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 2015  settembre 05 Sabato calendario

LA GUERRA DI SECESSIONE IN USA, NON È UN FUMETTO, MA PROVOCÒ LA MORTE DI BEN 750 MILA SOLDATI E CENTINAIA DI MIGLIAIA DI FERITI

Grande racconto storico, La guerra civile americana di Bruce Levine, Einaudi 2015, pp. 426, 32,00 euro, è un viaggio guidato nel grande conflitto civile che mise fine all’era degli stati schiavisti in Occidente. È un’epopea che ci è stata raccontata dal cinema, persino da film (come Via col vento) che simpatizzano con l’atroce causa dei «padroni», come i ricchi coltivatori del sud chiamavano se stessi. Sappiamo cosa capitò nel sud dopo la guerra: il Klan, le personalità sbiadite e nostalgiche dei romanzi di William Faulkner, il movimento per i diritti civili. la lotta per la Great society negli anni di Lyndon B. Johnson. Abbiamo ammirato Clint Eastwood nel Texano dagli occhi di ghiaccio, letto Tex Willer e ricordiamo più o meno tutto dei guerriglieri sudisti, da Jesse James a William Clarke Quantrill.
Conosciamo la guerra civile Usa attraverso i romanzi sulla storia delle presidenze americane di Gore Vidal (in primis Lincoln, Bompiani 1988). Ne abbiamo, tuttavia, un’idea solenne ma vaga, nel migliore dei casi erudita o letteraria, da racconto storico tradizionale, come nella classica Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi (BUR Rizzoli 2009). Bruce Levine invece racconta la guerra (prima, durante e subito dopo il conflitto) con la tecnica del grande reportage. Prima che un libro di storia, la sua Guerra civile americana è un viaggio nel tempo.
«Straordinariamente violenta», scrive in conclusione Levine, la guerra tra nordisti e sudisti «uccise in quattro anni più di settecentocinquantamila soldati e provocò centinaia di migliaia di feriti. Anche il costo in termini economici fu immenso. La guerra distrusse un terzo del bestiame del sud e dimezzò il valore dei suoi beni. Ovunque si guardasse, si vedevano rovine: carri, ponti, binari e piste, navi, officine, botteghe, magazzini, città e villaggi. Perché questo avvenne? È stato spesso affermato che il nord andò in guerra solo per salvare l’Unione e non per abolire lo schiavismo. A un primo livello, è senz’altro vero. Quel che innescò la guerra furono la secessione e l’attacco dei secessionisti a Fort Sumter. Ma è altrettanto vero che una guerra per salvare l’Unione si rivelò necessaria solo perché un partito politico, il partito repubblicano, che denunciava lo schiavismo e minacciava di abrogarlo, aveva conquistato nel 1860 il sostegno d’una cospicua maggioranza di elettori del nord. Se era stata la secessione a provocare la guerra, era stato il conflitto sempre piú aspro sullo schiavismo a provocare la secessione».
Si trattò, in sostanza, d’una guerra rivoluzionaria: come tutte le società condannate a morte, il sud (con la sua monocultura del cotone fondata sul lavoro degli schiavi e sull’idea della supremazia bianca) era convinto di poter durare per sempre. Il sud pensava che i neri, che frustavano e stupravano a piacere, fossero grati ai «padroni» della loro condizione. Superiori ai neri, che Dio stesso aveva creato schiavi, erano superiori «anche agli yankees».
Sudisti da operetta, ormai oltre l’orlo di qualsiasi abisso, gli abitanti di Dixieland «si consideravano una stirpe guerriera, nata per brandire la spada e la lancia; i loro nemici erano tutti contadini affamati, nati per servire e piegare la schiena. Gli uomini del sud provenivano «da una razza di padroni», dichiarò George Fitzhugh, della Virginia, nel 1861, mentre «le masse del Nord»erano una stirpe «di schiavi», per natura «stupidi, lascivi, ignoranti e depravati». Orgogliosi, spietati, una casta d’aristocratici vittime del delirio d’onnipotenza, non sfidarono soltanto «l’industria del nord», come raccontano le storie marxiste della guerra civile americana. Sfidarono la giustizia e la ragione, e persero com’è giusto e razionale la partita.
Diego Gabutti, ItaliaOggi 5/9/2015