Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 11 Venerdì calendario

UN TRAGICO POKER GEOPOLITICO – 

Non c’è dubbio. Bashar al-Assad è all’ultima mano di un tragico poker geopolitico, cominciato a Damasco il 26 luglio scorso. Quella sera il presidente ammise, sorprendendo tutti: «L’esercito si sta indebolendo. Riserveremo le unità ai territori vitali – lungo la costa e al confine libanese – per scongiurare la perdita della nostra roccaforte alauita». C’era qualche non detto: non una parola sul generale Suleimani, numero uno delle forze d’élite iraniane, né su Hezbollah, sue tessere imprescindibili in un mosaico completato dal sostegno incondizionato di Mosca.
Il Cremlino è oggi l’ultimo baluardo per Assad. Non si è fatto cogliere di sorpresa. Ed è entrato a pieno titolo in questa sorta di “Guerra mondiale non dichiarata”, che vede coinvolte 22 nazioni: dall’Iran all’Arabia Saudita, dai Paesi del Golfo agli Stati Uniti. Sullo sfondo, si disegna una nuova linea di frattura con la Russia.
A inizio 2014, Mosca aveva ordinato alla 76esima divisione di assalto aereo di cominciare i preparativi per un intervento in Siria. Un’eventualità all’epoca poco probabile, oggi palpabile. Fra i consiglieri russi affluiti a Latakia alcuni apparterrebbero all’intelligence militare del Gru, altri all’Svr, più dedita alle operazioni oltreconfine. Ci sarebbero uomini del 45° reggimento Spetsnaz.
I russi stanno prendendo sul serio la faccenda, perché il 45° viene dalle guerre cecene, ha combattuto in Ossezia-Georgia, conquistato la Crimea e operato nell’est ucraino, come il Gru e l’Svr. Forse per questo gli occidentali non vedono di buon occhio il “surge” (l’incremento di truppe, ndr) russo in Siria, tanto più che quelle unità sono in fase di potenziamento. Per un duplice motivo: bilanciare l’avanzata della Nato in Europa orientale e disporre di una forza d’intervento rapido. La Siria fa al caso loro. Nel ponte aereo fra Russia e Siria, i cargo strategici russi solcheranno non più la rotta mediterranea, ma i cieli d’Iran e d’Iraq.
L’escalation è dietro l’angolo, specie in caso di collisione con i jet occidentali. I corridoi sono battuti dai caccia alleati. Ma i russi non hanno altro tempo, perché il regime, a Damasco, perde forza. Le truppe sono stremate. Dopo Palmira hanno subito solo rovesci. Anche a sud stanno cedendo, per le sedizioni druse. Tengono solo al centro e nell’ovest costiero. Ma fino a quando? Fra Damasco e Zabadani, i pasdaran sciiti fanno quello che possono, in un corridoio divenuto cruciale per la tenuta dei lealisti. La regione comanda l’asse fra la capitale e Beirut. Gli iraniani vi hanno schierato i loro uomini migliori. E quando, pochi giorni fa, vi hanno perso il generale Abdel Karim Rubash, son volate parole grosse. Rubash sapeva comandare. Nell’ultimo quadriennio era stato il proconsole di Suleimani in Siria. Spettava a lui supervisionare l’impiego dell’Hezbollah libanese.
Non è chiaro quanti “hezbollahni” combattano in Siria: le stime variano da 2 a 4mila, riservisti compresi. Il che equivarrebbe a un quarto circa delle disponibilità del movimento. Enormi le perdite, con 900 morti accertati da inizio conflitto. I guerriglieri libanesi hanno spedito in Siria perfino la famigerata brigata Redwan, equipaggiata in gran segreto da Mosca e forgiata dai pasdaran, con addestramenti durissimi. Oggi, in Libano, non c’è quasi famiglia militante che non abbia perso uno o più figli nei combattimenti contro i sunniti dello Stato islamico, i ribelli laici o le milizie di Jabat al-Nusra, che si contendono con i curdi lembi di terre sempre più incontrollabili dai lealisti. Le guerre costano.
Assad ha già perso fra gli 80 e i 100mila uomini. Ci sono diserzioni, perfino nei ranghi dell’imperscrutabile Hezbollah, con decine di arresti. E negli ultimi dieci giorni c’è stata una sequela di disfatte. Prima è caduto l’aeroporto di Abu al-Duhur, 45 chilometri a sud di Aleppo, espugnato da al-Nusra e dal partito Turkestan. Le foto parlano da sole: almeno 9 cacciabombardieri Mig-23 sono stati catturati dai qaedisti, metà dell’intera flotta lealista. Poi il secondo rovescio, ancora più inquietante. L’Isis avanza nella regione di Homs e alla periferia sud di Damasco, minacciando il cuore pulsante del regime. Attacca su più fronti.
Colonne di camion e di semirimorchi hanno attraversato la capitale Raqqa, da ovest a est, in direzione di Kirkuk in Iraq, per sfruttare le eterne contraddizioni curdo-turche. La coalizione ci ha messo una pezza, bombardando i ponti della città e stoppando il convoglio. Cresce nel numero dei partner, non nelle ambizioni. Sembra aver optato più per il contenimento che non per l’annientamento del Califfato. Avrebbe a disposizione 397 cacciabombardieri e 1.600 piloti, ma si accontenta di 11 raid giornalieri. La guerra aerea ne risente: in Afghanistan c’erano almeno 86 azioni quotidiane e in Iraq (2003) 596. Qualcosa non torna.