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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

«ANCHE IN PANCHINA HO SEMPRE PENSATO CHE CE L’AVREI FATTA»

[Marco Belinelli] –
«Segni particolari? Farsi trovare pronto, sempre. È il mio karma».
Se non avesse saputo farsi trovare pronto, sempre, Marco Belinelli, classe 1986, segno dell’Ariete, emiliano di San Giovanni in Persiceto, oggi giocherebbe a basket con gli amici al campetto, perché la passione è la passione e un canestro è un canestro sia nel cortile di casa sia al Madison Square Garden. Ma a ogni porta scorrevole della vita, il Beli si è fatto trovare pronto, sempre. E oggi è il primo (e finora unico) cestista italiano ad aver vinto un titolo Nba. Da protagonista.
«Il momento più bello della mia vita, un sogno che si realizzava. Stavo in campo con i più forti giocatori del mondo e conquistavo l’anello di campione. Ogni giorno da bambino vivevo quel sogno a occhi aperti, e quando è arrivato davvero quel momento sono stato travolto dalle emozioni».
Ed è scoppiato a piangere in diretta tv...
«È stato un turbinio, non ci ho capito più nulla».
Ha mai provato a descriversi quel momento?
«Me l’hanno chiesto tante volte, tante volte ci ho provato, ma ancora non so che cosa mi sia passato per la testa. Sono fondamentalmente un timido. Avevo appena vinto il titolo, mi stavano intervistando, e quando ho pensato ai miei genitori e ai sacrifici che avevano fatto per me, ai tanti che invece avevano sempre sostenuto che non avrei mai potuto stare lì dove stavo in quel momento, improvvisamente è stato come essere travolto da un’onda, e non ho potuto trattenere l’emozione. E quelle parole che da tanto tempo volevo pronunciare».
Domenica 15 giugno 2014, nella pancia dell’AT&T Center di San Antonio, Texas, gli Spurs stanno festeggiando il titolo Nba appena conquistato. Marco Belinelli, circondato dai giornalisti, scoppia in un pianto irrefrenabile: «Nessuno ha mai creduto in me in questi anni... e alla fine ho vinto». Aveva passato anni ad ascoltare la solita storia: Andrea Bargnani è forte, è un 214 centimetri con grandi mezzi tecnici, è una prima scelta assoluta, Danilo Gallinari è un 208 centimetri di talento purissimo e ha il phisique du role, ma che c’entra con la Nba Belinelli? Non è il suo, forse è meglio se torna in Europa. E ora eccolo lì, con la maglia di world champion, con le lacrime a rigargli le guance in diretta tv.
Questione di sliding doors. Questione di farsi trovare pronto, sempre.
«È una cosa che ho dentro di me, fin da bambino. O ci nasci, o è difficile allenare una simile attitudine. Lo so che non è stato facile sentirsi il terzo incomodo fra gli italiani in Nba, io solo so che cosa significasse allenarsi duramente ogni giorno per poi in partita giocare appena 10, 5, 3 minuti alla volta, oppure leggere sul programma del match di fianco al tuo nome l’acronimo Dnd, “did not dress”, non cambiato, e sedermi in borghese dietro la panchina a guardare la partita da spettatore. So quanto sia stato difficile. Per questo ora mi godo tutto quello che viene».
Partiamo dall’inizio. Dal suo arrivo negli Stati Uniti.
«O forse meglio ancora da prima ancora, dalle due partite che mi hanno aperto la strada alla Nba».
Sapporo, Mondiale in Giappone, la sfida della Nazionale italiana al Dream Team americano, giusto?
«Giusto».
È il 23 agosto 2006. Marco Belinelli ha 21 anni e gioca contro LeBron James, Dwight Howard, Chris Paul e Carmelo Anthony. E che fa?
«Gioca la partita della vita, segna 25 punti, fa spaventare gli Usa e si conquista l’attenzione degli osservatori della Nba».
Dieci mesi dopo arriva la chiamata nei draft, Golden State Warriors, San Francisco, e la domanda più ingenua del mondo: ma se gioco a San Francisco posso vivere a Los Angeles?
«Se ci ripenso arrossisco ancora... Ma venivo da San Giovanni in Persiceto, non avevo ancora idea di dove stavo approdando».
Poi è arrivata la seconda partita.
«Indimenticabile anche quella. Era il 7 luglio 2007, debuttavo in Summer League con la maglia dei Warriors. Giocavamo contro i New Orleans Hornets. Segnai 37 punti, a un solo punto dal record all time della Summer League, mettendo 14 canestri su 20 tentativi e segnando un tiro da 10 metri. Pensai: be’, niente male dai».
Invece poi non tutto andò come sperava.
«Ben poco andò come speravo. Giocavo poco, talvolta pochissimo, per motivi che facevo fatica a capire. Mi allenavo a farmi trovare pronto, sempre. E quando per qualche motivo, un infortunio di un compagno, una scelta tecnica inaspettata, l’allenatore mi buttava in campo, allora rispondevo facendo canestro e ritagliandomi spazio. Sapevo che era così, in Italia ero abituato a giocare tanto, in America capii subito che mi sarei dovuto sudare ogni minuto di campo. E poi dovevo guadagnarmi il soprannome che i tifosi mi avevano dato».
L’allenatore era Dan Nelson, una leggenda della Nba, che fu comunque importante nella crescita tecnica e mentale del Beli. E il soprannome era «Rocky», come il pugile interpretato da Sylvester Stallone. Belinelli l’aveva scelto come suo film preferito e il video dell’intervista passò sui megaschermi prima della partita con Toronto. Quando Marco infilò uno, due, tre canestri di fila il pubblico cominciò a urlare «Ro-cky, Ro-cky», anche pensando a un’innegabile somiglianza tra i due, stesso sguardo, stessa espressione imperscrutabile, stessa origine italiana. «Il soprannome non mi fece né caldo né freddo, però pensai che anche Rocky non si arrendeva mai, come me, e che in fondo non era proprio il personaggio più sconosciuto del pianeta. Così me lo tenni».
Anche l’impatto con gli Stati Uniti non fu semplicissimo.
«Ero veramente impaurito, tutto mi sembrava enorme. Il mio mondo fino a quel momento era stato San Giovanni in Persiceto, anzi Sangio».
Parliamone, di Sangio. Che cosa significano per lei le radici a San Giovanni?
«Tutto. Significano tutto. E’ il mio mondo. Tanto che mi sono tatuato le cifre 40017».
Che sarebbero?
«Lo zip code di San Giovanni in Persiceto».
Cioè il codice postale... Non è che sta diventando un po’ «americano»?
«No, no, sono italianissimo. Anzi, sono di Sangio. Dove c’è il campetto dove sono cresciuto, dove c’è il canestro murato dal nonno nel cortile di casa, dove segnavo cercando di non farmi stoppare dal pergolato. E qui tornerò una volta finito di giocare».
Sul muro di quel campetto ora campeggia una sua gigantografia con il trofeo di campione Nba.
«E in piazza pure. Ogni volta che le vedo non ci credo, mi emoziono. Ma poi gli amici restano gli amici, mica mi guardano in modo diverso solo perché sono raffigurato nelle gigantografie in paese, al massimo mi prendono in giro».
L’acronimo di San Giovanni in Persiceto, SGP, compariva anche sulle sue scarpe all’All Star Game...
«Fu un regalo della Nike quando partecipai alla gara del tiro da 3 punti».
E la vinse. Primo (e unico) italiano a partecipare, e naturalmente a vincere, la gara nel weekend più trendy del basket americano. #caldocomeunastufa divenne l’hashtag virale, merito del commento in diretta tv di Flavio Tranquillo che su Sky etichettò in questo modo la serie di canestri consecutivi del numero 3 dei San Antonio Spurs. E ancora non sapeva che sarebbe arrivato il titolo Nba.
Ma per toccare il cielo, Marco Belinelli avrebbe prima dovuto stare con i piedi per terra per molto tempo ancora. Dopo due stagioni ai Golden State arrivò il passaggio ai Toronto Raptors.
«Non ero convinto. La città era fantastica ma nel mio ruolo ero chiuso, speravo di trovare spazio ma spesso rimanevo seduto in panchina. E nel momento in cui cominciai a ingranare mi infortunai, quel tanto che bastò per farmi perdere di nuovo minutaggio. E rimanere fuori dai playoff».
Un anno a Toronto. Poi nuovo cambio di maglia.
«Mi presero i New Orleans Hornets. Mi venne da piangere. Un’altra città, un’altra squadra. Vicino al campo d’allenamento c’erano i coccodrilli. Mi chiesi dove diavolo fossi finito».
E dove era finito?
«In una squadra fantastica, giocando con un campione come Chris Paul, partendo quasi sempre in quintetto. Per la prima volta mi sentii un vero giocatore Nba».
Chris Paul il “ciccione”?
«Sì, il ciccione. Un giorno scherzando lo chiamai ciccione, in italiano. Scoppiò a ridere, gli piaceva il suono della parola. Da quel momento ogni volta che ci vediamo, anche da avversari, ci chiamiamo reciprocamente ciccione, e ridiamo come matti».
Paul è diventato suo grande amico. Con quali altri giocatori conserva un rapporto speciale?
«Nei Warriors c’era Baron Davis, capitano, punto di riferimento. Mi ha aiutato a inserirmi e a capire il mondo Nba. Quando sono andato a Chicago ho legato con Joaquin Noah, uno che da avversario tireresti sotto con la macchina ma che da compagno è il migliore del mondo. E a San Antonio Manu Ginobili, che conoscevo dai tempi di Bologna, un fantastico amico».
Bene, parliamo di Chicago.
«Andai ai Bulls dopo due anni di Hornets, ero emozionato nel vestire la maglia dei Bulls che fu di Michael Jordan, di Scottie Pippen, dei giocatori che guardavo da bambino in tv. E trovai un allenatore, Tom Thibodeau, che mi ha insegnato a difendere e che mi ha preparato per l’avventura della vita».
I San Antonio Spurs.
«Ricordo tutto del giorno in cui mi chiamarono. Era il 5 giugno 2013. La mattina sotto il tavolo di casa presi una bottiglia d’acqua minerale e scoprii che dopo una vita mamma aveva cambiato: non aveva preso la solita marca ma un cartone di S. Antonio. Sorrisi. La sera invece piansi: nonno Adriano, quello che mi aveva regalato il mio primo canestro, se ne andò a 86 anni. Pensai che avrei voluto vincere per lui».
Con San Antonio arrivò il titolo.
«Con San Antonio è arrivato tutto. Un allenatore fantastico come Gregg Popovich, un armadietto nello spogliatoio fra due leggende come Manu Ginobili e Tim Duncan, una squadra il cui concetto di gioco era good to great, non bastava un buon tiro ma lavorando insieme arrivava un ottimo tiro, il beautiful game che caratterizzava la nostra squadra. La gioia e le lacrime».
E l’anello di campione Nba.
«E l’anello, sì...».
Dove lo tiene?
«In un luogo segreto».
Lo riguarda spesso?
«Ogni tanto lo prendo, lo lucido, lo indosso, me lo rigiro. Mi rilassa averlo con me. Penso: però...».
Oggi un contratto da oltre 6 milioni di dollari l’anno con i Sacramento Kings, la sua sesta squadra in Nba.
«Mi hanno accusato di aver lasciato gli Spurs pensando solo ai soldi. Io invece mi sono detto: perché non provare a vincere anche in una squadra che da 10 anni non raggiunge i playoff?».
Prima però c’è da provare a vincere un Europeo e a conquistare un posto a Rio 2016 con una Nazionale che non vince da più tempo dei Kings...
«È il nostro sogno. Siamo forti e motivati. Ci proviamo».
Come vive Marco Belinelli la Nazionale?
«Come il ritorno in una squadra di vecchi amici».
E come vivono gli «italiani” i successi (e i guadagni) dei tre in Nba?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ma credo che quando siamo insieme, non importa in quale club giochiamo. Siamo qui per la maglia azzurra, e mai come quest’anno possiamo provare a vincere».
Che cosa dovete fare per vincere questo Europeo?
«Farci trovare pronti, sempre».
E Marco Belinelli è nato pronto.