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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

PAPÀ, NON FILMARMI, PER FAVORE

[Amy Winehouse]

È un momento, così, presentato senza commenti. E la sensazione immediata è: quella non era la prima volta. Forse aveva paura, forse voleva scrollarsi qualcosa di dosso.
C’è una linea che dovrebbe separare la ragazza Amy e l’artista Winehouse; il documentario Amy vuole portare alla luce «la vera Amy», The girl behind the name, la persona al di là di un nome diventato marchio, una celebrità che pare la angosciasse in maniera patologica. Il film è un montaggio di immagini, molte inedite, e in scena c’è sempre lei, sempre, in sottofondo un collage di voci: spezzoni di interviste, canzoni, messaggi lasciati in segreteria telefonica, interviste agli amici. Ci viene chiesto di conoscerla come se fosse una ragazza qualsiasi, ma la donna che passa sullo schermo ha una luce e una desiderabilità soprannaturali: “È capace di farti sentire la persona più importante del mondo prestandoti attenzione per cinque secondi”, dice l’ex manager Nick Shymansky. E la ragazza Amy si lascia filmare giorno e notte dalle persone che vogliono la sua attenzione: Amy guarda sempre verso l’obiettivo. Amy ha un talento riconosciuto al volo dall’industria musicale, e con i soldi del primo contratto va a vivere da sola, minorenne, insieme all’amica Juliette Ashby. Due adolescenti festaiole con alle spalle due famiglie incapaci di gestire le ragazze adolescenti come concetto. Anche Juliette canta, anche Juliette è una piccola Amy. La differenza è che Amy cerca la sua voce nella musica degli altri. Jazz, soul, blues. Amy scrive. Tanto. Amy razionalizza il processo creativo in due parole: “Se non ho vissuto quello che canto, si sente che non è vero”. Per lei è l’unico modo di lavorare. Amy è una diarista formidabile, impegnata in un’autobiografia costante, e racconta la sua storia presente attraverso la lente del passato, della musica vecchia. Preso così, il film è la storia di una ragazza che cerca se stessa e decide che “essere se stessa” significa tenere aperta ogni propria ferita.
Il 95% delle persone che hanno passato del tempo con Amy Winehouse hanno venduto i risultati di quel tempo al migliore offerente. Video, foto, lettere, testimonianze: storie vere, gente! Tutto sbattuto sui tabloid, prima e dopo la morte. La ragazza Amy si circonda di papponi e canaglie che traggono denaro dai fatti materiali della sua esistenza. (Anche solo per questo, il documentario è un evento eccezionale. È un miracolo che alcune persone decenti abbiano avuto fiducia nel progetto, e abbiano voluto condividere “la vera Amy” con me che la sto guardando in un cinema). Il primo delle canaglie, in teoria, sarebbe la mezzasega di Camden che Amy si prende come anima gemella, Blake Fielder-Civil. Uno tra i mille maschi senza particolari qualità che affollano i pub dove l’Artista Winehouse va a ubriacarsi ogni notte dopo aver inciso il suo primo album. Lei pesca in un mucchio di uomini identici e ne estrae quello che peggio asseconda i suoi istinti. Lui viene spesso accusato di averla distrutta: però, stando a quello che racconta ora, è solo uno scappato di casa che romanticizza una follia a due. E del resto, sentiamo, cosa dovrebbe fare? Amy e Blake si amano. Lei usa lui come lasciapassare psichico: una prima separazione porta Amy a scrivere Back to Black, dove ogni canzone parla di lui; poi Amy lo sposa, dice: “Voglio vivere tutto quello che vivi tu”, si butta a bordo di eroina, crack, autolesionismo. Amy filmata da Blake nelle pause di un servizio fotografico di Terry Richardson; Amy quasi nuda su un divano, Amy che in mano tiene un pezzo di vetro rotto e dice: “Sulla pancia mi sono scritta il tuo nome”. E dopo: “La parte migliore di questa esperienza accadrà tra cinque minuti, quando andremo in bagno a scopare”. Lei sorride. Non è mai stata così bella. Il film è un lungo ritratto di donna viva, anche quando porta in scena un corpo malato: la ragazza Amy prova una gioia fisica (e contagiosa) nell’attraversare sia il buio sia la luce. Detto ciò, qualcuno potrebbe davvero aiutarla? E chi? I media? L’industria discografica? La famiglia? Bene: nessuno si assume mezza responsabilità, sappiatelo. Di fronte alla morte della ragazza Amy, e alla crisi creativa dell’artista Winehouse, è un fuggi fuggi generale anche nel 2015. Ci dovevate pensare voi! No, voi! L’unico che dice “Ho sbagliato” è Nick, il suo primo manager, pochi anni più vecchio di lei e quasi nessuna esperienza sul campo. Nick che ammette di essere stato “troppo amico” e non abbastanza autorevole, Nick silurato quando suggerisce la disintossicazione. Nick che filma Amy mentre lei si rifà il trucco nel bagno piccolissimo del locale di Brighton dove sta per esibirsi dopo il suo primo album: Amy che mangia cibo grasso, unto, fritto, sempre a favore di telecamera. Amy che vomita il pranzo nei bagni della casa discografica. Amy che dice: “Io mangio e vomito” a entrambi i genitori quando ha 15 anni, e nessuno dei due reagisce. Amy che starebbe per andare in terapia, nel momento che oggi viene riconosciuto come l’ultimo possibile per curarsi in privato, prima di Back to Black, e suo padre le dice: “Non ti serve nessuna terapia”. Amy che trova un nuovo manager, Raye Cosbert, “Raye-Raye”, un organizzatore di concerti che la spreme come il limone più triste del mondo, la sbatte ai quattro angoli del globo a fare infinite serate-ripresa di Back to Black, che Amy, a questo punto, esegue come se fosse il karaoke di se stessa: invece di dirle “Scrivi nuove canzoni”, spinge al massimo la ragazza Amy, la sirena con la parrucca, il fascio di nervi, la chanteuse tragica che lei forse vorrebbe smettere di essere, per un po’. O forse no.
Un fortissimo merito del film sta nel mostrare la biglia nera e furiosa che rimbalza dentro la testa dell’artista Winehouse, e che prende forme diverse nel tempo: depressione, bulimia, alcolismo, droga, uomini scemi, mutilazione, sangue sulle scarpette da ballerina. La ragazza Amy non ha un disordine della personalità: lei è il disordine. Amy canta “for you I was a flame”, per te io ero una fiamma, e si sente quanto le piace. Amy diventa la bruciatura umana che sognava di essere. Non è misoginia: è la realtà. La sua, almeno. Essere “un’artista donna” è il destino che lei sceglie nel momento in cui arriva al cuore della sua storia personale, e sperimenta il piacere della creazione: il tentativo di dare un senso a quello che le si muove dentro. Ogni scena stabilisce quanto Amy sia brava. Non racconta quanto lavoro venga fatto per incanalare il talento naturale – scuole di canto, danza, recitazione – ma mette in scena una musicista consapevole e preparata. Su tutto il resto, il film è selvaggiamente ambivalente: Blake la filma durante un tentativo di disintossicazione di coppia, in un rehab più simile a un grande albergo che a un luogo di cura, e le dice “dai, Amy, cantaci Rehab!”. E tutti ridono. Salvo Amy, che dice, a voce bassa: “Questo posto in realtà non è tanto male”. Due giorni dopo si torna a casa. Amy inseguita dai paparazzi, Amy disorientata, Amy che fa scena muta al festival di Belgrado, dove, stando a un amico, lei è stata trascinata con modalità da sequestro (prelevata da casa mentre dorme, si sarebbe svegliata all’aeroporto). Ma anche: Amy che diventa amica di Mos Def e Questlove, Amy emozionata davanti a uno dei suoi idoli, il cantante lounge Tony Bennett, Amy che registra un duetto con lui, non si sente all’altezza, vuole dare il massimo, per lui; e Tony Bennett, paziente, rispettoso, le tira fuori nota dopo nota un pezzo meraviglioso. Amy cerca la verità e non scopre mai il piacere della maschera, il piacere dell’essere – a volte – un oggetto. Un’immagine. Una cosa su cui si può mantenere il controllo attraverso la resa apparente. Amy non è felice di essere un’immagine e non viene incoraggiata a crescere, a scrivere nuova musica, ad andare avanti. È cristallizzata nella donna bianca con la voce da nera e i tatuaggi. “Forza, cantaci ancora Rehab – come sarebbe a dire non hai voglia? Io ho pagato per sentire te!”. E per questo, verso la fine del film, tutto diventa raggelante, perché la ragazza Amy resta impigliata nelle fantasie degli altri ben prima di morire. E se nessuna persona in particolare viene additata come il Male, ciò che è suggerito è che il padre Mitch sia il peggior nemico di Amy, e la sua ombra più tenace: un genitore prima assente e poi avido, ottuso, che vive il successo e il dolore della figlia come se fossero entrambi la realizzazione dei suoi sogni da appassionato di jazz; un uomo che si presenta con una troupe tv sull’isola dove la ragazza sta recuperando le forze dopo un crollo verticale, e si meraviglia quando lei gli dice: “Papà, non filmarmi, per piacere”.