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 2015  settembre 05 Sabato calendario

LA RISPOSTA PER LA CRESCITA DEVE ESSERE EUROPEA

La crescita economica mondiale frena e quella europea langue. Ci sono quindi motivi di preoccupazione perché il rallentamento nelle economie emergenti continua e la ripresa in quelle avanzate (salvo gli Usa) non decolla. Inoltre cresce la volatilità nei mercati finanziari, i prezzi delle commodities calano, le valute degli emergenti si deprezzano, l’inflazione è quasi zero nella eurozona. Questo è lo scenario che si trae dalle valutazioni di Mario Draghi in margine al consiglio della Bce e soprattutto da quelle preparate dall’Fmi per la riunione del G-20 finanziario in corso ad Ankara.
Pur senza catastrofismo bisogna allora chiedere con forza all’Europa di fare la sua parte con politiche fiscali e di investimento più pro-crescita. Solo così l’eurozona e la Ue (e non i singoli Paesi a sparpaglio) riprenderanno uno sviluppo sostenibile nel medio-lungo termine e potranno anche assumere il ruolo (politico) di un polo mondiale per una crescita improntata alla sostenibilità economica e alla coesione territoriale e civile su cui è nata la costruzione europea. Vediamo allora (utilizzando con libera interpretazione anche citate riflessioni della Bce e dell’Fmi) perché l’eurozona frena e come si potrebbe rilanciarla .
L’Eurozona frena
Questa è la realtà. La crescita del Pil dello 0,3% nel secondo trimestre è stata più bassa delle previsioni con la sorpresa (negativa) di una crescita tedesca minore delle attese e quella (positiva) migliore delle attese, per Italia, Spagna e Irlanda che Markit stima forte anche in luglio e agosto. Su base annuale la Bce ha ribassato le previsioni di 0,1 %e 0,2% portando la dinamica del Pil all’1,4% per il 2015, all’1,7% per il 2016, all’1,8% per il 2017. Si stima dunque che la ripresa Uem continui debole anche nel 2015 e 2016 con ( secondo l’Fmi) migliori andamenti per Germania, Francia, Italia e Spagna. Tenendo conto di varie previsioni la nostra impressione è che i tassi di crescita di Germania, Italia e Francia tenderanno a convergere tra l’1,4% e l’1,7% tra il 2016 e il 2018.
Per noi sarebbe già un notevole risultato (visto che dal 2008 al 2014 abbiamo perso più di 8 punti di Pil) mentre per la Germania si tratterebbe di un arretramento (visto che in media annua è cresciuta quasi all’1% con punte al 4% nel 2010 e 2011).
Draghi e la Bce spiegano questa modesta ripresa della Uem soprattutto con il rallentamento delle economie emergenti che frena le esportazioni ma anche per i necessari aggiustamenti nei bilanci di vari settori (ed in quelli pubblici) e per la lentezza nelle riforme strutturali. Il contrappeso dovrebbe venire a loro avviso dalla domanda interna sostenuta sia dalle politiche monetarie (molto) favorevoli sia dalla riduzione dei prezzi del petrolio. Dovrebbero quindi aumentare il reddito disponibile delle famiglie e la profittabilità delle imprese e, di conseguenza, i consumi e gli investimenti.
A questo punto nasce un quesito: basterà tutto ciò per evitare la deflazione nella Uem per la quale si prevede una dinamica dei prezzi dello 0,1% quest’anno e una disoccupazione che all’11,1% di quest’anno scenderà sotto il 10% solo nel 2018?
Come rilanciare
La risposta è negativa e l’Europa non può affidarsi alla speranza di miglioramento delle economia emergenti a partire dalla Cina. Ci vogliono perciò euro-politiche economiche forti sulle quali c’è concordanza nominale tra la Bce e l’Fmi ma con diverse enfasi. Anche perché l’ Fmi vede rischi di una stagnazione secolare per le economie avanzate.
Acquisito che la politica monetaria rimarrà espansiva e potrà anche essere potenziata ma che da sola non basta, si evidenzia che vanno “accentuate” altre due politiche economiche.
Quella delle riforme strutturali. Va aumentata la produzione potenziale molto danneggiata nella crisi e la produttività con miglioramenti nei mercati dei fattori (lavoro) e dei prodotti e nelle condizioni esogene per le attività di impresa. Ma a tal fine non sono necessari anche stimoli agli investimenti?
Quella della politica fiscale. Draghi auspica che la stessa sostenga la ripresa ma enfatizza il rispetto del patto di stabilità e di crescita perché essenziale credibilità della Uem. L’Fmi, pur auspicando il rispetto del Patto, fa varie precisazioni. Innanzitutto quella che gestire alti debiti pubblici in condizioni di bassa crescita e inflazione è molto difficile per cui il consolidamento fiscale deve essere ancorato a programmi credibili di medio termine ma molto attento alla crescita specie con la riduzione delle tasse sul capitale e il lavoro tagliando le spese improduttive. In secondo luogo l’Fmi chiede ai Paesi dotati di disponibilità di bilancio, come la Germania, di spingere la crescita investendo nelle infrastrutture pubbliche.
Massa e flessibilità per gli investimenti
Questo ci riporta a una politica senza la quale l’Eurozona non intraprenderà uno sviluppo sostenibile, innovativo ed ecocompatibile di lungo periodo (quindi non una crescita qualsiasi) che dovrebbe essere invece un “dovere” sia verso i suoi cittadini sia verso il mondo dove portare un paradigma virtuoso di partenariato pubblico-privato. Senza riprendere temi spesso trattati limitiamoci a due osservazioni. Innanzitutto non dimentichiamo mai che la Bei e la Commissione europea hanno calcolato che nella Ue dal picco del 2007 gli investimenti sono calati di circa 430 miliardi (di cui il 75% in Francia, Italia, Spagna, Grecia e Regno Unito) e che nel 2013 erano tra i 230 e i 370 miliardi di euro sotto la media storica sostenibile della Ue. Da qui è partito il Piano Juncker che è qualitativamente buono ma che ha poca massa ed è lento nel decollo.
In secondo luogo bisogna che i singoli Paesi della Uem investano di più. Per l’Fmi la (riluttante) Germania, date le sue disponibilità di bilancio, dovrebbe fare investimenti pubblici infrastrutturali addizionali del 2% del Pil per quattro anni. L’Italia necessita di adeguate flessibilità di bilancio, giustificate anche dai livelli tassi di interesse e dalle riforme in corso, per fare più investimenti d’impresa fiscalmente facilitati (anche in tecno-scienza) e quelli in partenariato per le infrastrutture (tra cui quelle per logistica nel mezzogiorno) richieste dalla Commissione stessa.
Alberto Quadrio Curzio, Il Sole 24 Ore 5/9/2015