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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

LO RESE FAMOSO IL TITOLO CHE NON GLI PIACEVA

Quel titolo memorabile – "Capitale corrotta = Nazione infetta" – non lo pensò certo lui. Anzi, se ne avesse avuto facoltà, Manlio Cancogni, scrittore e giornalista morto martedì 1 settembre a quasi cento anni, a quell’inchiesta poi diventata a sua insaputa simbolo, totem, esempio di scuola, non ci avrebbe nemmeno lavorato. Lui si sentiva scrittore di elzeviri, prima che di libri (poi ne sfornerà una trentina), amava la cronaca e il reportage, i temi di cultura e di costume, poco o per niente le inchieste e gli scandali politico-affaristici che allora – esattamente sessant’anni fa – erano peraltro pane per i denti di pochi spericolati. Poi, una volta stampata e diffusa la sua clamorosa denuncia della Roma dei preti e dei palazzinari, si preoccupò solo di sminuirla, depotenziarla, esaltarne la casualità. Anche se, o forse proprio per questo, essa era diventata metafora di una stagione e di un modo unico ed eccentrico di fare giornalismo.
Cinque anni fa, a Gigi Riva che lo intervistava per l’"Espresso" convinto di sentirsi raccontare i segreti e la genesi di un’inchiesta storica, il vecchio Manlio, come sempre seduto in poltrona nella sua casa che s’affaccia sul mare della Versilia, confessò: «Fu per caso. Non ero un inchiestista e per me il giornalismo era una parentesi. Volevo insegnare e scrivere. Andai due volte per un appuntamento col sindaco di Roma Rebecchini che non si fece trovare. Dissi al suo segretario che allora avrei scritto quello che si diceva in città. E lo feci». E sì che lo fece! Non contento, rincarò la dose pensando forse a inchieste successive e ad altri scandali: «Non mi sentivo a mio agio con la coscienza. Chi ero io per indicare alla vergogna quella gente?». E allora perché si prestò alla bisogna? Risposta a bruciapelo: «Ne traevo il profitto di avvantaggiarmi nella professione». Ancora una volta Cancogni non smentiva il suo carattere anarchico e antitaliano, ironico e sprezzante, refrattario alle mode e al politicamente corretto.
E però negli anni successivi, si occupò sempre d’altro. Di Stalin e di Tito; del processo Montesi e di sport (aveva una passionaccia per il calcio e per i viola della Fiorentina); della tragedia algerina e della Francia di De Gaulle; dei guru della filosofia e della legge Merlin. Memorabili il suo racconto dei funerali di Togliatti e l’ode in morte di Coppi: titolo di una sola parola, "FAUSTO", tutto maiuscolo. Ricche e godibilissime la sua storia dello squadrismo (diventerà anche un libro), del Risorgimento, delle Olimpiadi. Di capitale corrotta e nazione infetta non scriverà più nemmeno una riga, nonostante "L’Espresso" non perderà occasione per ricordarla ai suoi lettori.
La sua collaborazione con il settimanale di via Po durerà dieci anni, poi lascerà per i libri, l’insegnamento, per altri giornali (innanzitutto corrispondenze dall’estero per il "Corriere della Sera", "Il Giornale" del suo amico Indro Montanelli, "L’Europeo"), salvo firmare di nuovo per "L’Espresso" nel 1978 e nel 1986 solo per raccontare i mondiali di calcio. Poi deciderà che leggere è più affascinante che scrivere e si ritirerà a Marina di Pietrasanta.
Allora, fine di un mito? Macché. Se Cancogni non era particolarmente affezionato a "Capitale corrotta", Arrigo Benedetti che allora dirigeva un settimanale nato da appena due mesi, sì. Tantissimo. E forse proprio questa sua granitica certezza della bontà del tema e delle capacità di Cancogni di svolgerlo al meglio, ci hanno consegnato un capolavoro di giornalismo e lasciato in eredità le pietre miliari sulle quali "L’Espresso" è diventato grande.
Arrigo, dunque, sapeva benissimo che cosa voleva e forse, come spesso accade a chi dirige un settimanale, aveva in testa il titolo prima ancora di commissionare il lavoro. Il fatto era ghiotto, e non solo per una testata che ambiva a essere bandiera giornalistica del laicismo colto e dell’impegno civile: a metà degli anni Cinquanta la Capitale stava conoscendo uno sviluppo edilizio disordinato, arrogante, incontrollato, orchestrato dalla stretta alleanza tra l’amministrazione comunale democristiana e i grandi costruttori legati al Vaticano e alla sua società immobiliare. Politica, affari, potere temporale della Chiesa, disprezzo per i tesori ambientali, culturali e archeologici di Roma: che altro si voleva per costruire una grande storia? Per fissare i valori fondanti di un "settimanale di politica, cultura ed economia" libero e autonomo da ogni condizionamento? Per edificare una formula giornalistica unica e originale?
Da subito Benedetti, ecco il primo caposaldo, aveva piegato una pattuglia di giovani scrittori promettenti a farsi cronisti. Per Cancogni, poi, aveva una passione smisurata. Era rimasto colpito dal suo "Azorin e Mirò", scritto nel 1948 a 32 anni, storia dell’amicizia profondissima con Carlo Cassola. Ma molto gli era piaciuto anche quell’articolo apparso nel 1945 sulla "Nazione del popolo", titolo "Una modesta proposta" preso in prestito da Jonathan Swift, nel quale Cancogni spezzava una lancia a favore della scuola nozionistica e mnemonica: «Se tu non impari a memoria una poesia vuol dire che non la ami». Apriti cielo! Polemiche, dissensi e una sinistra scritta ripetuta sui muri di Firenze: "Morte a Cancogni". «Resisteranno fino all’alluvione del 1966», ricorderà Manlio con l’ironia di sempre.
Dunque Benedetti volle che fosse Cancogni a lanciarsi su quella storia di cemento, Curia e Dc. Sentiva che era utile e doveroso denunciare l’intreccio perverso che, cambiando nelle forme ma non nella sostanza e allargandosi ad altri protagonisti, accompagnerà fino a oggi, la storia politica e morale del Paese. E di questo giornale. Ecco perché, nonostante le ritrosie di Cancogni (e pensate se non ne avesse avute!), l’inchiesta deflagrò come una bomba. Anche per quel titolo illuminante, magnificamente esplicito, musicalmente perfetto. Provocatorio. Perfino in quel segno di uguale - = - che per la prima volta faceva bella mostra di sé nell’apertura di un giornale e che fece storcere il naso ai più tradizionalisti e bacchettoni. Da allora in avanti, non ci sarà titolo de "l’Espresso" che non proverà a segnalarsi per forza, piacevolezza, ironia. Fatta la denuncia, poi, Benedetti non mollò la presa e imbastì una campagna durata anni e sostenuta dall’opposizione di sinistra, da un Pci che allora non affidava le sue fortune a maneggioni, affaristi e funzionari in torta.
Certo, era un altro mondo. Ma il Cancogni che piaceva a Benedetti ci ha lasciato precetti che abbiamo cercato di rispettare e coltivare. Dunque gli dobbiamo essere grati per ciò che ci ha insegnato e che ogni giorno ci ricorda. Anche perché su quell’inchiesta e su quel titolo, confessiamolo, ci abbiamo tutti un po’ campato di rendita. Io, per esempio, di copertine/citazioni ne ho fatte almeno tre. E tutte le volte, sbattendo in prima pagina Razzi o Fiorito, ho rimpianto Rebecchini.