutto bene. Anche quando sono andata sotto sono rimasta tranquilla. Non è stato semplice, ho cercato di mantenere la calma”. In altri tempi, forse, un match così sarebbe scivolato via dalle mani della brindisina. Invece ha vinto cinque game di fila giocando con una serenità spaventosa, figlia di una carriera interrotta nel momento più bello da un problema al polso. Finita fuori dalle Top100, costretta a giocare le qualificazioni. È rinata e si è superata.
Proprio come la sua amica Roberta – con la quale condivide anche i successi in Fed Cup tra il 2006 e il 2013 – quando è entrata sul cemento azzurro di Flushing Meadows. Sembrava fosse tutto finito dopo poco, con Serena avanti un set a zero e 20 mila persone a spingerla verso la storia. La piccola tarantina ha ribaltato tutto contro la cannibale della racchetta – quest’anno già in pancia Australian Open, Roland Garros e Wimbledon – mandandola in totale crisi.
È corsa via, la Williams, dopo essere crollata e nelle interviste post partita ha balbettato solo poche parole sul match. Ha pianto, la Vinci, incredula per quel che aveva fatto. È ricomparso il sorriso sul suo volto solo quando le hanno detto che la sua vittoria era quotata a 300. Le è scappato un “Really?” a trentadue denti. Sì, davvero. Com’è vero il capolavoro completato in un terzo set da antologia, con colpi da non crederci e un grintoso richiamo al pubblico che tifava per l’idolo di casa. “Anche me, cazzo, applaudite anche me”, è scappato in mondovisione alla tarantina.
E gli applausi sono arrivati dopo ogni colpo, scroscianti, fino alla standing ovation finale. Ha ricambiato scusandosi per aver sbattuto fuori la padrona di casa e poi è esplosa: “È un momento incredibile, sono in finale e ho battuto Serena. Ho giocato una partita fantastica cercando di rimanere agganciata a ogni punto. Quando ho servito per il match tremavo e ho provato a mantenere la concentrazione. È il più bel momento della mia vita”.
Oggi alle 18 si ritrovano contro su quel cemento azzurro come i colori del loro mare. Hanno trasformato la finale di uno dei tornei più importanti al mondo in un derby in campo neutro. Hanno già fatto vincere l’Italia. Ora si giocano il titolo, il loro primo possibile trionfo in uno Slam. Come piccolo a volte il mondo: due amiche d’infanzia si possono incontrare dall’altra parte della terra per prendersi New York.

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FRANCESCO PAOLO GIORDANO, RIVISTAUNDICI.COM 10/9 –
Spesso si è parlato di “rinascita” di Flavia Pennetta, se ne parlerà ancora ora che la brindisina è in semifinale agli Us Open, traguardo raggiunto anche nel 2013. Ha già compiuto un percorso notevole, buttando fuori Sam Stosur, che sul cemento americano si impose nel 2011, e Petra Kvitova, due volte campionessa di Wimbledon. Adesso insegue la prima finale Slam in singolare della sua carriera, e a 33 anni non è una questione scontata, quando le tue avversarie hanno dieci, persino quindici, anni meno di te. «We are old, I know – I mean, old for tennis», vecchia per il tennis, ammette Flavia. «But for life we are young». Giovane per la vita, perché in tutta la parabola di Pennetta il percorso sportivo e quello personale procedono di pari passo, molto di più rispetto alla media dei colleghi. Così la second life tennistica di Flavia si interpreta come un prolungamento di una second life privata. In mezzo alla vecchia e alla nuova Pennetta c’è una linea di confine: una corsa metaforica verso lo spogliatoio della sua vita, a rimuginare sulle paure e sulle delusioni. Prima di tornare in campo.
Nel 2012, la sua carriera rischia di arenarsi, forse di concludersi, schiacciata sotto il peso di troppi punti interrogativi. Per tutto l’anno, Flavia era stata tormentata da dolori al polso destro, tanto che ad agosto fu costretta a sottoporsi a un intervento. Lontano dal campo per settimane, mesi, una lunga discesa che la trascina nelle profondità del ranking. Un numero che vale per tutti: 166. «Se non torno subito tra le prime cento, smetto», prometteva Flavia, e tutto faceva intendere che dicesse sul serio.
Dietro quell’accenno di resa, c’era molto di più del semplice timore di non competere più ad alti livelli. A un certo punto, le delusioni le piombavano addosso una dietro l’altra. Come se a lanciarle fosse una macchina spara-palline, il “drago”, come lo chiama Agassi. Nel 2007, la brindisina si reca a Bastad, per fare una sorpresa al suo fidanzato Carlos Moyá, anche lui tennista. Lo scopre con un’altra, e tanto basta per farla precipitare in uno stato catalettico. «Il pensiero mi consumava come un’erbaccia. La gente provava pietà per me e io non riuscivo a difendermi neanche da questo. Era come se avessi perso il “gusto” delle cose. Cercavo di anestetizzarmi nei confronti della vita, per non avvertire dolore. Non sentivo neanche quello fisico. Un esempio stupido: persino quando facevo la ceretta, non sentivo niente». Flavia ci rimase talmente male da perdere dieci chili. Pochi mesi dopo, nel 2008, la morte dell’amico Federico Luzzi fu un altro colpo terribile: «Era il mio fratello maggiore». Fino al 2012, l’anno dei tormenti al polso, con un altro amaro di contorno, il ritiro dal circuito della grande amica Gisela Dulko, con cui l’anno prima aveva vinto il primo Slam della sua carriera, il doppio agli Australian Open.
A questo punto Flavia scappa. Scappa da qualcosa che la insegue, e non la gratifica. «Per Carlos mi sono allontanata dall’Italia, dalla mia famiglia, dai miei amici. La mia passione è stata lui, mi sono data totalmente, e ho perso l’equilibrio. Devo ritrovarlo. Devo ripartire da lì. Sono senza fidanzato, senza casa, senza sogni, senza progetti». Va a New York. Gli States. «Vado in America a riprendermi la mia vita». Sarà davvero il territorio della sua “rinascita”: le semifinali degli Us Open, ma anche il torneo di Indian Wells vinto nel 2014, il più importante della sua carriera. «It’s up to you, New York». In un anno Flavia passa dalle retrovie del ranking fino al numero 31. È tornata diversa: «Da giovane, vivevo le partite con troppa ansia. Adesso voglio godermi la vita e divertirmi, anche in campo». E si vede: Flavia non stecca più nei momenti decisivi. Fino a due anni prima diceva: «In campo mi sento una meteora, mentalmente reggo fino a un certo punto». Ora è proprio la forza mentale, unita al talento, a fare la differenza con le avversarie. Ha una tranquillità che prima non era in grado di abbracciare: è coinvolta, non condizionata dal gioco. Dice: «Guardo le cose da un’altra prospettiva».
Oggi ha un nuovo amore, Fabio Fognini, e un nuovo coach, lo spagnolo Salva Navarro. «Dirò la verità, non avrei mai pensato di tornare ad alti livelli». Di colpo, tutto si è alleggerito, anche certi pensieri che gravitano stabilmente nelle teste degli atleti: «Ho pensato di ritirarmi tante volte durante la carriera. Arriverà un momento in cui mi fermerò, ma non so dire quando».