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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

L’UNICA COSA SACRA È LA LIBERTA DI OFFENDERE. ANCHE LE RELIGIONI

[Intervista a Salman Rushdie]–
Una volta che la paura sarà sconfitta, la razza umana imparerà a fare a meno del divino. L’auspicio attraversa carsico tutto 2anni, 8 mesi e28 notti, l’ultimo romanzo di Salman Rushdie. Un libro complesso, che si svolge lungo tre archi temporali (il XII secolo, oggi e un futuro molto prossimo), con richiami letterari classici (Le mille e una notte, il totale della somma del titolo) e altri assai più pop, anzi fantasy. Sherazade incontra II Trono di Spade. Succede cosi che Dunia, principessa dei jinns, spiritelli costantemente arrapati, si innamori del campione della ragione Averroè, che nel libro va sotto lo pseudonimo di Ibn Rushd, con cui farà tanti figli che neanche i neocatecumenali. I due mondi, quello degli spiriti e quello degli umani, restano vicendevolmente stagni a lungo, sino a quando non si apre un varco da cui i folletti sgattaiolano sul pianeta Terra seminando il panico. Soprattutto nelle vite di alcuni di questi discendenti, ancora vivi e vegeti nove secoli dopo la concezione. Così Mister Geronimo, un giardiniere tenace, di colpo comincia a camminare a dieci centimetri da terra. Un introverso graphic novelist deve ospitare un jinn nella sua camera. E una trovatella di nome Baby Storm ha il singolare talento di smascherare la corruzione in chiunque si trovi al suo cospetto, facendogli scoppiare delle orribili pustole in faccia.
«Il grande vantaggio di scrivere un fantasy è che ti dà un’enorme libertà nell’affrontare la realtà» dice Rushdie, completo grigio e camicia bianca, che entra scortato da Andrew Wilye, l’agente letterario più potente al mondo, nei suoi uffici tappezzati dei libri di tutti i pesi massimi della narrativa mondiale. Per due ore risponderà sorridente (nonostante i suoi occhi che incutono timore perenne) a una lunga lista di domande. E in ogni passaggio confermerà una caratteristica piuttosto unica, perché di musulmani laici ce ne sono in quantità, ma dichiaratamente e orgogliosamente atei sono veramente rari, come il proverbiale cigno nero, l’anomalia statistica del titolo di un bestseller planetario che intravedo nel salottino che ci ospita.
Lei è nato in una famiglia sunnita: qual è stato il suo rapporto con la religione da bambino?
«Mio padre era un intellettuale, un avvocato laureato a Oxford, che parlava anche arabo e farsi. Aveva un interesse culturale per la religione, ma non era religioso. Quanto a mia madre, il perimetro della sua fede coincideva con il non magiare il maiale. Niente di più. Risalendo per le generazioni, giusto mia nonna era praticante, ma di larghe vedute. Al punto che potevo discutere con lei del fatto che non credevo in Dio. Lei cercava di convincermi che sbagliavo, ma senza drammi».
Eravate un’eccezione o era la norma a Bombay in quegli anni?
«Probabilmente la nostra era una famiglia più colta della media, ma la Bombay degli anni 50-60 era un posto incredibilmente cosmopolite. Avevo amici di ogni confessione e celebravamo le feste di tutti. Neppure la guerra col Pakistan aveva avuto contraccolpi su questo clima. Tutto ciò è cambiato negli anni 90. Prima l’islam indiano, quello del Kashmir in particolare, era influenzato dal sufismo, aveva addirittura dei santi da venerare. Oggi è diventato molto arabizzato. Basti citare un paio di dettegli eloquenti. Quando ere piccolo io, il mese di digiuno si è sempre chiamato ramzan, mentre oggi tutti hanno adottato la formula ramadan. E anche il saluto pakistano hudarafe è stato totalmente sostituito con il più ortodosso Allah Hafe. E queste è solo la buccia linguistica di un fenomeno molto profondo».
In molti passaggi del libro, anche quelli ambientati nel passato, racconta di massacri di falsi dei, di jinn kamikaze che si fanno esplodere in una base militare, di un fantomatico sultanato, di decapitazioni. Pensava all’Is? E, fuori di metafora, che pensa del cosiddetto Stato islamico?
«Senz’altro molte scene sono prese dall’attualità. E di certo l’apparizione dell’Is segna il culmine di uno dei grandi eventi filosofici degli ultimi decenni. Intendo dire che se una volte la dialettica della storia era quella marxiste tra capitalismo e socialismo, oggi sembra essere diventata tra fede e laicità. Nel ’58, quando ero all’università, la religione era totalmente assente dalla sfera pubblica. Allora anche solo l’idea che potesse riconquisterai un posto centrale nel dibattito era ridicola. E invece in 50 anni abbiamo assistito a una sua formidabile rinascite. Una sorpresa, niente affatto buona per come la vedo io». Pensa che sia un fenomeno passeggero o destinato a durare?
«È molto difficile dire. Lo scenario peggiore è quello dei barbari alle porte di Roma. La vostra capitele è molto presente nelle loro fantasie. Ma tendo a non credere che andrà così. Lo scenario migliore invece è quello che l’Is si spezzerà in vari tronconi fino a disintegrarsi. La polizia assume sempre lo scenario peggiore, però l’unico modo per non farlo realizzare è condurre la propria vite scommettendo su quello migliore, il più normalmente possibile».
L’Occidente sta facendo tutto quello che può per fermarlo?
«Sta facendo quello che riesce a vendere al proprio elettorato. Non ha lo stomaco per mandare l’esercito in Iraq, dopo quello che è successo l’ultima volta. Quindi si limita a contenerlo, piuttosto che a sconfiggerlo. Se non fosse per i peshmerga, che ovviamente hanno la loro agenda, l’Is sarebbe già arrivato anche più lontano. Il problema con l’Iraq è che non è uno stato unito, ma uno stato fallito composto da tre entità: sunnita, sciite e curda».
E invece parlando di Siria che effetto le ha fatto vedere la distruzione dei monumenti di Palmira?
«Quella che ha fatto a tutti, immagino. Come esseri umani ci cibiamo della bellezza e loro la distruggono. Mi è venuto in mente il sesto mogul in India o, appunto, i barbari alle polle di Roma. Il loro scopo è generare l’orrore nel pubblico, e ci riescono benissimo».
Cosa ha pensato davanti alle decapitazioni dei giornalisti, uccisi solo perché facevano il loro mestiere? C’è più di un punto in comune con la minaccia di morte per avere scritto un libro...
«Dopo venticinque anni vediamo che la mia vicenda non era affatto eccezionale, ma solo l’inizio di un’onda che sarebbe cresciute. Oggi come allora la cosa più preoccupante mi sembra l’indisponibilità di istituzioni e persone influenti a reagire. Per quanto mi riguarda il Vaticano fu molto ostile. Ma anche l’arcivescovo di Canterbury, il rabbino di Londra: erano tutti più pronti a difendere la religione offesa di quanto non lo fossero a difendere me. E mi sembra che non abbiamo ancora imparato quella lezione. Ci limitiamo a contenere, non a sfidare chi ci minaccia. Invece dovremmo sentire una grossa responsabilità nel custodire la cultura in cui viviamo».
Di quale cultura parla?
«Di quella che potremmo definire, con Popper, la società aperta i cui pilastri principali sono la regola di diritto e la libertà di espressione. In forza della quale, in ogni singolo momento, qualcuno può dire qualcosa che offende qualcun altro. Un’evenienza di fi-onte alla quale la sola risposte giuste è: “E allora? . Tutte le altre risposte minacciano la tenute del mondo in cui ci piace vivere. Qualche tempo fa fecero un musical a partire dal Libro di Mormon. La risposta infantile, da parte della chiesa dei Mormoni sarebbe stata di chiederne lo stop oppure di incitare a bruciare il teatro. La risposta adulta, che hanno avuto, è stata invece di usarne la popolarità a proprio vantaggio per dire: se vi è piaciuto il musical, adesso leggetevi anche il vero libro».
Le risposte adulte, purtroppo, scarseggiano. Oltre che nella sua famiglia, lei dove ha imparato tanta laicità?
«A Oxford. Li la regola era: siate spietati sulle idee, ma gentili con le persone. Potevano esserci delle liti furiose sui princìpi, erano anche incoraggiate, ma senza mai andare sul personale. Dopo la fatwami invitarono a una serata al Mit con 18 premi Nobel, di per sé un’esperienza che ti rende assai modesto. Fui sorpreso da come si scannavano su divergenze di opinioni, in maniera feroce, e poi da come brindavano insieme, in tutta sincerità. Quello è il modello che mi piace, cui dovremmo tendere».
Il che ci porta verso uno dei suoi temi preferiti, quello della libertà di parola e dei suoi eventuali limiti.
«Mi faccia subito dire una cosa: una vignetta rispettosa semplicemente non esiste, non può esistere. Bisogna accettare l’irriverenza. Non ricordo su quale rivista mi sono imbattuto in un cartoon sul papa davanti a un computer con intorno una piccola folla di vescovi. Sullo schermo c’erano dei bambini e il pontefice spiegava: è molto facile, basta cliccare su quello che vi piace di più. Ecco, nessuno è stato crocefisso per quella battuta.
Sta dicendo che l’islam è più suscettibile di altre religioni?
«È una domanda che richiede una risposta complessa, su due piani distinti. Il primo è quello della gente normale. Un amico, giornalista del New Yorker, ha passato sei settimane nelle banlieue dopo l’attacco a Charlie Hebdo per scoprire una cosa semplice: nessuno di quei ragazzi lo leggeva e qualcuno aveva deciso che avrebbero dovuto sentirsi offesi da qualcosa che altrimenti avrebbero totalmente ignorato. Aggiungo che da studi recenti i musulmani in Francia, soprattutto i giovani, si stanno secolarizzando più che in passato. Il secondo piano è quello della religione come agenzia culturale. Credo che proporre un eccezionalismo islamico,come succede in India dove ai musulmani è riconosciuto un sistema legale separato, sui un | grave errore che fornisce argomenti ai politici antiislamici. Alla fine quel format (“Il mondo ci è ostile!”) è perfettamente funzionale alla forma molto politicizzata di islam che non è maggioranza nella popolazione, ma è sempre più influente nel determinarne le sorti».
Lei però è anche contrario agli eccessi di relativismo etico e al non chiamare le cose con il proprio nome. Mi sbaglio o, su questo, ha criticato anche il presidente Obama?
«Non sbaglia. Quando Obama, a proposito delle barbarie dello Stato islamico, si è precipitato a rassicurare che “non si trattava di islam” è stata una stupidaggine. Di cossi si trattava, di vegetarianesimo? Capisco i motivi politici per cui ha detto quella cosa, ma non li condivido. È vero che le prime vittime dell’Is sono i musulmani, ma per dire questa cosa vera non c’è bisogno di pronunciarne una falsa. Ed è vero anche che ci sono tanti altri assurdi radicalismi, come i cattolici americani che negano i matrimoni gay o quelli texani che vorrebbero vietare il certificato di nascita ai figli di immigrati, per finire coi militanti indù che attaccano i giornalisti e gli artisti in India. Ma, di nuovo, tanti torti altrui non raddrizzano il nostro».
Sulla codardia degli intellettuali si era espresso anche all’indomani delle Primavere arabe. Intanto, qual è il suo giudizio su quelle rivoluzioni?
«In sintesi: sono fallite, e hanno messo al potere gente senza scrupoli. Abbiamo vissuto una breve illusione di trasformazione e subito dopo la realtà di un periodo molto cupo che ha coinciso anche con la rapidissima ascesa dell’Is. Prendiamo l’Egitto. Prima c’era una tirannia, adesso ce ne sono due, ovvero il regime e una religione molto più asfissiante che in passato. 1 ragazzi erano scesi in piazza Tahrir per una vita migliore, quella che su internet vedevano condurre ai loro coetanei in altri Paesi, non per l’ideologia. Invece si sono ritrovati prima con i Fratelli musulmani e poi con Mubarak 2.0. La deprimente risposta del mondo, intellettuali inclusi, è stata quella di aver accettato resistente – ovvero una forma di islam ben più radicalizzato che in passato – come se fosse normale. Trattandolo come il nuovo ordinario interlocutore. Peggio di così...».
Se lei fosse il papa, cosa farebbe?
«Mi dimetterei! Non so, mi chiede un’impersonificazione piuttosto anomala per me. Francesco è interessante per la sua ambiguità: è progressista su alcuni temi, tipo l’ambiente, e assolutamente conservatore su altri, come i matrimoni gay. Mi vien da dire che nessuno è perfetto, sebbene del pontefice ex cathedra si dica il contrario».
E se fosse Obama?
«A me è piaciuto molto. Al momento della sua elezione c’era un’atmosfera di speranza senza precedenti. Ricordo di aver commentato davanti alla tv con miei amici: adesso ci potrà solo deludere. E così è andata nel primo mandato: troppo cauto, troppo vecchia politica. Ma nel secondo mandato ha fatto cose storiche: l’assistenza sanitaria, i matrimoni gay, il recupero dell’economia, l’accordo con l’Iran. Paradossalmente, però, l’ostilità nei confronti dei neri in America non è mai stata così alta. È come se la destra, con varie venature religiose, non potendosela prendere con lui se la prendesse con quelli del suo colore».
Dopo una serie di cruente guerre tra gli spiritelli buoni e quelli cattivi, indicibili devastazioni e altre catastrofi, lei chiude il suo libro con un epilogo per niente tranquillizzante: le persone non riescono più a sognare. Perché?
«Perché non mi piacciono i finali lieti, quelli vanno bene nelle pubblicità per fare comprare la zuppa. Personalmente però non sono così pessimista. Di recente ho visitato la sede di Google, il tempio della nuova cultura, e sono rimasto impressionato dall’energia di quei ragazzi (la media dei dipendenti è di 24 anni) che stanno inventando i giocattoli che cambiano il mondo. 11 loro è una specie di sogno che ogni giorno si avvera. Così come altri sogni a occhi aperti sono i videogiochi come Assassins Creed o Red Dead Redemption, dove il giocatore crea mondi che poi potrà abitare».
Mondi piuttosto violenti, se è per questo. I jinns, che pure non si fanno mancare la loro bella dose di violenza, sono più che altro dediti a una sfrenata attività sessuale. Che ritorna anche in altri suoi romanzi recenti. Quanto è importante per lei questo tema?
«Per come lo tratto letterariamente ha più che altro un enorme potenziale comico. Se lo prendi sul serio rischi subito di scivolare in zona Cinquanta sfumature di grigio, il che vorrei accuratamente evitare. D’altronde nell’universo parallelo di Fairyland non c’è molto da fare: quale migliore attività per ingannare il tempo potremmo immaginarci? Nell’ Incantatrice di Firenze, invece, un personaggio conosce sette modi diversi di stimolare il membro maschile con le unghie, una pratica che deriva in linea diretta dalla tradizione del kamasutra, per noi un classico della letteratura. Che però fa anche un po’ ridere».
Lei è famoso anche per avere avuto molte donne, molto belle. Cos’è, oggi, la felicità per lei?
«Le darò forse una risposta deludente, ma vera: la famiglia, gli amici e questa città, che assomiglia sia a Londra che alla Bombay di una volta, le altre che ho amato. Certe mattine mi sembra che mi basti una tazza di caffè in mano e New York fuori dalle finestre per essere pienamente felice. È un posto facile dove camminare. Di certo non sono uno di quelli scrittori cui piace lamentarsi. Credo fermamente che il mio sia il più meraviglioso mestiere al mondo, perché ti dà la possibilità di intervenire sul tempo in cui vivi e di avere gente che legge ciò che hai da dire».
Come si immagina tra cinque anni?
«Avrei 68 anni, se ci arrivo mi considererò fortunato di aver tagliato quel traguardo. Rispetto a quando ero giovane il vantaggio della mia età è la consapevolezza di non avere tempo da perdere. Una perspicacia molto utile per tutti, ma soprattutto per uno scrittore. Se una cosa che mi propongono è banale o secondaria, ora mi viene più facile non farla».
Riccardo Stagliano