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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

LA REGINA DEI MISTERI CHE SAPEVA USARE LA PROPRIA BELLEZZA

Elena: chi era costei? Troppo facile liquidarla come una qualunque adultera. Nonostante le ferali conseguenze della sua fuga a Troia con il bellissimo Paride, ove appena si ripensi alla sua storia ci si rende contro di trovarsi di fronte a un personaggio molto più complesso e molto più interessante di quanto si sia soliti pensare. Come già dimostra, per cominciare, la fonte più antica che ce ne parla: Omero, nel IV canto dell’Odissea. Siamo a Sparta, dove Telemaco si è recato per cercare notizie del padre. Menelao, accanto al quale siede Elena (alla quale il marito ha perdonato il tradimento: circostanza non poco singolare, sulla quale torneremo) sta magnificando con Telemaco le molte virtù e le molte astuzie di suo padre, tra le quali, come ben noto, l’inganno del cavallo di legno, nel cui ventre cavo si erano nascosti i guerrieri greci che, uscendone, avevano messo a ferro e fuoco la città nemica. E mentre ne parla, a un certo punto, si rivolge alla moglie. Ti ricordi, le dice, quello che accadde quando il cavallo venne portato sull’acropoli di Troia? Tra la folla accorresti anche tu, e poi «tre volte girasti intorno alla cava insidia, palpandola,/e per nome chiamando i più forti dei greci/e delle donne di tutti gli Argivi fingevi la voce». Fu solo per merito di Ulisse, prosegue Menelao, se i guerrieri greci chiusi nel ventre del cavallo non cedettero alla lusinga: fu lui, tappando loro la bocca, che salvò la Grecia dalla rovina (Odissea 4, 274 ss.).
È a dir poco sorprendente, il racconto di Menelao (per non parlare della sua impassibilità nel farlo). Elena, infatti – è lei stessa a raccontarlo – sapeva che il cavallo era un tranello: tempo addietro Ulisse era entrato di nascosto a Troia per spiare i nemici, e lei lo aveva riconosciuto, ma non lo aveva denunziato. Da tempo ormai era stanca di Paride, che si era dimostrato tanto bello quanto vile, e rimpiangeva il primo marito... Di conseguenza, dopo aver ascoltato il piano per sconfiggere i nemici che Ulisse le aveva raccontato, aveva coperto la sua incursione, consentendogli di uscire indenne dalla città.
Ma allora, se così stavano le cose, perché, quando il cavallo era stato portato a Troia aveva simulato le voci delle mogli degli eroi che vi erano nascosti? Quantomeno, bisogna dire che non c’era coerenza tra quel che diceva e quel che faceva: nel caso migliore era una donna leggera e indecisa, nel peggiore bugiarda e traditrice. Eppure Menelao, oltre all’adulterio, le aveva perdonato anche questo. Un comportamento non solo sorprendente, ma impensabile, in un marito greco. Prescindiamo dall’episodio del cavallo: in Grecia non c’era comportamento più inaccettabile, più infame per una donna di un tradimento coniugale. I mariti traditi (ai quali era consentito uccidere impunemente il complice della moglie sorpreso in flagranza all’interno della propria casa) erano gravemente puniti se non la ripudiavano. Elena, invece, oltre a non essere stata ripudiata, si era vista restituire l’onore e il ruolo di moglie e di regina. Ma c’è dell’altro: racconta Teocrito, nell’Epitalamio di Elena, che ogni anno a Sparta di teneva una corsa in occasione della quale le ragazze, alle quali era riservata, correvano in suo onore. E cantavano: «Tu sei la migliore di tutte noi, perfetta tra le coetanee, bella, brava a tessere, filare, cantare, suonare; tu hai negli occhi il desiderio di amore. Sei già la padrona di una casa, e noi domattina andremo, celebrandoti, alla pista ove si corre e ai prati fioriti per intrecciare corone profumate». Strana storia, davvero, quella di Elena: evidentemente, era un’adultera speciale. Per qual mai ragione?
Una prima risposta potrebbe venire dal ricordo di una vecchia storia: quella della discussione sorta fra tre dee – Era, Atena e Afrodite – ciascuna delle quali riteneva di essere la più bella. A risolvere la disputa era stato chiamato Paride, al quale ciascuna delle contendenti, per ottenere il suo voto, aveva fatto una promessa. E Paride aveva scelto Afrodite che, in caso di vittoria, gli aveva promesso l’amore della donna più bella del mondo. Elena, dunque, si era innamorata per volere divino. Ragion per cui era incolpevole. Questo è quel che sostiene Priamo, ad esempio, quando le dice che «non certo tu sei colpevole davanti a me, gli dèi son colpevoli, / essi mi han mosso contro la triste guerra de’ Danai». (Iliade, 3, 162 -165)
Ma a ben vedere la spiegazione non convince: molte altre donne, oltre a Elena, erano state le vittime di Afrodite, o di suo figlio Eros. Anche Medea si era innamorata di Giasone per volere divino. Anche Fedra era stata vittima di un amore contro il quale non poteva combattere, perché le era stato imposto da una dea (nella specie, Artemide). Ma a loro i greci non avevano concesso attenuanti. Il trattamento riservato a Elena fu veramente molto particolare. Il desiderio di giustificarla era fortissimo. I capi dei troiani, mentre guardavano la battaglia che infuriava, dall’alto delle mura, di fronte alla bellezza di chi la ha provocata commentavano: non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti / per una donna simile soffrano a lungo dolori: / terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali (Iliade 3, 156-157).

Una nuvola d’aria. E qualcuno si spingeva oltre: per giustificarla, vi era chi sosteneva che Elena non era mai andata a Troia: la storia di Elena adultera, che aveva seguito Paride, anche se per volere di Afrodite, era una calunnia. A metterla in giro era stato il poeta Stesicoro, giustamente punito con la perdita della vista dai Dioscuri, i fratelli di Elena. Per farsi perdonare, Stesicoro aveva scritto una Palinodia in cui spiegava che a Troia non era giunta Elena, ma un suo simulacro, un eidolon fatto d’aria. E molti greci credevano a questa storia, anche se si dividevano su un particolare: secondo alcuni Elena non era neppure partita da Sparta; secondo altri, invece (è la versione che ne dà Euripide) era partita, ed era stata sostituita dal simulacro quando la nave di Paride era stata gettata da una tempesta sulle rive egiziane, dove Elena era stata condotta alla corte del re Proteo, a Memphis, dove era rimasta per tutto il tempo della guerra. Come che fosse andata, insomma, la donna (o il simulacro di donna) che era vissuta con Paride a Troia non era Elena. Per dimostrare la sua innocenza, c’era chi preferiva pensare che i greci avessero combattuto dieci anni per una nuvola.
Non fu un caso, dunque, se l’elaborazione concettuale delle categorie dell’atto volontario e involontario, in Grecia, si svolse proprio attorno alla figura e al comportamento di Elena. Quando cominciarono a discutere sul rapporto tra colpa e volontarietà dell’azione, i greci lo fecero pensando a lei.
Quali furono le possibili cause della partenza di Elena per Troia, si chiese Gorgia da Lentini, autore della prima analisi teorica dell’argomento a noi nota, intitolata Encomio di Elena. In essa, Gorgia esponeva le ragioni per le quali Elena non poteva essere ritenuta colpevole di ciò che aveva fatto: una prima, possibile causa della sua azione, era stata “la volontà del caso” (tyches boulemata); una seconda una “decisione degli dèi” (theon bouleumata); una terza un “decreto della necessità” (anankes psephismata). Infine, forse, Elena aveva agito per effetto di una violenza (bie) o per la “persuasione delle parole” (logois peitho). O, ancora per amore (eros).
Sei possibili cause, dunque: ma quale era stata quella che aveva indotto Elena a partire, non aveva alcuna rilevanza. La presenza di una qualunque di esse era sufficiente a farla ritenere non “colpevole”, ma “vittima del caso”.
Rimane da capire, se possibile, le ragioni di questo trattamento di favore. Azzardiamo un’ipotesi: di più, non è possibile fare. Forse, la ragione era la bellezza. Per i greci, un valore che non poteva essere disgiunto dalla nobiltà d’animo. L’eroe, lo sappiamo bene, era kalos kai agathos: bello e nobile. A Elena, la bellezza in persona, non potevano essere attribuiti comportamenti riprovevoli. O non era mai andata a Troia, o, se ci era andata, non aveva commesso alcuna colpa.

7- continua