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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

MARCHIONNE L’AFFAMATO

Affamato di capitale. Da mesi Sergio Marchionne affronta gli analisti internazionali dichiarando apertamente il suo appetito globale. Ad aprile il gran capo di Fiat Chrysler (Fca) aveva intrattenuto una platea di investitori con una relazione intitolata “Confessions of a capital junkie”. E cioè, tradotto, “Confessioni di un drogato del capitale”. I colossi dell’auto, spiegava quel dossier, guadagnano troppo poco in rapporto a quanto investono. Allora non c’è scampo, per resistere sulla trincea dei profitti bisogna abbassare l’asticella delle spese. E il modo più veloce per centrare il bersaglio è quello delle fusioni tra le grandi case automobilistiche.
A quanto pare adesso il manager italoamericano ha deciso di passare dalle parole ai fatti, dalla teoria all’azione. E lo sta facendo a modo suo, puntando dritto all’obiettivo, senza diplomazia e giri di parole. La fusione tra Fca e General Motors frutterebbe 30 miliardi di utili industriali all’anno. Il 20 per cento in più rispetto alla somma dei profitti previsti quest’anno per i due gruppi. Marchionne parte da qui, da questi numeri, per concludere che, se i calcoli sono corretti, e lui ne è sicuro, la sua è un’offerta che non si può rifiutare.
L’amministratore delegato di Fiat Chrysler è uscito pubblicamente allo scoperto a fine agosto con un’intervista al periodico americano “Automotive News”. La proposta però è caduta nel vuoto. Mary Barra, la manager che a fine 2013 ha preso il comando di Gm dopo 33 anni di onorato servizio nel gruppo, non ha nessuna intenzione di mettersi a discutere con il suo estroverso collega. Il quale sapeva benissimo di bussare invano alla porta altrui. Infatti, da almeno sei mesi, Fca sta mandando segnali chiari al colosso Usa, che ha sempre risposto allo stesso modo: «Non se ne fa niente».
Come si spiega allora tanta insistenza? Perché il corteggiatore, già respinto più volte, ha deciso di cambiare tono e di mettere in piazza i suoi sentimenti (si fa per dire)? In realtà l’ultima sortita di Marchionne, dai toni coloriti e tutt’altro che diplomatici, era costruita apposta per gettare un sasso, anzi un macigno, nello stagno del mercato. Raccontare al mondo intero che Mary Barra rifiuta ostinatamente di sedersi al tavolo delle trattative, serve a indebolire la posizione di Gm agli occhi dei grandi investitori internazionali. Gli stessi a cui il capo di Fca prospetta il grande affare della fusione che, a suo dire, innescherebbe grandi rialzi dei titoli in Borsa. Non è un caso che il primo a spezzare una lancia a favore dell’operazione sia stato Warren Buffett, il grande finanziere statunitense che con la sua holding Berkshire Hathaway possiede poco meno del 3 per cento di General Motors.
Il gruppo Usa, salvato dal crack nel 2009 grazie all’intervento dello Stato, si è infatti trasformato in una public company senza azionista di comando. A decidere sono gli investitori istituzionali, i gestori dei grandi fondi pensione, hedge fund, assicurazioni, che Marchionne cerca di ingolosire prospettando forti guadagni di Borsa. Se l’ipotesi di una fusione con Fca dovesse far breccia tra i soci, trovando il sostegno di una quota del 15-20 per cento dei soci, il capo di Fiat Chrysler avrebbe la possibilità di trattare da una relativa posizione di forza. Oppure, in extremis, potrebbe anche giocare la carta dell’Offerta pubblica, dell’Opa. Solo ipotesi, per il momento. La partita è alle prime battute e Gm, che vale in Borsa quasi il triplo del suo corteggiatore (42 miliardi di euro contro 16 miliardi), al momento non ha nessuna fretta, e nessun motivo, di stringere i tempi di un eventuale negoziato. Il gruppo guidato da Mary Barra produce utili tre volte superiori a Fca, è molto meno indebitata in rapporto al patrimonio e a partire dal 2009 ha rinnovato la gamma dei prodotti e le piattaforme produttive. Certo, i problemi non mancano. L’Europa per esempio, presidiata con il marchio Opel, resta un buco nero: nel 2014 le attività nel Vecchio Continente sono andate in rosso per 1,3 miliardi di dollari (1,15 miliardi di euro). Inoltre, sempre l’anno scorso, per una serie di difetti e malfunzionamenti (in decine di casi con esiti mortali), la casa americana è stata costretta a richiamare in fabbrica milioni di auto con oneri in bilancio per 2,9 miliardi di dollari (2,6 miliardi di euro). A conti fatti, però, Gm continua a guardare dall’alto in basso il suo pretendente e può permettersi di attendere gli eventi.
Marchionne invece va di fretta. Dai mercati arrivano segnali per lui tutt’altro che rassicuranti. Il boom americano, che ha fin qui trainato la grande rimonta di Fca, sembra destinato a esaurirsi, secondo la maggior parte degli analisti, nell’arco di un anno, un anno e mezzo. In Europa le vendite si sono risollevate rispetto ai minimi toccati tra il 2013 e il 2014, ma la ripresa stenta a consolidarsi. La situazione più preoccupante, però, è quella del Brasile che assorbe il 12 per cento delle vendite del gruppo. Il Paese guidato dalla presidente Dilma Roussef (reduce pochi giorni fa da un incontro con Marchionne) si trova in piena recessione e quest’anno le previsioni sul Pil stimano una caduta tra il 2 e il 3 per cento. La frenata dell’economia si è già fatta sentire sulle vendite di auto che quest’anno, nei primi otto mesi, si sono ridotte del 20 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Fca, primo produttore del Paese, viaggia in calo del 30 per cento circa, una contrazione superiore rispetto a quella media del mercato.
A tutto questo va aggiunto che il real, la valuta brasiliana, tra giugno e inizio settembre ha perso il 20 per cento circa del suo valore rispetto all’euro. Come dire che i ricavi realizzati nel Paese sudamericano peseranno proporzionalmente di meno sul bilancio consolidato Fiat Chrysler, che viene redatto nella moneta europea. L’esatto contrario è invece successo per quanto riguarda il dollaro. L’incremento delle vendite sul mercato nordamericano (più 8 per vento tra aprile-giugno del 2015) è stato infatti amplificato nel conto economico dalla crescita della valuta Usa, che da un anno all’altro si è rafforzata del 20 per cento circa rispetto all’euro. Ed ecco, allora, che nel secondo trimestre del 2015 i ricavi negli Usa (più Messico e Canada) sono cresciuti addirittura del 40 per cento rispetto al 2014. Un balzo che si riduce al 16 per cento una volta depurato dall’effetto cambio.
Nel secondo semestre dell’anno l’orizzonte appare un po’ meno roseo. Se non altro perché il dollaro ha arrestato la sua corsa al rialzo e la crisi cinese, unita alle incertezze della ripresa Usa, hanno mutato in peggio lo scenario economico. Marchionne però continua a fare professione di ottimismo. A fine agosto ha corretto al rialzo gli obiettivi di fine anno per i ricavi (da 108 a 110 miliardi) e per l’utile industriale (Ebit), ora previsto almeno a quota 4,5 miliardi contro i precedenti 4,1-4,5 miliardi.
Tutto bene, quindi, almeno nel breve termine. Le incognite, secondo la maggior parte degli analisti, riguardano invece i prossimi due anni, il 2016 e il 2017, quando, si concentra la parte maggiore degli investimenti previsti dal piano industriale 2014-2018. Nei prossimi 12 mesi, in particolare, Fca ha in programma di destinare 11 miliardi per finanziare impianti, nuovi modelli e ricerca. Lo sviluppo di ciascuno dei cinque modelli annunciati dell’Alfa Romeo della nuova èra richiederebbe, per esempio, un miliardo di euro. Ecco perché, a dispetto dei reiterati annunci di rilancio del Biscione, Marchionne ha aspettato a lungo prima di presentare la Giulia, che farà la sua première all’imminente Salone di Francoforte. Somme rilevanti, a dir poco. A maggior ragione per un’azienda, già fortemente indebitata, che per il momento ha una redditività inferiore alla media dei concorrenti di mercato. È vero, Fiat Chrysler dispone di abbondante liquidità, oltre 20 miliardi, ma a fine luglio il direttore finanziario Richard Palmer ha precisato che la cassa è per un terzo destinata al pagamento di bond in scadenza.
Questi numeri aiutano a comprendere perché mai Marchionne abbia tanta fretta di pilotare una fusione tra Fca e General Motors. Unire le forze, agganciarsi al treno di Gm, serve a risparmiare sulla gestione degli impianti, sugli enormi costi di sviluppo dei nuovi modelli, sulle spese di marketing.
Sotto il profilo industriale, il matrimonio con Gm non è probabilmente la scelta ideale. Ma Marchionne, in questi anni, ha esaltato il ruolo della tattica, facendola diventare più importante della strategia. Forse, l’abbraccio con costruttori giapponesi come Honda, Mitsubishi o Suzuki sarebbe migliore per riempire le tessere del mosaico globale in cui Fca è ancora sguarnita. Ma non si può trattare con i capitalisti del Sol Levante con lo stesso piglio anglosassone e la spiccata intonazione finanziaria con cui il leader del gruppo FiatChrysler si è rivolto agli azionisti di una public company tipicamente yankee come quelli della Gm. Tuttavia anche gli analisti più scettici sull’argomento non negano che esistano alcune promettenti sinergie tra i due gruppi. Prima di tutto sul fronte cinese, dove il generale Marchionne non ha mai davvero iniziato a combattere. Nonostante il rallentamento delle vendite, la Cina è destinata a rimanere il mercato più grande del pianeta. Fanno gola anche le piattaforme per le vetture più grandi su cui il colosso di Detroit ha lavorato parecchio e che sarebbero assai utili a Fca per spostare verso l’alto tutta la sua gamma.
Pare invece più difficile individuare gli ipotetici vantaggi dell’integrazione con Opel in Europa. La marca tedesca non è più quella del 2009, a suo tempo corteggiata con insistenza dalla Fiat. L’azienda di Stoccarda ha cambiato pelle perché Gm non s’è limitata a tenersela stretta, ma ha investito per farla salire di categoria, arricchendo la gamma con alcuni modelli di fascia più alta. In pratica Opel ha seguito la stessa strada indicata da Marchionne per Fiat. Un fatto, quest’ultimo, che spiega i dubbi degli esperti sugli esiti di una ipotetica integrazione. Eppure, tra gli analisti c’è anche chsostiene che, unendo brand impegnati nelle stesse aree e con vari modelli in competizione, si possa comunque estrarre del valore, conquistando quote di mercato ai danni della concorrenza. Marchionne tira dritto. E non ha dubbi. «Ho studiato impianto per impianto, prodotto per prodotto, area per area», ha detto nell’intervista di fine agosto ad “Automotive News”. Per poi concludere che le nozze con Gm avranno l’effetto di un «cataclisma», in senso positivo, ovviamente. Pochi gli credono, adesso. Ma gli scettici erano tantissimi anche quando Fiat s’imbarcò nell’avventura americana con Chrysler. Eppure, a sette anni di distanza, Marchionne è ancora lì, pronto a lanciare un’altra sfida impossibile.