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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

IL TELESHOW DELLA SUBURRA

Il funerale li ha smascherati come mafiosi del territorio, Porta a Porta li ha mascherati da lazzari italiani. Il funerale li ha dannati come boss, Bruno Vespa li ha salvati come monelli di strada. E quando Vespa ha detto «la vostra “sterminata“ famiglia» e Vera Casamonica è insorta «ma quale “sterminata”, noi siamo tutti vivi», la comicità è diventata veramente seria, come nel linguaggio “storto” di Nino Frassica.
La donnona in nero ripeteva infatti «io sono alfabeta» e poi, arrabbiata, «ce volete leva’ la nostra cultura?». Echeggiava, con la saggezza dell’istinto, la retorica dell’autenticità e del folk vernacolare, l’apologia del “casamonichese” insomma, nella quale si sono distinti i maîtres à penser della tv del pomeriggio, e poi Antonio Pennacchi e la Zanzara, persino Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi. E così martedì sera, nel tempio di Raiuno, salotto- istituzione dell’informazione televisiva, le risatine di Vespa, il suo tono allegro e la sua spensierata e irresponsabile corrività hanno oscurato l’usura, le estorsioni e la violenza e hanno definitivamente spacciato lo stile sconnesso e selvaggio dell’illegalità della suburra romana per vitalissima tradizione popolare da proteggere come il ladino, il romancio e i dialetti delle enclave arbëreshë. Vespa adesso invoca il giornalismo, le interviste ai mafiosi e ai camorristi fatte dai maestri (morti) della nostra professione, ha persino confezionato una trasmissione riparatoria e come al solito «la correttezza» è diventata in lui un espediente artificioso, la scappatoia formale dentro la quale ingabbia una sostanza che è spesso la stessa: il ruffianesimo e la dolce impertinenza che riserva a tutti i potenti, Casamonica compresi. Non è così che Biagi intervistava Sindona e Buscetta.
Dunque la verità è che martedì sera, accomodati nella famosa Terza Camera italiana, non c’erano più la figlia e il nipote di un padrino, vale a dire gli esponenti di una delle tante famiglie criminali che si dividono il territorio d’Italia, fratrie economiche legate dal vincolo del sangue, società non per azioni ma per parenti. Con Vespa nel ruolo di spalla antagonista, come il famoso onorevole Trombetta di Totò, Vera e Vittorino Casamonica sono riusciti a raccontarsi come due pittoresche e innocenti figure dello stereotipo romanesco e zingaresco. E quando il ragazzo rideva, «perdonate, mia zia non ha fatto le scuole», Vespa si avvicinava alla signora strisciando lo sgabello, come fa con Renzi e con il professore Crepet: «Lasci perdere, sua zia si difende come se avesse cinque lauree». E allora la signora si scioglieva: «Signor Bruno, cosa crede? Rubano anche a noi, le faccio vedere la denunzia». Forse davvero Vespa non capisce che il problema non sono i Casamonica in tv o sui giornali, intervistarli o raccontarli, commentarli, svelarli o persino difenderli, se si ha il coraggio. Lo scandalo qui è l’ammiccare untuoso sul palcoscenico televisivo più importante d’Italia.
È la complicità magliara con «questo clan che è venuto dal niente» che nega il giornalismo, che può essere talento o solo mestiere, ma è sempre distanza, onesta verifica, scavo e contraddittorio vero. Troppo spesso Vespa confeziona le trasmissioni per compiacere i suoi ospiti, cuce per tempo e su misura le interviste e trasforma tutto questo suo precotto in festa di paese. Dunque il risotto di D’Alema, la scrivania di Berlusconi, le lacrime di Bersani e il selfie con Grillo sono diventanti qui la croce e il vestito bianco di Vittorio Casamonica. E la famosa carrozza del funerale era solo una delle tante esagerazioni dei rioni popolari: «Ce ne sono in giro di più grosse e più vistose, è la stessa che viene usata per ricordare Totò».
Vespa ha contato gli assegni a vuoto: «Sono 16» ha detto. E ha castigato le evasioni fiscali. Ma ha insistito nel farci sapere che il morto «non è mai stato implicato in storie di droga». E ovviamente c’era «l’avvocato “storico” – ha detto Vespa – dei Casamonica», un signore che era persino vestito da avvocato, ma ha esordito così: «Non sono qui per difendere i Casamonica».
L’avvocato ha ammesso impertinenze e marachelle di «un uomo che ha vissuto la Dolce Vita, ed era molto legato alla Roma felliniana, tant’è vero che ha venduto macchine a Bobby Solo, al maestro Trovajoli e a Little Tony, e frequentava la “Roma bene” nei night». E Vespa si è divertito ad eccitare la vena popolana, aggressiva e vittimista di Vera Casamonica, con lei ridacchiava, occhieggiava, giocava a guardia e ladri, la compiaceva al punto da volerla a tutti i costi abruzzese come lui, «signor Bruno, lei insiste con questo Abruzzo ma mio padre era di Napoli, anzi della provincia di Caserta, di Isernia, della provincia di Campobasso» e sembrava di risentire Totò che salutava un signore in treno «prima o poi vi verrò a trovare nella bella Roma, lassù in Romagna».
Così ha ridotto il giornalismo Bruno Vespa. Ed è ovvio che l’audience lo abbia premiato e che i Casamonica abbiano fatto più share di Matteo Renzi che da Vespa è giornalismo-comunicato mentre Casamonica voleva essere giornalismo-choc. Già Matilde Serao diceva dei giornali-spazzatura: «È abbastanza brutto per tirare centomila copie.
Ma si può farlo più brutto ancora». Ed è famoso il consiglio che Gaetano Afeltra diede a un direttore che non riusciva a vendere abbastanza: «Piglia ’o iurnale e riempilo e ‘m…».
Francesco Merlo, la Repubblica 10/9/2015