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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

ARTICOLI SULL’HOMO NALEDI DAI GIORNALI DI VENERDI’ 11 SETTEMBRE 2015


SILVIA BENCIVELLI, LA REPUBBLICA –
Quindici uomini e quasi altrettanti misteri. E il primo è, appunto, di che uomini si tratti. Per adesso si tratta di millecinquecento ossa e centoquaranta denti antichi, ma antichi non si sa ancora quanto. Intanto, per i paleontologi di tutto il mondo rappresentano una scoperta pronta a riscrivere i libri di testo. Sono i resti trovati nel fondo della grotta di Rising Star, una cinquantina di chilometri a nordovest di Johannesburg, descritti ieri in un articolo pubblicato dalla rivista open access eLife da scienziati della University of Witwatersrand di Johannesburg, dalla National Geographic Society e dal Dipartimento per la Scienza e la Tecnologia/National Research Foundation del Sudafrica, guidati dal paleontologo sudafricano Lee Berger. Un gruppo di 40 ricercatori, tra cui l’italiano Damiano Marchi, dell’università di Pisa. «Abbiamo trovato una specie che consideriamo appartenente al genere Homo — ha dichiarato Berger — ed è davvero notevole». Il suo nome è Homo naledi, dove naledi in lingua Sotho significa “stella”.
La scoperta è importante per numerose ragioni. Intanto è un ritrovamento particolarmente ricco: non la solita mezza mandibola da cui dedurre la struttura di un intero scheletro, ma un sacco di ossa, tante e diverse. Praticamente è già «il membro fossile della nostra linea evolutiva che conosciamo meglio», ha proseguito Berger.
Questo significa che è già possibile provare a descrivere come fosse fatto. E cioè è possibile dire che era alto circa un metro e mezzo e probabilmente era snello. Che aveva la parte superiore del corpo simile a quella dell’Australopiteco e la parte inferiore simile alla nostra. Molto simile, soprattutto i piedi. Ma l’Australopiteco è comparso sulla Terra circa quattro milioni di anni fa, mentre noi quei piedi abbiamo cominciato a muoverli solo duecentomila anni fa.
Non solo: il cranio di Homo naledi è piccolo e il cervello che conteneva non poteva essere più grande della metà del nostro, simile cioè a quello di specie vissute due milioni di anni fa. Ed ecco quindi il principale dei misteri. Quando è vissuto Homo naledi?
Gli scienziati ancora non lo sanno. Potrebbe essere uno dei primi membri del genere Homo, e risalire a circa due o tre milioni di anni fa. Oppure potremmo scoprire che è una specie vissuta fino a ieri ma dai caratteri antichi, un po’ come è il celacanto per i pesci: una specie che nuota tranquilla nelle profondità degli oceani africani dalla fine del Cretaceo. In ogni caso, spiegano gli scienziati, per una datazione precisa dei resti ci sarà da aspettare. Ci sarà anche da capire se i corpi siano stati gettati deliberatamente nella grotta. Che si tratti di sepolture o di omicidio, sarebbe il primo segno di un comportamento tanto complesso in una specie tanto antica. Cioè, ha spiegato Lee Berger al National Geographic , Homo naledi «potrebbe non essere così vicino a noi, ma avere abilità cognitive simili alle nostre».
Potrebbero esserci migliaia di resti ancora da scoprire nella grotta, ha proseguito Berger.
Ma non tutti condividono l’idea che i quindici di Rising Star siano una nuova specie. Tra gli scettici c’è Ian Tattersall, paleontologo dell’American Museum of Natural History di New York, che già in passato ha chiesto ai colleghi più cautela nel battezzare nuove specie. Anche lui, però, ammette che la scoperta è importante: «si tratta di un incredibile assemblaggio di fossili che terrà i paleoantropologi occupati per un bel po’ di tempo».

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MARCO CATTANEO, LA REPUBBLICA –
La scoperta è di quelle da togliere il fiato, per chi è abituato a navigare nella comunità dei paleoantropologi. Capaci di dibattere fino allo sfinimento intorno a una falange o a un microscopico pezzetto di mandibola, si sono trovati sotto il naso un tesoro di valore inestimabile. E tutto in una volta: oltre 1500 tra ossa e denti appartenenti a 15 individui diversi sono un evento senza precedenti nella storia dello studio dell’evoluzione umana. E a partire da questa immane messe di fossili e dai molti misteri che li circondano ci sarà materia di studio per molti anni a venire.
Tanto per cominciare c’è la questione della datazione. I sedimenti della grotta in cui è stato trovato Homo naledi non sono stratificati, e questo rende complessa la datazione dei resti. Soprattutto perché la nuova specie presenta caratteri sia primitivi, a cominciare dalle dimensioni del cervello, sia caratteri moderni, soprattutto negli arti inferiori.
Così al momento si possono fare solo ipotesi. La più accreditata, proprio per le caratteristiche promiscue di H. naledi, è che si collochi tra 2,5 e 2 milioni di ani fa, tra le prime specie del genere Homo.
Ma potrebbe anche risalire a 3-4 milioni di anni fa, scalzando Lucy, l’australopiteco scoperto negli anni settanta in Etiopia da Donald Johanson, dalla lista dei nostri diretti antenati. Oppure potrebbe essere molto più recente, degli ultimi 500.000 anni, e avere convissuto con la nostra specie fino a poco tempo fa. Un po’ come i Neanderthal e l’uomo di Flores, con tutte le differenze del caso.
Tutte queste incertezze hanno contribuito a ritardare la pubblicazione della scoperta, come racconta Jamie Shreeve su National Geographic di ottobre. E finché Berger non troverà un modo per attribuire un’età ai suoi fossili c’è da scommettere che ci sarà grande fermento intorno a questo nostro bizzarro parente.
Ma c’è un interrogativo forse ancora più interessante. Come ci sono arrivati fin lì quei resti? La grotta dove sono stati scoperti è praticamente inaccessibile, e forse in passato c’era un’altra entrata, che finora i ricercatori non hanno individuato. Di sicuro non sono stati lasciati da carnivori, perché le ossa non recano segni di denti. E probabilmente non sono stati portati dall’acqua, che avrebbe depositato anche altri sedimenti. Ma difficilmente un essere dal cervello così piccolo, riconosce lo stesso Berger, poteva mettere in atto un comportamento così complesso come liberarsi deliberatamente dei corpi, magari facendo uso addirittura del fuoco per raggiungere un luogo buio e impervio. Ancora più arduo ipotizzare che fosse una forma di cura dei defunti: le prime sepolture umane conosciute risalgono a circa 100.000 anni fa, e forse, oltre a noi, le praticavano solo i Neanderthal.
Insomma, come spesso accade con le scoperte di questa portata, per il momento i fossili di Rising Star offrono più domande che risposte. Ma negli anni a venire potrebbero diventare una specie di stele di Rosetta della nostra evoluzione.

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MAURIZIO STEFANINI, LIBERO –
Aveva un cervello grande come un’arancia, era alto solo un metro e mezzo, aveva bacino e spalle terribilmente piccoli, e le sue dita curve tradiscono costumi da arrampicatore più scimmieschi che umani. Ma la gambe e i piedi assomigliano invece molto a quelle nostre. Forse seppelliva i suoi morti, e forse usava il fuoco. È Homo Naledi: l’Uomo Stella. Naledi, in lingua sesotho “stella”, corrisponde infatti alla traduzione in idioma locale del nome in inglese del Rising Star. Un sistema di grotte carsiche che si trova a 50 km da Johannesburg, e in cui esattamente due anni fa, il 13 dicembre 2013, gli speleologhi Steve Tucker et Rick Hunter trovarono una gran quantità di resti. Avvertirono la University of Witswaterstrand, e questa assieme alla National Geographic Society e al Dipartimento per la Scienza e la Tecnologia/National Research Foundation del Sudafrica armò la spedizione che nei mesi successivi condusse le ricerche, il recupero e i successivi studi, fino ad arrivare all’annuncio che è stata identificata una nuova specie di quel genere “homo” di cui facciamo parte anche noi, col nome e cognome di Homo Sapiens. Tra la cinquantina di membri dell’equipe di studiosi, anche un italiano: Damiano Marchi, antropologo del dipartimento di biologia dell’Università di Pisa, incaricato in particolare di studiare quegli arti inferiori così moderni. E tra di loro molte donne. Per arrivare al punto dove erano concentrati 1754 resti appartenenti a una quindicina almeno di individui, compresi neonati, bambini e anziani, bisogna infatti percorrere 80 metri di caverna, poi arrampicarsi per una parte, e infine infilarsi in un crepaccio largo 18 metri. Il tutto, nel buio più assoluto. Lee Rogers Berger, il paleoantropologo all’University of Witswaterstrand che ha diretto l’impresa e poi fatto l’annuncio, ha dovuto cercare la gente adatta via Internet e reti sociali. E la corporatura snella necessaria l’ha trovata soprattutto in donne. Abbiamo detto che l’Homo Maledi era più piccolo di noi, e quindi lui in quella camera di roccia fisicamente riusciva a entrarci. Ma come faceva, con tutto quel buio? E come hanno fatto tutti quei cadaveri a finire là dentro, quando una caratteristica desolatamente costante dei reperti di ominidi è proprio la loro scarsità? Non ci sono tracce di traumi: dunque, non sono caduti là dentro. Non ci sono tracce di divoramento: dunque non sono stati raccolti da belve o cannibali. Non ci sono segni di flussi idrici talmente forti da aver potuto concentrare là i resti. Secondo l’equipe di studiosi, dunque, l’ipotesi più logica sarebbe che i morti sino stati portati là intenzionalmente, al lume di torce: l’uso del fuoco spiegherebbe anche denti straordinariamente piccoli, come chi è abituato a nutrirsi di cibo cotto. Potrebbe essere dunque sia il più antico esempio di uso del fuoco, sia il più antico cimitero dell’umanità. Sotto il primo punto di vista, alcuni indizi facevano finora risalire la “scoperta” del fuoco a 1,5 milioni di anni fa: ma la sicurezza c’è solo a partire di 230.000 anni fa, e il controllo del fuoco diventa generalizzato 125.000 anni fa. Sotto il secondo punto di vista, finora a parte l’Homo Sapiens solo i Neanderthal sembrerebbero aver seppellito i morti: ma l’evidenza consiste essenzialmente in una presunta tomba risalente a appena 50.000 anni fa. Mentre qui si parla di un’antichità di 3 milioni, anche se in realtà quella è solo l’età geologica del sistema di grotte. I paleoantropologi ritengono più probabile che i resti abbiano un’età tra i 2,5 e i 2,8 milioni di anni, ma proprio per quella strana combinazione di tratti moderni e antichi Chris Stringer, ha avanzato un’ipotesi provocatoria: è se l’Homo Naledi avesse solo 100.000 anni? Non sarebbe dunque il più antico, ma semplicemente un ramo evoluto a parte e rimasto isolato. Un po’ come l’ormai famoso Homo Floresiensis, l’“hobbit” ritrovato nel 2003 e che sarebbe vissuto nell’isola indonesiana di Flores fino a appena 13,000 anni fa. Anche il suo collega Juan Luis Arsuaga, direttore del Museo dell’Evoluzione Umana di Burgos ridimensiona l’enigma del percorso al buio, dicendo che probabilmente doveva esistere un’altra entrata. Molte dubbi verranno chiariti una volta fatto l’esame al radiocarbonio, che stabilisce l’età vera. Poiché per farlo bisogna distruggere il reperto, lo lasceranno proprio per la fine. Una volta compiuti tutti gli altri esami possibili e immaginabili.

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EMANUELE PERUGINI, IL MESSAGGERO –
Non ha fatto in tempo ad essere riportato fuori dal fondo buio di una caverna sudafricana che è già diventato una stella. Di nome e di fatto. L’Homo naledi, ovvero la nuova specie di ominide appartenente al genere homo la cui scoperta ha fatto il giro del mondo, è infatti non solo destinato ad attirare l’attenzione di tutti i media mondiali, come una vera e propria star, ma conserva nel suo nome scientifico traccia di questo destino stellare. Naledi infatti in lingua locale, significa "stella", è il nome attribuito alla caverna dove è stato scoperto, quindi Homo naledi, diventa "uomo della stella". A conferma poi di questa apparente attitudine verso le stelle, e quindi l’ignoto, c’è anche il fatto, che questo ominide potrebbe essere anche tra i pochi che avrebbero fatto ricorso a sepolture intenzionali, dimostrando così di avere un cervello capace di un pensiero astratto.
IL POZZO
A riportarlo, letteralmente alla luce, nel 2013, un gruppo di ricercatori dall’università sudafricana del Witwatersrand, dalla National Geographic Society e dalla National Research Foundation del Sudafrica. I dettagli della scoperta sono stati però descritti solo ieri sulla rivista eLife dal gruppo coordinato da Lee Berger, dell’università del Witwatersrand a Johannesburg, i resti di questo antenato indicano che potrebbero essere tra i più completi mai trovati fino ad oggi, e il deposito in cui sono stati rinvenuti è tra i più interessanti mai visti prima. Nel sito infatti sono stati rinvenuti oltre 1.500 resti fossili, che secondo i ricercatori si possono essere attribuiti ad almeno 15 individui di sesso ed età diversi tra loro. Per studiarli Berger ha indetto un concorso internazionale che ha chiamato a raccolta circa 40 fra gli esperti più qualificati per analizzare i reperti. Tra questi, l’italiano Damiano Marchi, dell’università di Pisa che ha esaminato nel dettaglio gli arti inferiori di questi ominidi e la loro capacità di camminare in maniera eretta.
Scendere nella grotta non è stato affatto semplice dal momento che l’accesso è costituito da un pozzo profondo una ventina di metri, e poi da uno stretto passaggio e da un secondo pozzo. Nel secondo ambiente sono stati infatti rinvenuti i resti. Per scoprirli, e per continuare gli scavi, è stato necessario rivolgersi a paleoantropologi, particolarmente specializzati in missioni di speleologia.
IL RITUALE
I ricercatori sono convinti che al suo interno ci sia ancora molto da scoprire: non si esclude che possano esserci migliaia di resti.
Uno degli aspetti finora misteriosi è che i corpi sembrano essere stati deposti nella caverna in modo intenzionale, una sorta di rituale che finora era stato considerato una caratteristica di specie umane piu’ recenti dotate di una massa cerebrale più grande: l’Homo di Neanderthal e l’Homo sapiens.
Nonostante faccia parte del nostro stesso genere, Homo naledi, era molto diverso da noi. L’analisi dello scheletro ha permesso di ricostruire l’aspetto di questo progenitore dell’uomo: era piccolo, non più alto di un metro e mezzo e pesante circa 45 chilogrammi; anche il suo cervello era piccolo, all’incirca come un’arancia e simile a quello degli scimpanzè. Come testimoniano le dita curve delle sue mani, sapeva arrampicarsi, e le lunghe gambe dimostrano che sapeva anche camminare e correre.
L’ETÀ
Quello che ha maggiormente colpito l’attenzione degli scienziati è proprio questa molteplicità di tratti ora antichi, ora più moderni, a rendere così affascinante questo ominide, e rilevante questa scoperta. Ancora non sappiamo però in che periodo visse Homo naledi, e per quanto tempo la sua specie visse in quel territorio. I ricercatori non hanno infatti divulgato ancora - nonostante la scoperta risalga ormai a due anni fa - le stime sull’età di quei reperti, anche se, non sono mancate ipotesi. «L’Homo naledi potrebbe essere una delle più antiche specie di Homo conosciute» ha detto Leo Berger, lo scienziato che ha coordinato le ricerche e che solo 5 anni fa aveva scoperto sempre in Sudafrica una nuova specie di australopiteco. Quello che è certo è che si tratta di una specie completamente diversa da quelle dei progenitori dell’uomo finora note. Ci sono soltanto alcune somiglianze “di famiglia”. Ad esempio l’Homo naledi ha cranio e mandibola che ricordano quelli dell’Homo abilis, così come quelli di Homo rudolfensis, Homo erectus e Homo sapiens, ma le sue caratteristiche restano comunque uniche ed hanno qualche vaga somiglianza anche con esseri più primitivi, come gli Australopitechi. La cassa toracica ricorda infine quella dello scimpanzè, mentre mani e piedi sono abbastanza vicini a quelli dell’uomo moderno.
«Questi resti - ha spiegato Chris Stringer, del Natural History Museum di Londra in un commento pubblicato sulla rivista eLife - hanno ancora molti misteri da svelare, incluso il fatto che forse, il genere Homo potrebbe essere “polifiletico” e cioè potrebbe aver avuto origine da specie indipendenti che hanno vissuto in luoghi diversi dall’Africa». Se così fosse, molti libri di scuola dovranno essere del tutto riscritti.
Emanuele Perugini

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GIOVANNI CAPRARA, CORRIERE DELLA SERA –
Piccoli ominidi, finora sconosciuti, si muovevano nella savana sudafricana con pochi alberi. Avevano caratteristiche e capacità molto particolari e la scoperta dei loro resti fossili racconta di un antenato prezioso, addirittura una nuova specie battezzata Homo naledi che popolava l’orizzonte delle nostre origini. Ciò che più ha stupito i paleoantropologi sono alcune parti del corpo molto più simili alla specie Homo piuttosto che ad altre come l’ Australopithecus a cui apparteneva la famosa Lucy vissuta 3,2 milioni di anni fa.
La storia iniziava due anni fa in una grotta ad una quarantina di chilometri da Johannesburg. La zona, nota come una delle culle dell’umanità, era già famosa per altri ritrovamenti. La grotta «Rising Star» (e «naledi» vuol dire «stella») aveva un apertura piccola e angusta nella quale Lee R.Berger dell’Università di Witwatersrand a Johannesburg entrava ritrovandosi in un’ampia caverna. Davanti agli occhi aveva una moltitudine di resti (1.550), un tesoro dal quale un gruppo di sessanta ricercatori ricostruiva l’identità di individui molto diversi: dal neonato all’anziano con maschi e femmine, inclusi cinque bambini. «La ricchezza dei frammenti ci ha permesso di ricostruire scheletri interi riuscendo non solo a definire in dettaglio il loro identikit ma anche gli stili di vita» spiega Damiano Marchi biologo dell’Università di Pisa e unico italiano tra gli autori della scoperta pubblicata sulla rivista eLife . La missione era sostenuta dall’Università di Witwatersrand, dalla National Geographic Society e dalla National Research Foundation sudafricana.
Homo naledi era di piccola statura (circa 150 centimetri), pesava tra i 40 e 55 chilogrammi e la testa, pur essendo piccola aveva caratteristiche vicine alle nostre nella conformazione, come le arcate sopracciliari. Altre somiglianze riguardano gli arti inferiori gracili e lunghi mentre il torace e il bacino conservano segni primitivi. «Il mosaico è variegato — nota Marchi — e per la prima volta consente di avere una visione completa di un ominide».
Il piccolo naledi era un bipede in grado di correre ma anche di arrampicarsi sugli alberi come certificano le dita arcuate. Lo studio della mandibola e dei piccoli denti suggeriscono che si cibasse pure di carne.
Ma l’aspetto più intrigante è forse il raggruppamento degli individui. Gli scienziati ipotizzano che la caverna fosse un tomba nella quale i corpi erano stati raccolti dimostrando di avere un culto dei morti. Resta tuttavia il mistero della loro epoca. «Ancora non riusciamo a decifrarlo — aggiunge Marchi — perché non sono stati trovati intorno altri resti che ci consentano di raggiungere una datazione precisa. Se risalgono a 2,5 milioni di anni fa si collocano alle origini dell’evoluzione del genere Homo . Se invece fossero più giovani di un milione di anni amplierebbe lo spettro delle specie degli ominidi vissute contemporaneamente rendendo più complesso il panorama dal quale è emerso il sapiens ». Questa è ora la sfida da vincere.
Giovanni Caprara

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EDOARDO BONCINELLI, CORRIERE DELLA SERA –
Riguardo alle nostre origini la questione fondamentale, solle-vata dalla scienza, ma an-che dalla comunità dei cre-denti, è sempre stata quella di come è potuto succedere che, all’improvviso, da una madre dall’aspetto decisa-mente scimmioide sia po-tuto nascere un nostro an-tenato, anzi il primo dei nostri antenati diretti. Non c’è stato niente d’inter-medio fra noi e le specie decisamente più simili a una scimmia d’oggi? Do-manda grande e seria, che mette in gioco tutto il nos-tro essere, almeno dal pun-to di vista strettamente bio-logico, perché dal punto di vista dell’uso degli stru-menti, per quanto primor-diali, sappiamo che c’è stato un inizio di uso «intelligen-te» di ciottoli più o meno 3 milioni di anni fa. Da tale punto di vista, questa è la nostra vera origine, più comportamentale e ideati-va che biologica. Ma non ci siamo accontentati, perché anche la natura biologica del passaggio da pre-ominidi a uomini ha la sua rilevanza. Il fatto è che negli ultimi decenni abbiamo individuato una grande va-rietà di fossili che possono aspirare a essere definiti come appartenenti al ge-nere Homo e un’altra stu-pefacente varietà di fossili d’individui che sembrano lì lì per divenirlo. In un certo senso «troppa grazia Sant’Antonio!»; di questi esseri intermedi ce ne as-pettavamo uno o due, e ne abbiamo molti più di una decina. Ora dal Sud Africa ne arriva un altro, Homo naledi , con una dovizia di 1.500 ossa attribuibili a una quindicina di individui tra adulti e ragazzi! Non sap-piamo ancora a che epoca risalgano questi resti e non sappiamo se siano stati nostri antenati diretti o una specie parallela che si è an-data estinguendo senza confluire nella nostra ascendenza, ma la cosa si fa sempre più interessante. Intorno a 3 milioni di anni fa in Africa ne devono esse-re successe di tutti i colori. In una sorta di calderone biologico la natura sovraec-citata ha dato vita a una manciata abbondante di ominidi dai quali noi deri-viamo! Lo stupefacente è che siamo in grado di rendercene conto.

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GABRIELE BECCARIA, LA STAMPA – 
Quindici antenati. Anziani, donne e bambini. Sigillati in una caverna claustrofobica del Sud Africa, come in una perfetta capsula temporale, riemergono da un oblio durato 2 milioni e mezzo di anni, forse 3, e - sostiene lo scopritore, Lee Berger - potrebbero riscrivere l’idea che abbiamo delle nostre origini.
L’evento annunciato sulla rivista «Elife» è il più grande ritrovamento di fossili mai avvenuto in Africa. E il più enigmatico: che cosa ci facevano 15 creature stipate a 40 metri sottoterra, in una grotta a cui si accede dopo 20 minuti di marcia ansimante, a volte strisciando, e dove l’entrata è un buco di una ventina di centimetri? Dal volto scimmiesco, ma con mani e piedi già sorprendentemente simili ai nostri, appartengono - ha annunciato Berger - a una nuova specie di ominidi. Specie battezzata Homo naledi, dal termine che in lingua Sesotho significa «stella»: il luogo, infatti, è noto come «Rising Star Cave» ed è a un’ora d’auto da Johannesburg.
Un’ipotesi è che siano rimasti intrappolati, da un crollo o da un’alluvione. Un’altra - la più intrigante - è che si tratti di una camera sepolcrale, il che suggerirebbe che l’Homo naledi fosse in grado di elaborare un pensiero simbolico, capacità che finora si attribuiva a ominidi molto più recenti. Uno scenario, questo, audace, ma tutt’altro che impossibile: mentre si susseguono le scoperte di nuove specie, l’idea che abbiamo dei nostri progenitori - paradossalmente - si fa più complessa. E a tratti confusa.
Non è un caso che nella piccola ma agguerrita comunità dei paleoantropologi, in cui Berger scintilla per impatto mediatico, si sia scatenato il dibattito. Dall’entusiasmo di Chris Stinger, curatore al Museo di Storia Naturale di Londra, ai dubbi di Christoph Zollikofer, antropologo dell’Università di Zurigo. Se - dichiara Berger - questo Homo è da considerarsi un «ponte» tra i primati in grado di spostarsi su due zampe (o quasi gambe) e i primi esemplari di umani, l’epoca appartiene a una fase-chiave della nostra ancora controversa comparsa ed evoluzione. Ma il futuro fa ben sperare. Quei 15 piccoli antenati - da vivi non superavano il metro e mezzo - rappresentano una miniera di informazioni e ci vorrà tempo per strappare ai 1500 pezzi in cui si sono frantumati i loro scheletri tutto ciò che racchiudono. Dalla crescita all’alimentazione, fino alle cause della morte.
Ora le ossa sono conservate in una camera blindata della Witwatersrand University, a Johannesburg. Come un tesoro, quale in effetti è. Se l’assemblaggio del primo scheletro è stata una sfida, un puzzle biologico, il recupero non è stato meno impegnativo. I resti erano ammassati in una grotta - la «Dinaledi chamber» - così piccola che riportarli alla luce ha richiesto un lampo di genio: il lavoro di scavo di sei donne, scelte non solo per la bravura, ma per la corporatura. Dovevano essere abbastanza piccole e magre da muoversi in scioltezza.
Adesso le immagini di uno degli scheletri stanno facendo il giro del mondo. E la «posa» ricorda tantissimo quella di Lucy, l’Australopithecus di circa 3 milioni e mezzo di anni fa scoperto da Donald Johanson negli Anni 70 e diventato l’icona dei nostri progenitori. Almeno fino all’arrivo di 15 temibili concorrenti.

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LORENZO SIMONCELLI, LA STAMPA –
«Signore e signori, vi presento l’Homo naledi. Una nuova specie umana, un nostro lontano cugino. Una scoperta senza precedenti, che lascerà un segno nello studio della paleontologia». Esordisce così il professor Lee Berger, paleoantropologo e ricercatore della Wits University di Johannesburg, davanti a giornalisti e personalità politiche arrivate in massa a Maropeng, sito archeologico patrimonio dell’Unesco, a 50 km da Johannesburg, in Sud Africa.
Americano, 49 anni, Berger sa di avere ben più di 15 minuti di celebrità, e tutti gli occhi addosso dopo anni di studio e di scavi. Dal 2013 dirige un team internazionale di oltre 50 scienziati, incluso l’italiano Damiano Marchi, ricercatore dell’Università di Pisa. Un gruppo selezionato per concorso, che ha lavorato nel sito «Cradle of humankind» - tradotto: culla del genere umano - per scoprire se davvero le origini dell’uomo risalgono proprio a una zona molto specifica, vale a dire l’Africa australe.
«Quello che abbiamo trovato, in una grotta a 40 metri di profondità - racconta Berger - è un vero e proprio mosaico fossile, composto da oltre 1.500 ossa. Risalgono probabilmente ad ominidi vissuti all’incirca due milioni e mezzo di anni fa. Bambini, giovani e anche adulti. Hanno caratteristiche abbastanza simili a quelle di alcune specie più primitive del genere Homo, come l’Homo habilis. A cominciare dal cranio: molto piccolo, ma molto simile a specie più arcaiche, dell’australopiteco».
Ma non siamo di fronte a qualcosa di simile a Lucy, spiega Berger: «Sono soprattutto i denti, le mani, le gambe e i piedi, quasi identici a quelli dell’uomo moderno, che lasciano credere che si tratti di ominidi del genere Homo».
Un ritrovamento strabiliante anche per le difficoltà affrontate dal gruppo di ricerca. «La scoperta dei resti - ha raccontato il capo della spedizione - è avvenuta trovando una fessura all’interno di una serie di grotte. Dopo accurate analisi, abbiamo capito che solo donne molto longilinee si sarebbero potute addentrare. E così ho pubblicato un bando internazionale. Con il finanziamento del “National Geographic” abbiamo reclutato sei giovani ricercatrici che sono entrate dentro l’anfratto».
Le scienziate hanno posizionato un cavo ottico lungo 3,5 km e da quel momento in poi le operazioni di scavo sono state coordinate insieme con un altro gruppo di scienziati rimasto in superficie.
Ed è proprio il contesto in cui sono stati ritrovati i fossili a far emergere uno degli aspetti più straordinario del ritrovamento. «All’interno della grotta - ha spiegato Berger - c’erano praticamente soltanto resti di Homo naledi. Non c’erano invece fossili appartenenti ad altri animali e, dopo aver analizzato tutti gli scenari possibili, siamo arrivati alla conclusione che sia stata questa specie a voler intenzionalmente seppellire i corpi dei propri defunti. Che quindi fossero dediti al rito della sepoltura. Molto prima dell’Homo sapiens, considerato fino ad oggi l’iniziatore di questa pratica».
Dopo un anno di lavoro frenetico, è presto per dirlo. Ma sarebbe proprio questa la conferma che fissa l’origine del genere umano nell’Africa australe. Su questo tema Berger resta ancora cauto. «Il ritrovamento - ha concluso - è un segnale forte. Dimostra come in passato siano stati commessi errori, che non hanno permesso di far venire alla luce un passaggio fondamentale nella storia dell’evoluzione. E tuttavia: non possiamo escludere che esistano altre zone del mondo dove, in futuro, si scoprano nuove specie. Ancora più antiche».

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STEFANO RIZZATO, LA STAMPA –
«Era un ominide moderno e primitivo insieme. Camminava eretto, ma si arrampicava sugli alberi. Il suo cervello era grande quanto un’arancia. Ed era alto un metro e mezzo circa, come i pigmei attuali, con un peso tra 39 e 50 chili». A tracciare l’identikit dell’Homo naledi è Damiano Marchi, uno dei 50 ricercatori che ha lavorato nel team di Lee Berger. Antropologo del dipartimento di Biologia all’Università di Pisa, si è occupato in particolare dello studio degli arti inferiori.
Che gambe aveva quest’ominide?
«Piuttosto moderne, adattate a camminare in modo bipede, più o meno come noi. Solo all’altezza del bacino la coscia sembra più primitiva. La cosa unica, importantissima, è questa caratteristica: l’Homo naledi era in parte avanzato e in parte arcaico».
Si vede anche da altre parti dello scheletro?
«Sì, a partire dalla mano. Chi l’ha studiata ha visto che era piuttosto moderna, con pollice e polso capaci di costruire degli strumenti o utensili, anche se a fianco dei corpi non ne sono stati trovati. Ma proprio la mano e il torace, mostrano tratti più primitivi, da australopitecini del tipo di Lucy. E poi il cranio: piccolo ma più moderno rispetto all’australopiteco. Il cervello era grande come un’arancia, in media di 500 grammi, contro quello nostro tra 1300 e 1400 grammi».
Come si fa, a partire da reperti così antichi, ad arrivare a un identikit così preciso?
«Merito della quantità e della completezza degli scheletri ritrovati. La descrizione morfologica e funzionale è quella, non c’è dubbio. Delle 206 ossa che compongono il corpo umano, ne mancano all’appello solo 20. Quando in Sud Africa ho visto tutti i reperti, è stata una grande emozione».
Sappiamo anche quali capacità cognitive aveva l’Homo naledi?
«Gli studi di neurofisiologia sono in corso e da quel punto di vista è ancora tutto da scoprire. In generale, però, doveva essere decisamente più moderno di una scimmia, molto più orientato verso il genere Homo».
La datazione è l’elemento fondamentale per dire che «posto» abbia tra i nostri antenati?
«Sì, e fissarla a oltre 2 milioni di anni fa significherebbe qualcosa di molto importante: l’Homo naledi sarebbe molto antico, alla base dello stesso genere Homo. Ma anche una datazione più recente, intorno a un milione di anni fa, aprirebbe scenari affascinanti. Dovremmo inserire quest’ominide tra i tanti esperimenti che il genere Homo ha attraversato prima di arrivare alla specie sapiens. E l’Africa potrebbe essere stato il laboratorio di questa esplosione evolutiva».
E adesso? Lo studio continua?
«Sì, il lavoro fatto da maggio 2014 è stato eccezionale, grazie alla scelta di chiamare all’Università del Witwatersrand 50 specialisti. È stata una corsa, ma ora sono usciti solo gli articoli che presentano la nuova specie e il sito. Altri ne usciranno sulle varie parti del corpo. E poi si studierà la biomeccanica e la fisiologia, e molto altro. E ci saranno altre campagne di scavo. I sondaggi lo mostrano: laggiù ci sono ancora tanti altri scheletri».

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NICLA PANCIERA, LA STAMPA –
La scoperta di Lucy, l’icona dell’evoluzione umana, avvenne nel 1974. Subito si pensò che così si sarebbero chiarite le nostre origini. Ma oggi, dopo 40 anni di ricerche, è chiaro che non di «albero evolutivo» si deve parlare quanto di un folto cespuglio, dal quale solo pochi rami si sono spinti fino al presente.
Siamo in viaggio da oltre 2 milioni di anni, da quando i primi esemplari del genere Homo si diffusero dal continente africano nell’Eurasia e oltre. Un viaggio geografico e cronologico di cui conosciamo molti dettagli grazie a studi paleantropologici, archeologici e genetici. La nostra solitudine come specie è abbastanza recente: abbiamo avuto molti avi, fratelli e sorelle e cugini, soprattutto tra 4 e 2 milioni di anni fa, quando specie differenti popolavano l’Africa, come spiega Luca Bondioli, paleoantropologo al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.
«I Vecchi»: Ardi
L’epoca è 4,4 milioni di anni fa. Protagonista è l’Ardipithecus ramidus. Il più antico e più probabile antenato dell’uomo aveva un cervello piccolo, pesava 50 kg e visse nell’attuale Etiopia. «Bacino, piedi, gambe e mani - spiega Bondioli - suggeriscono che si spostasse come un bipede sul terreno e come un bipede-quadrupede sugli alberi». Fu considerato come una scoperta altrettanto importante di quella di Lucy. I ricercatori ritengono che sia proprio Ardipithecus il primo genere di ominide apparso dopo la differenziazione fra umani e scimmie, ma esistono anche altri candidati: Toumai (Sahelanthropus tchadensis, di 7 milioni) e Orrorin tugenensis (detto anche Millenium Man, di 5-6 milioni). Tutto dipende anche da quando si colloca la separazione tra noi e gli scimpanzé che probabilmente avvenne tra i 9 e i 5 milioni di anni fa.
Lucy e il «parente»
Se Lucy è la più nota, l’australopiteco femmina risalente a circa 3,2 milioni di anni fa, risale invece a 3.5-3.3 milioni di anni fa l’Australopithecus deyiremeda, che coabitava con Lucy stessa, ma aveva dieta diversa. Scoperto da pochissimo, aumenta ancora di più la «confusione» del cespuglio e mostra - dice il professore - come la nostra storia naturale sia stata più complessa di quanto ritenessimo.
L’enigmatico A. gahri
La scena si sposta a 2,5 milioni di anni fa: questo è un altro Australopithecus, ma non è molto ben documentato e le recenti scoperte di un frammento fossile, di 2,8 milioni di anni, fa vacillare la sua candidatura a nostro progenitore.
L’ibrido sediba
Risale a 1.9 milioni di anni. Scoperto nel 2010, nel sito di Malapa vicino a Johannesburg, questo Australopithecus visse in contemporanea con i primi Homo. Da alcuni - dice Bondioli - è considerato «un mosaico di caratteristiche australopitecoidi e di altre più simili a Homo. Probabilmente aveva una vita con una forte componente arboricola».
È comunque chiaro che, nella complessa articolazione del «cespuglio», si ritrovano sempre di più specie con caratteristiche a mosaico: alcune primitive e altre moderne. È un fenomeno che si è osservato ora anche con l’Homo naledi.
Erectus ed ergaster
Vissero da 2 milioni a circa 100 mila anni fa in Asia: sono le prime forme di Homo diffuse su tutta la Terra, le più simili a noi, nel fisico e forse nella socialità.
La galleria del tempo
Ecco, così, tracciata una galleria di antenati, naturalmente per sommi capi: è il risultato di rapide occhiate dal buco della serratura dei ritrovamenti rispetto ad una storia di molti milioni di anni. Sono come i fotogrammi sparsi di un mondo infinitamente più vasto e più ricco. «Quello a cui ambiamo, nell’incompletezza delle nostre conoscenze e dei dati a nostra disposizione, è di arrivare ad un quadro finalmente coerente dell’evoluzione umana», spiega Bondioli. E ora l’Homo naledi apre nuovi scenari.
Il nodo della datazione
«Questa scoperta inattesa e ancora da valutare - aggiunge - ci dà la speranza di allargare quel piccolo buco nella porta del tempo, dal quale spiamo la nostra storia. I resti dei 15 individui rinvenuti nella grotta di “Rising Star” e le aree ancora da scavare costituiscono, da soli, una quantità di materiale fossile umano più abbondante di quanto ne abbiamo scoperto in tutta l’Africa dal 1924 ad oggi: lo commentavo proprio con John Hawks della University of Wisconsin-Madison, uno degli autori della scoperta in Sud Africa».
Gli studiosi nel mondo
Una datazione certa al 100% avrebbe di sicuro reso l’annuncio rivoluzionario, conclude il professore italiano. Ma, comunque, «in queste ore i 500 paleoantropologi di tutto il mondo che stanno leggendo gli articoli scientifici sulla scoperta sanno che c’è un aspetto più che significativo e che, forse, ci costringe ad attribuire un pensiero simbolico e capacità cognitive complesse a ominini con un cervello non più grande di quello di un gorilla».

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GIANLUCA GROSSI, IL GIORNALE –
Fino a venti anni fa era tutto molto più semplice. Si partiva da una specie di scimmione, l’Australopithecus, e in paio di step - Homo habilis e Homo erectus - si arrivava alla nostra specie, l’Homo sapiens sapiens. Facilissimo. Oggi, però, grazie ai progressi della scienza, le cose sono precipitate, e quelle che erano appena quattro specie antenate dell’uomo moderno sono diventate una ventina. E non passa anno senza che i quotidiani di mezzo mondo, spulciando qualche rivista scientifica, non tirino fuori per l’ennesima volta il titolo: scoperta una nuova specie umana. Avanti di questo passo quanti prozii dovremo contare per comprendere appieno il nostro cammino evolutivo?
Domande che sorgono spontanee all’indomani della notizia diffusa dall’University of Witswaterstrand di Johannesburg, in SudAfrica, e dal National Geographic. Di cosa si tratta? Dei resti di una quindicina di ominini (raggruppamento tassonomico comprendente noi e gli scimpanzé) vissuti fra i due e i due milioni e mezzo di anni fa. In SudAfrica, a una cinquantina di km da Johannesburg. Erano di bassa statura, magrolini, non pesavano più di 50 kg, ma i tratti scimmieschi non erano così preponderanti come nelle cosiddette forme australopitecine (il vero e proprio anello di congiunzione fra noi e le scimmie). Erano più intelligenti degli Australopithecus. Benché possedessero un cervello grande quanto un’arancia, la loro attitudine a seppellire i corpi mostra la tendenza al ragionamento, e a regalare un degno riposo ai propri cari, consuetudine nota solo alla nostra specie (e ai neandertaliani). Il luogo del ritrovamento è una specie di piccolo cimitero arcaico, separato dalle zone adiacenti e caratterizzato da resti di individui morti presumibilmente per cause naturali.
Alla luce di questi risultati i ricercatori non hanno tardato a riportare l’ipotesi di una nuova specie che fa sempre più rumore del rinvenimento di un «banale» Homo habilis o di un Australopithecus afarensis, entrambi conosciuti da parecchi anni. Ecco dunque il suo nome: Homo naledi. La vera notizia però è un’altra. Ci vorrà del tempo per stabilire se Homo naledi - stella nascente in lingua sotho - è davvero un altro germoglio evolutivo, ma nessuno può negare che proprio in questo frangente sia stato scoperto in un colpo solo il più alto numero di resti appartenenti al genere Homo. In paleoantropologia si urla al miracolo quando salta fuori una falange, un pezzo femore, un occipitale, figuriamoci quando si scoprono le tracce di ben 15 individui, per un totale di 1500 frammenti ossei. «Homo naledi è già la specie fossile meglio conosciuta nella linea evolutiva dell’uomo», dice Lee Berger della National Geographic Society, divenuto famoso nel 2010 per il rinvenimento dell’Australopithecus sediba, altra new entry nell’elenco delle specie che ci precedettero.
Il SudAfrica. Ecco l’altra vera notizia. Fino a pochi anni fa si pensava che la culla evolutiva dell’uomo fosse riconducibile alla cosiddetta Rift Valley, a cavallo fra Kenya e Tanzania. È qui che trovarono Lucy, l’Australopithecus afarensis, nonché il più antico antenato dei gorilla, il Chororapithecus abyssinicus. Con le ultime scoperte, invece, il baricentro evolutivo si sposta verso Sud, e il SudAfrica pare in pole position nella classifica delle nazioni che ci dettero i natali. È di pochi mesi fa il rinvenimento nelle grotte di Sterkfontein di un’altra specie battezzata Australopithecus prometheus. Certo, era molto più antica dell’ultima ritrovata, ma è curioso notare che probabilmente visse in contemporanea a Lucy, la mamma di tutti noi. E il futuro della ricerca in campo paleoantropologico parte ancora da qui. «Ci sono centinaia per non dire migliaia di resti da studiare», chiude Berger. E le grotte di Sterkfontein hanno ancora parecchi misteri da svelare.

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FOCUS.IT –
La scoperta è importante, eccezionale e farà discutere a lungo perché una scoperta del genere non era mai stata realizzata e neppure si ipotizzava di poterla fare.
Nella grotta del Sud Africa chiamata Rising Star che si trova a circa 50 chilometri da Johannesburg sono venuti alla luce circa 1.500 reperti fossili che appartengono, probabilmente, ad almeno 15 individui di una nuova specie di Homo, chiamata Homo naledi. E probabilmente altri reperti potrebbero ancora venire alla luce.
CERVELLO DA GORILLA. Che cosa ha di così particolare questa scoperta? Due sono gli elementi importanti che sottolineano i ricercatori. Il primo riguarda le caratteristiche della nuova specie, la seconda il gran numero di reperti che permetterà di conoscere più cose del H. naledi che di quasi tutte le altre specie di Homo note finora.
Homo naledi aveva un cervello molto più piccolo rispetto alle altre specie di Homo, tanto da assomigliare di più al cervello di un gorilla che non a quello di un umano, e anche il bacino e le spalle erano piccole.
Ma i denti, relativamente minuti, le gambe lunghe e la struttura dei piedi lo avvicinano di molto all’uomo moderno.
«Abbiamo scoperto qualcosa che non mi sarei mai aspettato di vedere nella mia vita», ha detto Lee Berger, autore della ricerca che è stata pubblicata su Elife.
Al momento non si è ancora definito con precisione il periodo in cui visse quella specie di Homo, ma è assai probabile che quegli individui fossero i primi del genere Homo e quindi dovrebbero avere un’età di circa 3 milioni di anni. «La scoperta è di grande interesse perché ci dice ancora una volta che la natura sperimentò diverse strade evolutive, una delle quali avrebbe portato all’Homo Sapiens», ha detto Berger.
PENSIERI DA SAPIENS. Il secondo elemento di importanza di questa scoperta, ossia la grande quantità di fossili trovati, darà modo ai paleontologi di studiare l’evoluzione dei singoli individui, dai bambini agli anziani, oltre che capire quali erano le differenze tra i maschi e le femmine e probabilmente molte delle loro abitudini alimentari.
Sepolti? C’è poi un ulteriore elemento che ha sorpreso i ricercatori. Quei corpi sembrano essere stati volutamente portati in fondo alla grotta dove sono stati scoperti, come se si fosse voluto dare loro una sepoltura. «Questo sarebbe oltremodo sorprendente – sottolinea ancora il ricercatore – perché vorrebbe dire che quegli esseri erano capaci di comportamenti rituali e di pensiero simbolico, un elemento che si ipotizzava associato solo con l’Homo sapiens e il Neanderthal».
SPELEOLOGHE ALL’OPERA. Va sottolineato che questa ricerca ha chiesto l’aiuto di speleologi di grande esperienza, perché l’antro della caverna era così angusto che si richiedevano notevoli doti tecniche di esplorazione e anche un corpo molto minuto. Sono state infatti, donne-speleologo a lavorare nella prima fase della ricerca. «La prima volta che sono arrivata nella camera dove c’erano le ossa fossilizzate ho provato una sensazione simile a quella che deve aver provato Howard Carter quando aprì la tomba di Tutankhamon», ha detto Marina Elliott, una delle speleologhe.