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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

SERGIO MARCHIONNE

& JOHN ELKANN –
A vederli fremere insieme nel box della Ferrari a Monza, oppure consumare sorridenti il pranzo con l’invitato speciale Matteo Renzi, a sentirli dire Sergio di qua e John di là, si ha la conferma che vanno d’amore e d’accordo come poche volte è accaduto al vertice del capitalismo italiano, per non parlare della Fiat. Una strana coppia, ma una coppia di ferro. Da una parte, il freddo e allampanato Elkann, taciturno, controllato e consapevole di essere un Agnelli, con la erre di famiglia e qualche vezzo: i gilet rosa confetto,
le scarpette rosse nei momenti casual e i riccioli scompigliati. Dall’altra il loquace figlio di un carabiniere abruzzese e del sogno americano, il «manager socialdemocratico» come venne chiamato in un accesso di innamoramento a sinistra, l’uomo che dorme solo in aereo, sfascia le Ferrari che colleziona, rifiuta la grisaglia per il pullover nero. Era stato Gianluigi Gabetti a tirarlo fuori dal cilindro il 30 maggio 2004 e «Jaki», come lo chiamavano allora, aveva acconsentito. In questi 11 anni tutto è cambiato, tranne il sodalizio tra Sergio & John.
«Elkann e Marchionne condividono gli obiettivi e hanno delimitato chiaramente le loro responsabilità», spiega lo storico Giuseppe Berta a Panorama. E lo hanno fatto in modo molto più netto rispetto a Gianni Agnelli e Cesare Romiti, perché allora le invasioni di campo erano frequenti e alla fine il manager estromise l’Avvocato: avvenne nel 1994 sotto la guida di Enrico Cuccia che era stato per vent’anni lo stratega della Fiat.
John, «l’ingegnere», sta trovando una ragion d’essere in modo molto più netto e deciso anche rispetto a Umberto Agnelli che aveva sofferto per il resto della sua la vita l’allontanamento dalla Fiat nel 1979 su mandato di Cuccia. Quanto a Sergio, «il dottore», si è lanciato nella terza grande sfida in 10 anni: l’assalto alla General Motors. Con le buone, cioè il consenso dei soci, o con le cattive: una scalata ostile non è esclusa, ha fatto capire domenica scorsa a Monza.
«La chiave di volta è Warren Buffett», conferma Berta. L’Oracolo di Omaha, che ha il 3 per cento della Gm, sostiene il takeover influenzando i fondi e le banche azioniste. Si tratta di un azzardo anche per la natura di una impresa che da almeno 80 anni è la bandiera dell’industria a stelle e strisce. Ma non è impossibile. «Dove ci porterà questo Marchionne?» si chiedono inquieti alcuni membri della numerosa famiglia Agnelli preoccupati di perdere i pingui guadagni che il manager ha garantito loro. Lo stesso sospetto lo avevano avanzato in occasione della fusione tra Fiat e Chrysler. Allora Elkann scelse la discontinuità senza farsi tirare per la giacca dai parenti. Il segnale che John, amante delle regate, aveva mollato gli ormeggi, fu l’uscita di Luca di Montezemolo dalla Ferrari e non solo dalla Fiat dove lo aveva voluto 10 anni prima Susanna Agnelli come pegno dinastico.
Una nuova increspatura risale a pochi mesi fa. Girava voce che a Marchionne sarebbe piaciuto un manager esterno al vertice della holding azionaria. Il dilemma è stato risolto il 29 maggio: John ha rinnovato a Sergio il mandato nella Fca per altri tre anni e nominandolo vicepresidente «non operativo» della Exor. Da allora in poi è stata impressa un’accelerazione inattesa. Sei miliardi e mezzo di euro per comprare Partner Re, una compagnia di riassicurazione americana, parte in contanti parte con debiti, non li avrebbero mai spesi né Umberto né Gianni Agnelli. Poi è arrivato l’Economist, colpo da maestro che colloca Elkann nel club dei grandi nomi del capitalismo mondiale e rafforza la sua passione per l’editoria. Lo scorporo della Ferrari con quotazione a Wall Street e in Olanda, sarà un altro passaggio strategico. È in lizza solo un pacchetto del 10 per cento ma serve a dare un valore di mercato (circa 10 miliardi di euro, poco meno dell’intera Fca) al più fulgido gioiello di famiglia destinato a passare dalla Fca alla Exor.
«I veri vincitori saranno John Elkann e il clan che rappresenta» scrive Tommaso Ebhardt su Bloomberg. Chiosa Berta: «Marchionne ha fatto un altro miracolo finanziario per gli Agnelli». Il presidente della Ferrari sarà presto anche amministratore delegato visto che va in pensione Amedeo Felisa, insediato da Montezemolo nel 2008 per sostituire Jean Todt. Dunque, guiderà in tutto e per tutto la metamorfosi del cavallino rampante. Ma come mantenere l’equilibrio tra proprietà e gestione?
Un mestiere diverso».
«John ha capito che fa un mestiere diverso. Sergio ha preparato il proprio futuro fin dal 2009, quando ha conquistato Chrysler. E ora sogna di diventare il signore di Detroit, non di scalzare Elkann dalla plancia di comando» dice Ernesto Auci, già portavoce Fiat e amministratore delegato della Stampa, che ha lavorato sia con Marchionne sia con Romiti. Se l’operazione Gm andrà in porto, la Exor sarà azionista rilevante, ma di minoranza nel nuovo gruppo. Ferrari potrà diventare il polo aggregatore di marchi del lusso, mantenendo però la sua natura. «La rossa resterà sempre la rossa» aggiunge Auci, non può essere snaturata, tutto il resto dunque s’innesterà sul ceppo originario.
Nel 2018, se il puzzle sarà completo, il lungo matrimonio finirà in una separazione consensuale. Un’altra, dopo quella avvenuta non senza traumi con l’Italia. «In realtà, si è trattato di un divorzio con la politica italiana, che la stessa politica ha cercato e vissuto quasi con sollievo, salvo poi lamentarsene» commenta Marco Ferrante, autore di una biografia del manager dal maglioncino nero. E si chiede come mai nessuno ha fatto davvero nulla di consistente per trattenere la Fiat.
Oggi la distanza è plateale. Nonostante le lodi di Marchionne alle scelte di Renzi (soprattutto sul mercato del lavoro) o la riapertura di Mirafiori per costruire il suv Maserati, l’Italia resta un’appendice del nuovo gruppo dell’auto, ed è marginale nelle scelte della Exor, anch’essa una realtà ormai multinazionale. Eppure «la storia conta» insiste Berta. «Lo ha scoperto lo stesso Marchionne quando ha cercato di acquistare la Opel». Prima i tedeschi hanno fatto fuoco e fiamme per non finire in mano agli italiani, poi la Gm, una volta salvata da Barack Obama, ha deciso di tenersi la consociata germanica.
Sergio & John non smettono di ripetere: «Restiamo protagonisti in Italia». Berta racconta che nel dicembre scorso, celebrando il quarantennale dell’associazione dei dirigenti Fiat, è toccato a Elkann fare da padrone di casa poiché Marchionne non era presente. Tutti sono rimasti colpiti dall’insistenza con la quale ha vantato il legame forte con la tradizione e si è presentato come ponte tra passato e futuro. Un’impresa apolide non esiste, è un’astrazione utopica, come l’impresa senza padrone. Dunque, l’Italia, gli Agnelli, la Fiat resteranno ancora a lungo avvinti in un modo o nell’altro? Se è così, la visita di Renzi al box Ferrari non è stata solo una scappatella domenicale.