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 2015  settembre 05 Sabato calendario

NELLA CITTÀ MARTIRE DEI CURDI L’ADDIO AL BAMBINO MORTO PER VIVERE

ERBIL.
A Kobane i volontari hanno appena finito di scavare le fosse, restano appoggiati alle pale sui mucchi di terra sassosa, fra poco bisognerà ricolmarle. C’è una folla, non numerosa, soprattutto di uomini. Le donne non partecipano alla sepoltura nei funerali musulmani tradizionali, qui ce ne sono alcune, giovani per lo più, anche alcune bambine in lacrime, benché non si debba. Le salme sono tolte dalle bare servite al trasporto, andranno nella terra avvolte nel lenzuolo bianco. Il viso di Alan (le autorità turche avevano dato in un primo tempo il nome Aylan, poi la zia ha corretto, ndr) riaffiora un’ultima volta, sciolto dal lenzuolo, perché suo padre vuole baciarlo. Poi il lenzuolo si riannoda come un nastro sulla sua testa. Le fosse sono larghe e profonde abbastanza perché il padre e lo zio e gli uomini che li aiutano ci scendano dentro a deporre i corpi. Corpi leggeri. Anche Rehané, la madre, quella che aveva paura dell’acqua: il suo nome vuol dire “basilico”, in curdo. Le tombe hanno un miserabile contorno di blocchi di cemento forato, che qui fanno figura di mattoni. L’argilla c’è, ma le fornaci e i loro artigiani hanno chiuso. Ci sarà tempo per recintare le tombe e decorarle degnamente. Non ci sono discorsi, solo la lettura dei versetti del Corano. La spianata desolata è adiacente al “Cimitero dei martiri”. Tutta Kobane è una città martire –“la Stalingrado dei curdi”, qualcuno l’ha chiamata. (Un reportage disegnato di Zerocalcare per Internazionale la raccontò lo scorso gennaio). Le opposte, innumerevoli fazioni, fanno in questa sventurata regione un uso e un abuso del nome di martire. Il bambino Alan, suo fratello Ghalip, sua madre Rehané, non sono stati martiri, non nel senso dell’abuso, non hanno testimoniato per un culto della morte. Al contrario, ne hanno preso tutta la distanza di cui erano capaci, sono andati a cercarsi la vita. Rehané aveva paura di morire, aveva paura dell’acqua, non conosceva il mare, non sapeva nuotare. Alan era allegro per l’avventura, dice suo padre, è restato allegro fin dentro alla penultima onda, quando ha detto: «Ma è fredda l’acqua!».
C’è un brusio ininterrotto che a volte diventa un rumore disordinato, misto di compianto e di suoni di lavori in corso. Non ci sono bandiere, non ci sono uomini e donne in tenuta da combattenti: non so se voglia dire una dissociazione fra i partigiani della città devastata e una famiglia che ne era fuggita già da tre anni. Del resto tutto è stato improvvisato: il trasporto delle bare in aereo a Istanbul e da lì a Suruç, poi in furgone oltre il confine. Abdullah, il giovane padre, ha parlato tante volte che sembra frastornato, solo di tanto in tanto trova il modo di coprirsi gli occhi e starsene col suo cuore spezzato: anche per questo avrà tanto tempo. Ripete il racconto: da Izmir il tragitto era troppo lungo, ci hanno consigliato di andare a Bodrum, e di lì a Kos. Era un gommone di 6 metri, ci siamo imbarcati in 13 col pilota. La prima onda è arrivata dopo 4 minuti, lui è saltato giù, io ho preso il volante ma la successiva onda l’ha ribaltato. Li abbracciavo, mancava l’aria, sono scivolati via, prima Ghalib, poi Alan – aveva gli occhi pieni di sangue, non so perché, poi li ha chiusi - infine lei. Il Canada gli ha offerto l’asilo, adesso, lui ha accettato quello della Turchia. Kobane gli era parsa impossibile per far vivere la sua famiglia, ora gli sembra giusta per ospitarla in morte.
Kobane non è Turchia, non è Siria. E’ il Rojava curdo-siriano, uno dei pezzi della nazione curda che aspirano, se non a ricomporsi, a guadagnarsi ciascuno una propria rispettabile libertà. Kobane ha pagato un prezzo altissimo. I curdi di Siria sono sempre stati divisi dal dispotismo alawita in tre categorie: i cittadini, i soggiornanti senza cittadinanza, e i Makhtun, curdi-turchi, gli spogliati di tutto. Prima che alla solidarietà nazionale o politica – fra PKK turco e filiazione siriana, il PYD - il legame fra curdi turchi e siriani è parentale. La capitale del Rojava, Qamishli, è separata da un’arbitraria linea di frontiera (1923) dal suo tronco turco, l’antichissima Nusaybin. La Siria non esiste più, e la distinzione fra sfollati dentro i suoi confini e profughi fuori è derisoria: quasi dodici milioni che hanno perso casa, passato e futuro. Il funerale avviene in una Siria fittizia in cui la televisione governativa commenta così: «E’ la fine che spetta a chi tradisce la patria e non vuole vivere con dignità nel proprio paese». Parole opposte ha voluto dire Erdogan: «Quando ho visto la foto sono crollato. Ero con la mia famiglia, con i nipoti, e ho chiesto: dov’è finita l’umanità? ». I paesi europei sono i primi responsabili, ha aggiunto Erdogan. La Turchia ospita – in quali condizioni, è altro affare - un milione e 800 mila profughi, e questo basterebbe ad autorizzare l’accusa di Erdogan. Ma era stato lui a chiudere la frontiera e a lasciare Kobane in balia dell’Is. Sono lui e il suo governo a impedire oggi ai volonterosi accorsi all’ospedale di Bodrum di accompagnare il percorso delle salme, e a opporre ai curdi e ancora più rigidamente ai giornalisti un cordone di militari a 3 km dal confine di Kobane. La fotografia che l’ha “devastato” e l’ha autorizzato ad accusare l’Europa non è bastata a permettere che il funerale venisse seguito, per il rischio che servisse alla causa curda. Mentre il funerale è in corso, scontri armati, e vittime delle due parti, si svolgono, come pressoché quotidianamente in questo periodo, fra militanti curdi turchi e militari turchi.
Il presidente del Kurdistan iracheno, Masud Barzani, ha detto che l’immagine di Alan è «un altro simbolo della tirannia che ha oppresso dovunque il popolo curdo». David Cameron ha parlato del proprio sentimento di padre (ci sono pressoché solo padri, in questo atto della tragedia: le madri sono annegate, o ammutolite) e annunciato una correzione alla durezza di cuore. Ce n’era abbastanza per figurarsi un altro funerale storico, un’altra adunata di grandi della terra che si tenessero per mano e giurassero: «Mai più!» Dopotutto, da due giorni mezzo mondo (l’altra metà, in Colombia, in Malaysia, ha i suoi naufragi di mare e di terra, i suoi bambini) sta gridando: «Io sono Alan». Che distanza da questa terra gialla scavata in fretta, da questo esercito che tiene lontano il lutto. Ma è il punto essenziale di questa tragedia estratta a sorte dal mucchio, grazie a un corpo di bambino e a qualche fotografia. Ora sappiamo le cose singolari, che ci stringono il cuore. Alan, 2 anni, voleva una bicicletta. (E Ghalib, coi suoi 4 anni, non voleva niente?). Non ha senso vergognarsi di questa commozione, o rinfacciarla, contrapponendola all’indifferenza o alla viltà di fronte a 240 mila ammazzati solo in Siria, a 14 milioni di minori senza scuole in Medio Oriente (Unicef, ieri), a 9 mila scuole diventate caserme di bande armate. Dobbiamo solo accorgerci che il piccolo corpo colorato di Alan è unico; e però che ognuna delle famiglie che marciano da una frontiera alla prossima – o che restano a languire nei campi pietosi e mostruosi del Libano, della Giordania, dell’Egitto, è diversa dalla famiglia di Alan solo per due dettagli: che non è ancora morta, e che nessuno ha ancora fotografato un suo cucciolo con la faccia nella sabbia, le palme delle mani rivolte al cielo, il viavai delle onde che lo sciacquano.
Adriano Sofri, la Repubblica 5/9/2015