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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

MESSINA DENARO, BIN LADEN D’ITALIA, È IL CAPO DEI CAPI?


[Matteo Messina Denaro]

Strano destino, quello che ci lega a MMD. È il più terribile criminale italiano in circolazione – addirittura il numero due per l’FBI americana dopo il messicano Chapo Guzman – ma ci dobbiamo convivere. È il nostro bin Laden, latitante da vent’anni nella dimenticata provincia di Trapani. Miliardario, feroce, aggressivo, ma Robin Hood tra la sua gente. Lo Stato italiano lo cerca, ma «al minimo sindacale».
Le ultime notizie che lo riguardano risalgono all’agosto scorso, quando tutti abbiamo visto ai tg delle immagini finalmente degne di un buon film di mafia. Due vecchietti scendevano da una vecchissima Panda, si baciavano nella campagna riarsa di Castelvetrano (da cui le famose olive), e piazzavano un pizzino sotto un masso di una masseria abbandonata. Che poi un altro vecchietto sarebbe andato a prendere, etc. etc.
«Il cerchio si stringe», diceva la tv. «Undici arresti, tra i più stretti collaboratori di Matteo Messina Denaro, il numero uno dei latitanti di Cosa Nostra. Scoperto il suo sofisticato sistema di comunicazione».
Mi sono chiesto: si sarà spaventato Matteo? (Tutti ormai lo chiamano così, colloquiale. È un personaggio pop, il più vecchio dei tre Mattei italiani). L’attuale capo della mafia, oltre ad essere un inveterato sciupafemmine, è un fanatico del digitale e quindi me lo sono immaginato col suo IPad, forse a Castelvetrano, forse a Caracas, a guardarsi la scenetta. «Miiii, ma questo è zu Vitu.... Che nostalgia! Un vecchio compare di mio padre. Il primo a mandarlo in galera fu Borsellino, ‘na quarantina di anni fa. Come passa il tempo!».
A gelare gli entusiami della polizia, ecco che nella conferenza stampa compare il magistrato che, in solitudine, da anni dirige le indagini. Si chiama Teresa Principato, procuratore aggiunto a Palermo, una donna riservata e blindata, che Matteo vorrebbe far saltare in aria col tritolo, possibilmente insieme al marito Roberto Scarpinato, memoria storica e oggi procuratore generale. Candidamente afferma: «Matteo Messina Denaro gode di protezioni ad altissimo livello. Si muove, va e viene». Non è la prima volta che lo dice. Tre anni fa la dottoressa Principato, fu protagonista di uno scontro senza precedenti col suo capo, il procuratore Francesco Messineo. Lo accusò di aver bruciato, con un improvvido arresto deciso senza consultarla, proprio la possibile cattura del nostro Matteo. Poche settimane fa ha energicamente reagito a una fuga di notizie sul pentimento di un giovane massone agrigentino, il loquace architetto Giuseppe Tuzzolino, che avrebbe rivelato segreti di mafiosi, grembiulini e magistrati.
Insomma, la dottoressa Principato è una donna che lotta su diversi fronti. Le ho telefonato e le ho chiesto: Ma chi protegge Matteo? Chi lo copre, chi lo informa? Mi ha risposto quello che risponde a tutti: «Non posso dire niente, perché su questo tipo di protezioni ci sono indagini in corso». Le domando allora se il protettore di Matteo sia l’enigmatico senatore, il barone Antonio D’Alì e il magistrato non ha difficoltà a rispondere: «Penso che D’Alì sia tra le protezioni, ma non lo metterei come unica. Si farebbe un errore a considerarla l’unica». Principato non mi ha dato uno scoop, né ha violato la sua nota riservatezza. Il barone Antonio jr. D’Alì sarà infatti, tra poche settimane a processo, in appello, a Palermo per concorso esterno con Cosa Nostra. Dall’Assise il barone uscì con la formula andreottiana (assoluzione più prescrizione), ora l’accusa si è rafforzata e si parlerà parecchio dei suoi rapporti con Messina Denaro, il barone Antonio D’Alì, 64 anni, possidente e banchiere, nel 1994 è stato uno dei fondatori di Forza Italia, eletto da allora incessantemente in Parlamento, ed è stato persino sottosegretario al ministero dell’Interno dal 2001 al 2006, ovviamente con Berlusconi presidente. Il processo sarà anche un’occasione per sapere se il senatore, dal suo alto scranno, si sia adoperato per catturare Matteo, o per non farlo catturare.
La famiglia D’Alì è presente a Trapani dal secolo sedicesimo e domina la città dal suo imponente palazzo di tufo. Proprietaria di feudi sterminati e delle famose saline, indiscussa protagonista economica e culturale della Sicilia occidentale. Un D’Alì fondò la Banca Sicula, prima banca privata dell’isola, addirittura nel 1883. La famiglia poi, per tacitare le pretese dei braccianti, affidò il suo latifondo alla solida mafia della Valle del Belice. Uno di questi mafiosi, Francesco Messina Denaro, don Ciccio, ottenne da loro parecchia terra e di fatto l’alter ego del barone; posizione che gli permise di diventare il capo della mafia del trapanese. Negli anni Settanta si scoprì che avere la terra e avere una banca erano un bel prerequisito per sistemare in loco una raffineria di eroina, che infatti sorse sulle colline di Alcamo: l’unica in tutta Europa. La Banca Sicula (controllata dalla P2 di Gelli) esplose con i profitti da eroina e giunse ad avere sessanta sportelli. Nel 1988 aumentò il suo capitale di 30 miliardi di lire, prima di confluire nella Comit nel 1991 e infine in Banca Intesa.
Il patriarca don Ciccio, formalmente latitante, morì di infarto nel suo letto. Era il 30 novembre 1998; sopra il pigiama qualcuno gli mise un vestito scuro e ai piedi le scarpe lucide e la salma venne depositata sotto un ulivo alle porte di Castelvetrano. Qui – teatralmente – la moglie lo coprì con una pelliccia di astrakan e gli mise due santini nella tasca della giacca. Il vescovo di Trapani mandò subito un prete ad assicurare che su don Ciccio solo Dio poteva giudicare. Il patriarca lasciava due figli. Salvatore, discreto dirigente della Banca Sicula, era stato appena condannato per mafia. Il secondo, Matteo, è la primula rossa di cui oggi si parla come dell’ultimo capo di Cosa Nostra.
La provincia di Trapani (28 comuni, 170 mila famiglie) è davvero un luogo strano. Mafiosissimo, da sempre massonico, quasi sempre impenetrabile. Basti dire che l’attuale sindaco di Trapani è un generale in pensione dai servizi segreti, convinto che la mafia non esista. Qui le cose si vengono a sapere, quando si vengono a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo. Un esempio sono le tremila pagine di motivazione della sentenza che condanna all’ergastolo Vincenzo Virga, già capomafia di Trapani e il suo killer Vito Mazzara per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, nell’autunno del 1988. A 27 anni di distanza, si scopre che a dare l’ordine di uccidere quel pericoloso ficcanaso fu, nella quiete pastorale del latifondo D’Alì, proprio don Ciccio Messina Denaro e che quel segreto venne coperto da carabinieri, servizi segreti, magistrati che si adoperarono molto per depistare le indagini. Il tutto, raccontano quegli atti, avvenne in un contesto politico inquietante. Don Ciccio Messina Denaro si era alleato con i corleonesi, da cui guerra, bombe e stragi. La mafia trapanese era moderna e tra i suoi tanti affari, era in società con le nuove televisioni della Fininvest, al punto che Virga, il capomafia di Trapani, fungeva da «recupero crediti» per il capo di Publitalia Marcello Dell’Utri. Quando la Fininvest entrò in politica, fu il boss Virga a fondare Forza Italia a Trapani e a scegliere come candidato il barone Antonio jr. D’Alì, che conquistò – a mani basse – il collegio senatoriale, nel 1994. Pochi anni dopo D’Alì si sistemò al Viminale e la cosa – erano tempi di berlusconismo trionfante e di opinione pubblica debole – passò praticamente inosservata. Unico squarcio, nel 2009, una tanto clamorosa quanto poco conosciuta intervista della giornalista Sandra Amurri a Maria Antonietta Aula, moglie divorziata del senatore-sottosegretario Antonio D’Alì. Vi si narrava del piccolo MMD tenuto sulle ginocchia, del patriarca don Ciccio, di lussuosi regali di nozze, delle affettuosità che legavano le due famiglie. E anche di un arrivo, nel favoloso palazzo di Trapani, di Silvio Berlusconi, nel 1996, preceduto da 7 bauli di indumenti e profumi e con tanto cerone addosso da distruggere le vecchie federe del secolare palazzo. In tale contesto, la latitanza e la crescita di potere di MMD furono facili. Sotto il governo del barone D’Alì, un prefetto coraggioso, Fulvio Sodano, venne brutalmente sostituito; un valente commissario di polizia, Giuseppe Linares, che MMD l’avrebbe preso facilmente, venne messo in condizioni di non nuocere e infine trasferito. Un altro poliziotto, il capo della squadra mobile Calogero Germanà, addirittura scampato a una mitragliata di kalashnikov di MMD, venne mandato via dalla Sicilia. Era lo stesso poliziotto che aveva denunciato il riciclaggio di denaro mafioso nella Banca Sicula.
Il risultato di questa storia oscura e complicata è oggi l’imbarazzante potenza economica finanziaria di MMD, il primo boss di Cosa Nostra a cui sono stati fatti i conti in tasca. Passati al setaccio più di cento tra parenti e prestanome, sono stati sequestrati o confiscati beni per oltre tre miliardi di euro. Da tre anni, inoltre, il giudice Piero Grillo di Trapani sta valutando se confiscare anche tutto il patrimonio del famoso Carmelo Patti, già presidente della Valtur e stimato fornitore di cavi elettrici della Fiat: valore stimato, cinque miliardi. Il Patti, conosciuto nel jet set, sarebbe un prestanome di Matteo. Il panorama che si presenta è agghiacciante. Matteo praticamente possiede tutta l’economia della provincia di Trapani: supermercati e centri commerciali, il cemento, l’industria della ristorazione, le più importanti località turistiche, produce vino e formaggi, domina le amministrazioni comunali, impone il suo volere sui grandi appalti pubblici, ha il dominio sull’industria eolica. Il suo patrimonio in loco, stimato in dieci miliardi di euro, ne fa l’uomo più ricco d’Italia, a cui si devono probabilmente aggiungere proventi da traffico di stupefacenti (ancora notevoli secondo l’Fbi).
Si può arrestare uno così? Certo la Sicilia ci ha abituati a tutto, all’imprendibile contadino Salvatore Riina preso in una villa nel centro di Palermo e a Bernardo Provenzano, che mandava a lavare le mutande sporche alla moglie. Se la storia è destinata a ripetersi, anche Matteo, prima o poi, sarà esposto al pubblico. In un cortile di Castelvetrano o in una suite di Caracas. Ma un’impalpabile sensazione ci fa dire che non siamo ancora pronti per l’evento. Forse MMD non esiste più. Forse il figlio di don Ciccio, il bambino che stava sulle ginocchia del viceministro degli interni, è già diventato un hedge fund.
E quando sapremo di quali protezioni ad altissimo livello gode Matteo? La risposta è facile: mai.
Enrico Deaglio