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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

PERISCOPIO

Occupazione, migranti, taglio tasse: grande spazio a Renzi sui tg. Un premier a reti umidificate. Gianni Macheda.

Sbrigatevi ad abortire prima che il Papa ci ripensi. Jena. La Stampa.

Quando Pier Luigi Bersani si ritrova nei guai dopo le elezioni politiche del 2013, comincia a giocare al Bingo di Grillo nella vana speranza di edificare un governo con appoggio pentastellato. La manovra ha bisogno di «società civile», impegno per il prossimo (che diventa: non questo, il prossimo), ettolitri di retorica ad alta gradazione, giustizialismo a senso unico di marcia, buonismo veltroniano corretto al Torquemada, il savianesimo come politica dell’irrealtà, il banale elevato a scuola teologica di Tubinga. Che fare? Non essendo Lenin, Bersani pesca dal mazzo dell’ovvio: Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato, Nostra Signora degli Ultimi in Carrozza e Sua Eccellenza il Procuratore Antimafia. Perfetto. Intanto Pier Luigi Bersani entra in una stanza con Grillo e si fa infinocchiare in streaming, esce dalla faccenda come Joe Frazier contro Alì e perde la segreteria del partito, mentre la Boldrini e Grasso s’incamminano verso le presidenze, luminoso sentiero del Giusto a prescindere. Mario Sechi. Il Foglio.

L’Indipendente l’aveva fondato nel ’91 Ricardo Franco Levi (con una C sola, lo chiamavamo «il refuso») che voleva un giornale elegante, una sala da tè inglese. Infatti non vendeva una copia. Gli editori, disperati, mi hanno chiesto se volevo tentare di resuscitarlo. Avevo fatto decollare l’Europeo: il fenomeno Lega era all’inizio, ma io ero molto attento. Tant’è vero che, ancora oggi, mi accusano di essere leghista. Quando sono andato all’Indi, l’ho cambiato completamente: da sala da tè l’ho trasformato in una trattoria. Ho sfruttato tantissimo Mani Pulite. Quando è arrivata la notizia di Chiesa, l’ho pompata subito. Ero amico di Di Pietro... Perché era amico di Di Pietro? Era stato a Bergamo a fare il pm: mi dava delle notizie pazzesche. Quando è scoppiata Tangentopoli, Di Pietro mi ha chiesto di dargli una mano. Gli ho fatto un’intervista, e sono diventato una specie di organo ufficiale di Mani Pulite. Ci ho dato dentro, con titoli tipo «Sgominata un’altra giunta, evviva!». Il giornale ha cominciato a crescere. Insomma, quando sono arrivato io erano a 17 mila copie. Dopo cinque-sei mesi, viaggiavamo verso le 60 mila. Merito anche dei giornalisti. Certo, sennò non vai da nessuna parte. Da solo non fai niente, sei solo la ciliegina sulla torta. Vittorio Feltri. (Silvia Truzzi). Il Fatto.

Dal 1917 al 1940. Roma è una città bellissima che odiavo profondamente. Odiavo la squadra di calcio, le facce indolenti dei romani, la storia antica, la retorica delle rovine. Odiavo i musei e le gallerie, i caffè e i ristoranti. Parteggiavo per Pirro e Annibale. Sognavo Vercingetorige. Mi auguravo nuove invasioni barbariche. Ero per New York. O, al massimo, per Milano. Ho cominciato ad affezionarmi a Roma da lontano, durante i miei anni americani . Manlio Cancogni, scrittore. la Repubblica.

D’Alema sapeva benissimo chi era B. e, quando stava all’opposizione, lo diceva pure: «È una via di mezzo tra Marinho, il padrone della tv Globo brasiliana, e Giancarlo Cito». Gli augurava di «fuggire all’estero in rovina». Lo paragonava a Kim Il Sung e Ceausescu. Lo chiamava «buffone», «squadrista della tv», «barbaro». Irrideva i suoi «tacchi alti alla Little Tony». Lo minacciava: «Faremo capire al signor B. e ai suoi lanzichenecchi che il Parlamento deve affrontare con assoluta urgenza il conflitto d’interessi e l’antitrust». «Non riconoscerei B. come premier legittimo nemmeno se rivincesse le elezioni». Poi però, quando andava al potere e poteva emarginarlo, si sdilinquiva tutto: «Io di B. mi fido: credo sia sincero quando dice di volere le riforme» (23.1.96). «La Fininvest è una grande risorsa per il Paese» (29.3.96). «Sono preoccupato da una caduta di B.» (31.5.96). «Con B. dobbiamo riscrivere le regole dello Stato democratico» (3.6.96). «Fi è un partito confinante col Pds. Ma il nostro non è inciucio: è antagonismo collaborante» (19.12.96). Ora dice di averlo sempre combattuto. Ecco: appena parla D’Alema, tutti capiscono perché c’è Renzi. Marco Travaglio. Il Fatto.

Jens Petersen, direttore a Roma dell’Istituto storico germanico, è l’autore di un libro dal titolo Quo vadis Italia? (Ein Staat in dier Kirise). Angelo Bolaffi, che ha potuto leggerlo prima della pubblicazione, segnala in quelle pagine una lettera di Gregorovius, datata 1890: «Così com’era l’Italia non poteva restare. Così com’è, non resterà. Così come dovrebbe essere, purtroppo non diverrà». Forse casuale, ma forse attuale. Alberto Ronchey, Fin di secolo in fax minore. Garzanti, 1995.

Guerriero mi racconta un episodio della Repubblica del Quarnaro. «A un certo punto D’annunzio si trovò senza soldi e stava per smobilitare. Ma poi arrivarono, non so da quale parte, sei o sette milioni. I suoi vari ministri cominciarono a discutere su come ripartirseli. D’Annunzio li stette a sentire, poi sentenziò: “La sostanza al despota. Le frange ai suoi servitori. Alla plebe, le briciole”. E incamerò il peculio». Indro Montanelli, I conti con me stesso - Diari 1957-1978. Rizzoli.

Il potere del giornalista non si fonda sul diritto di porre una domanda, ma sul diritto di esigere una risposta. Milan Kundera, L’immortalità. Bernard Pivot, Le mètier de lire. Gallimard, 1990.

A Palermo e in tutta la Sicilia, domina incontrastato il Circolo, dove, secondo Gesualdo Bufalino, «tra rimpalli di carambole e fruscii di giornale, si consumano e ammuffiscono le vite in interminabili repliche...». «Al Circolo» dice Bufalino «si vive e si muore lentamente, ascoltando il battito infaticabile dell’esistenza». Saverio Vertone, Viaggi in Italia. Rizzoli, 1988.

Clientela del bar della domenica, diversa, famiglie intere per l’aperitivo, granatine per i bambini, verso le undici. Il pomeriggio i vecchi dell’ospizio liberati fino alle sei, felici e rumorosi. Qualche volta, dopo troppe libagioni, bisognava metterli in ordine per rimandarli presentabili, alle suore dell’ospizio. Il caffè della domenica svolgeva il ruolo della famiglia. Annie Ernaux, La place. Gallimard, 1983.

La democrazia è un sistema di parole, il modo migliore per ingannare la gente. Preferisco l’Isis. Massimo Fini. Il Fatto.

Per cinismo è diventato indifferente anche a se stesso. Roberto Gervaso. il Messaggero.

Paolo Siepi, ItaliaOggi 3/9/2015