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 2015  settembre 06 Domenica calendario

MONTALBANO, LA VECCHIAIA NON ESISTE!

Da Pirandello a Paul Auster è consuetudine che i personaggi d’invenzione vadano in visita dal loro autore. Capita anche a Camilleri. Oggi, il 6 di settembre, i suoi personaggi si sono dati tutti appuntamento in casa del padre-scrittore, nel suo studio, attorno al tavolo di lavoro ingombro di carte in mezzo alle quali troneggia spazioso il computer. L’occasione è il compleanno dell’autore. Si sono presentati in massa. Hanno lasciato Vigàta. Si accalcano ora attorno al loro borgomastro; all’inventore e organizzatore del villaggio che popolano: al grande urbanista, all’architetto, all’orologiaio che dà e regola il tempo, al maestro che ha forgiato la lingua che parlano. Non sono spettri che, per definizione, non appartengono a nessun luogo. Loro sono di Vigàta. Non hanno l’abitudine di attraversare la muraglia della notte e la caligine della luna. Non calcano le ore accidiose del torpore meridiano. Sono buoni cittadini, civilmente educati. Si presentano all’ora del tè: l’ora dei colloqui pomeridiani.
Guardano Camilleri con la devozione negli occhi. Contegnosi, rendono omaggio ai suoi anni e al suo talento di scrittore. Ma fanno subito largo al loro portavoce.
Si stacca dalla folla Montalbano. Lui, il commissario, può parlare per tutti: conosce le storie che ognuno si porta dietro; ha carattere, consapevolezza del proprio ruolo. È il personaggio che ha maggiore confidenza con l’autore, tanto da potersi permettere qualche volta, ma sempre con cauta cordialità, di entrare in conflitto con chi l’ha inventato. Montalbano sa penetrare l’ironia segreta dello scrittore, che l’ha buttato dentro un tempo che non ama (per la politica dei governi e della stessa Polizia di Stato) e gli ha messo attorno un commissariato domestico di disordinato calore affettivo che, con la sua onomastica ornitologica (l’ha colto bene lo storico Giovanni De Luna), «evoca lo starnazzare di un pollaio»: c’è un Augello, un Galluzzo, un Gallo, un Tortorella; e persino un telefonista, Catarella, che, smarronando, gloglotta come un tacchino. E poi Montalbano, che qualche romanzo di Camilleri l’ha pur letto, e l’ha fatto capire all’autore, conosce le astuzie del narratore che lo fa sì protagonista di trame gialle ma per una sverniciatura critica del genere. L’ha spiegato benissimo Melania G. Mazzucco: «Camilleri non scrive gialli più di quanto Goldoni non scriveva commedie dell’arte. In due dei primi romanzi della serie sembra quasi che si serva del veicolo del romanzo giallo come un autostoppista di una macchina di passaggio da cui scende a piacimento: sbrigata come per necessità la soluzione del caso, a metà del Cane di terracotta (1996) una raffica di mitra interrompe la narrazione, il romanzo cambia registro e si trasforma in una favolosa ballata storica; lo stesso accade a metà del Ladro di merendine (1996), che diventa un romanzo psicologico. Camilleri perciò finge di scrivere gialli, mentre fa tutt’altro». E soprattutto scrive romanzi «intrisi di realtà». E di lui, di Montalbano, che va eludendo la sua orgogliosa, malinconica, e irrequieta prostrazione, fa l’apripista imprevedibile e determinato di una storia narrativa, costantemente aggiornata, delle disfunzioni patologiche di un intero paese.
Il commissario non si limita a consegnare il bouquet degli auguri. Ora che è in permesso d’uscita dagli astucci dei libri che lo riguardano, vuole parlare liberamente con l’autore. Ha letto gli ultimi due libri in divisa blu della Sellerio: Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano (2014) e La giostra degli scambi (2015). Si è trovato a rileggere se stesso lungo l’arco che va dalla giovinezza alla maturità. E vuole complimentarsi con il biografo di Vigàta. I libri sono due potentissime macchine narrative, magnificamente gestite: una raccolta di racconti costruita a matrioska; e un romanzo-labirinto che, come le tonnare, nasconde tra i suoi ingannevoli e attorcigliati andirivieni una cruenta «camera della morte». Ci vuole una mano forte e sicura per dominare ingranaggi così complessi, senza che si inceppino. E una scrittura maturata verso una verde freschezza senza età. Nel corso degli anni anche lui, il personaggio, grazie all’autore, è maturato verso una libertà dall’assuefazione alla routine che gli ha mantenuto intatto lo spirito di curiosità (legge dai racconti: «A mia le cose che restano senza spiegazioni mi danno fastidio») e conservato (legge dal risvolto) un «delicato senso di giustizia assai più giusto dell’impersonale rigore burocratico». Enrico Deaglio ha scritto: « Montalbano (…) è parte di un mondo, che è per lui continua fonte di stupore, di una realtà che si modifica, ed è pronto continuamente a mettersi in gioco».
Camilleri ascolta in silenzio. Ha capito qual è la domanda che il personaggio vorrebbe fargli, e non osa. Montalbano sente dentro di sé un tedio lento che lo logora. È frastornato dalla paura di invecchiare: dalla perdita di memoria, dal rammollimento, dalla decrepitezza. Tanto più che i suoi compagni di avventura letteraria sono teneramente persecutori. E non si astengono dal ricordargli che gli anni passano e pesano. Già nei racconti che lo vedono giovane, la fidanzata gli dice: «Quando diventerai vecchio, ti comporterai peggio di un gatto abitudinario». E nell’ultimo romanzo uscito, è addirittura irritante: «Salvo, non ti offendere, ma il tuo istinto non è lo stesso di quello che avevi a trent’anni». Quasi quasi Salvo Montalbano se ne convince: «Ecco, si annava arripitenno: ’sti dubbi, ’sti scanti, ti venno pirchì sei avanti con l’età e le vicchiaglie levano la sicurizza e le cirtizze della gioventù».
Camilleri guarda con serenità il personaggio. Lo guarda dalla cima dei novant’anni che festeggia. Si aspettava il mugugno inespresso. E si era preparato. Da una scansia estrae un libretto dell’etnologo Marc Augé, pubblicato in Italia l’anno scorso da Raffaello Cortina. È intitolato Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste. Camilleri apre a pagina 29. Legge, scolpendo gli accenti: « –Quanti anni ha?–. Da qualche tempo quando mi si rivolge la domanda sprofondo nell’imbarazzo. Anzitutto proprio nei confronti di chi me la pone visto che mi appare prova di un’indelicatezza di cui non sospettavo l’esistenza e, secondariamente, perché devo ben riflettere prima di rispondere. Come posso dire? Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo». Interpretando Augé, aggiunge che la cosiddetta vecchiaia è matura e attiva esperienza umana: un tempo qualitativo, che fa astrazione dall’età.
Montalbano capisce. E con lui, i personaggi di Vigàta che si affollano alle sue spalle e invadono la casa dello scrittore.
Auguri, Andrea, dal tuo risvoltista.
Salvatore Silvano Nigro, Domenicale – Il Sole 24 Ore 6/9/2015