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 2015  settembre 05 Sabato calendario

LA LEZIONE DI BELLEZZA DEL SOPRANO STONATO

Ormai è chiaro: quest’anno a Venezia i film importanti si dividono in due categorie uguali e contrarie. O documentano i disastri contemporanei, migranti allo sbaraglio e bambini soldato e preti pedofili, oppure parlano della bellezza, che forse non salverà il mondo ma certamente aiuta a sopportarlo. Della bellezza, come aspirazione a crearla e frustrazione quando non ci si riesce, tratta anche Marguerite di Xavier Giannoli, un film che inizia come commedia, finisce in tragedia e nel mezzo racconta un’ossessione meno rara di quel che si pensa: l’opera. Quindi è consigliabile a tutti, ma praticamente obbligatorio per gli operoinomani.
È ispirato a una storia vera, quella di Florence Foster Jenkins, il soprano peggiore della storia. Ma lei era convintissima di essere piena di talento e disgraziatamente, visto che era pieno anche il portafogli, poteva pagarsi concerti e registrazioni. La sua incisione della seconda aria della Regina della Notte è probabilmente la più disastrosa esecuzione operistica di tutti i tempi; di certo, i suoi dischi sono una miniera di perle nere, conosciutissimi da ogni melomane che voglia farsi del male o semplicemente quattro risate.
Marguerite non è la sua biografia (quella la sta girando Stephen Frears con Meryl Streep) e infatti la storia è trasferita dagli Stati Uniti alla Francia e dagli Anni Quaranta ai folli Venti. Jenkins diventa così Marguerite (Catherine Frot, davvero bravissima), una «baronne» molto ricca e altrettanto stonata, appassionata d’opera fino alla follia. Prima canta in casa per i suoi aristocratici amici e viene doverosamente applaudita. Poi però, istigata dal solito giornalista arrivista e senza che il marito che la cornifica abbia il coraggio di disilluderla, si mette in testa di farlo in pubblico. Allora assolda come insegnante un tenore in disarmo (Michel Fau, strepitoso) e inizia a esibirsi, prima in un cabaret dadaista (sequenza altrettanto strepitosa, con tanto di celebre tirata anarchica di Tristan Tzara), poi disgraziatamente in teatro. E qui, al grande recital dove si presenta con delle ali di piume sulle spalle (come la vera Jenkins sulla copertina dei suoi dischi catastrofe), è subito dramma. La diva fai-da-te sputa sangue straziando «Casta diva» fra i dileggi della platea e muore in ospedale quando finalmente le fanno ascoltare la sua vera voce: suicidio a 78 giri.
Giannoli aveva un papà corso che cantava alla mamma «Ridi, pagliaccio» in piedi su una sedia in cucina e rimase folgorato da Toro scatenato anche perché la colonna sonora è l’Intermezzo di Cavalleria rusticana. Parla del cinema come di «un’opera d’arte totale wagneriana», racconta che fu «sconvolto» dalla lettura dei celebri articoli di Baudelaire su Wagner, conosce pose e costumi delle dive fin-de-siècle e, insomma, per una volta abbiamo un regista che all’opera sa dove mettere le mani e la macchina da presa.
In più, ha il pregio di non infliggere agli intervistatori i consueti fervorini prêt-à-penser politicamente corretti. Il film? «Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa per vivere, che sia la fede, l’amore o le illusioni. Marguerite alla fine forse non muore. Da cristiano, preferisco pensare che diventi eterna, come i grandi personaggi che sognava di interpretare». Certo che, dopo Francofonia di Sokurov, in Mostra si torna a parlare dell’aspirazione al Bello mentre fuori il mondo sembra un film horror... «Vorrei evitare di dire le solite banalità, perché il dramma dell’immigrazione è troppo complesso per risolverlo con qualche slogan buonista o populista. Sono rimasto allibito vedendo le foto del bambino morto sulla spiaggia e soprattutto di come quel pompiere ne portava il cadavere, sulle braccia tese, come se stesse compiendo un sacrificio. È una delle immagini più forti che io ricordi, un gesto insieme sconcertante e di terribile bellezza, qualcosa di sacro e di sconvolgente: si chiama verità». La stessa verità, alla fine, che uccide Marguerite.
Alberto Mattioli, La Stampa 5/9/2015