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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

BERGER: «QUANDO A MONZA HO BATTUTO SENNA. UNA STORIA CHE NON SI PUO’ CANCELLARE»

I piloti raccontano che salire sul podio a Monza è un’emozione unica perché da lassù, guardando in basso, ovunque ti giri vedi solo esseri umani. E quasi tutti indossano o sventolano qualcosa di rosso. Eppure il futuro dell’evento è in forse per questioni economiche. Una Formula 1 senza la sua gara italiana? «Guai, sarebbe un grave errore: non si può cancellare la storia. Monza, Silverstone e Montecarlo sono il cuore della Formula 1». A parlare è Gerhard Berger, ex pilota di McLaren e Ferrari tra gli anni Ottanta e Novanta, uno che della storia dell’Autodromo ha scritto una pagina indimenticabile: quella del 1988, anno targato McLaren, Senna e Prost imprendibili, le Rosse al via del Gp d’Italia senza grandi ambizioni e in lutto per la morte di Enzo Ferrari. La gara segue il solito copione: Senna è in testa, ma trova sulla sua strada tale Jean-Louis Schlesser, maldestro esordiente al posto di un Nigel Mansell colpito da varicella. Senna e Schlesser si scontrano e Berger va a vincere davanti al compagno di squadra Michele Alboreto: è una doppietta. «Il successo più bello della mia vita», racconta Berger, in partenza per Suzuka dove domenica si esibirà al volante di una McLaren storica.
Una sequenza di circostanze da far sognare che ci fosse la mano del Drake dal cielo.
«E anche un po’ di merito mio. Senna era in crisi con le gomme, stavo recuperando e gli mettevo pressione. Non poteva permettersi di perdere tempo in un doppiaggio. Gli andò male».
Come fu la festa?
«I tifosi erano impazziti. E c’è un motivo: per la Ferrari, vincere a Monza è la seconda cosa più importante dopo il Mondiale. Un po’ come il derby per le squadre di calcio».
Qual è la particolarità?
«È l’insieme: Ferrari, Italia, Monza, il pubblico. Una cosa diversa rispetto agli altri posti».
Che cosa passa per la testa a un pilota quando corre a 350 chilometri l’ora?
«Vai e pensi soltanto a guidare. Il circuito di Monza richiede un basso carico aerodinamico, senza particolari problemi di assetto. Una volta era fantastico, poi è stata modificato ma è ancora molto bello».
Come arrivò alla Ferrari?
«Fu nel 1986. Mi chiamò Marco Piccinini, il direttore sportivo: “Enzo Ferrari vuole vederti”. Partii dall’Austria al mattino diretto a Maranello. Al pomeriggio avevo già firmato. Lui fu molto chiaro e diretto: mi voleva in squadra, mi spiegò le condizioni. Non c’era margine di trattativa, l’ipotesi che rispondessi “no” era esclusa a priori. Dissi di sì ed ero felicissimo».
Com’è cambiato negli anni il clima a Maranello?
«Ai tempi di Enzo Ferrari le sensazioni erano speciali. Qualunque cosa avveniva all’ombra della sua personalità. La Ferrari è comunque rimasta quella: guidare per loro rimane una delle esperienze più grandi che un pilota possa vivere».
Le sue serate a Monza fuori dall’autodromo?
«Dormivo all’hotel Fossati, lo gestiva Vittorio: lui era la mia famiglia durante il Gran premio, e anche prima, durante il campionato Turismo e la Formula 3».
La F1 di oggi le piace?
«Non è il mio lavoro, preferisco non commentare».