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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

“MORTE ALL’AMERICA” IL DERBY DEI GRAFFITI TRA ROUHANI E I PASDARAN

WASHINGTON
Una mano lava la storia e un’altra la riscrive, con lo spray della paura e della speranza, nella guerra dei graffiti scoppiata sui muri dell’ambasciata americana a Teheran, chiusa da 46 anni. Nella lotta interna fra il passato khomeinista che rifiuta di morire e il nuovo che cerca di nascere, nella vertigine del cambiamento storico che il trattato con gli Usa preannuncia, le scritte che invocano “Morte all’America” scompaiono e ricompaiono nel luogo fatale del sacco dell’ambasciata. Mentre a Washington Obama duella con un Senato recalcitrante per far approvare l’accordo nucleare con l’Iran e la fine dell’embargo.
La guerra dei graffiti combattuta fra il presidente Hassan Rouhani e la Guida Suprema, l’autocratico guardiano dell’ortodossia Ali Khamenei, si sta manifestando in una bizzarra giostra di “writers”pilotati dalle fazioni opposte. Uomini della Polizia armati di spazzole e solventi compaiono al mattino per cancellare le maledizioni a quel “Grande Satana” con il quale il governo ha firmato l’accordo nucleare. Al pomeriggio arrivano intonando versetti e citazioni del Supremo Leader gli scherani del Basij, gli odiati paramilitari alle dirette dipendenze dei pasdaran, con le bombolette per riscriverle. Aggiungendo falò di bandiere britanniche, israeliane e americane nuove di zecca e stampate per l’occasione, che inutilmente la polizia di Stato aveva cercato di sequestrare.
Un duello che avrebbe aspetti comici, da sfide fra i tifosi sui muri delle città prima di un derby, se non fosse il sintomo-spray di quanto si agita nel fondo della società iraniana e nei vertici della teocrazia di fronte all’ipotesi, terrorizzante per i despoti, entusiasmante per i giovani, di chiudere finalmente il mezzo secolo di isolamento e di autoesclusione imposto dalla rivoluzione sciita. In queste ore di discussioni e di retorica altrettanto violenta, ma senza spray, fra senatori americani attorno a un trattato che forse passerà con un solo voto di maggioranza a Washington, le fazioni iraniane sembrano voler segnalare, con le bombolette, le stesse pulsioni alla rovescia: offrire ai falchi del Congresso Usa l’occasione per sostenere che anche questo “Stato Canaglia” non è cambiato. E alle colombe, cancellando la scritte, trasmettere la speranza che un nuovo Iran stia nascendo dal fallimento economico e sociale del regime islamista e dalla sua corruzione.
È una schizofrenia che rappresenta bene le contraddizioni di un Paese nel quale è sempre più grande il distacco fra l’adesione formale, e coatta, alla Repubblica Islamica, e la vivacità di una gioventù, specialmente di quelle giovani donne che sono il 60% del corpo studentesco universitario, che conduce in privato un’esistenza non diversa da quella dei coetanei a Parigi o Londra. E l’ex ambasciata americana, ancora chiusa dal 1979, è il tempio attorno al quale ci sta inevitabilmente celebrando il rito del vecchio contro il nuovo.
Nel panico degli integralisti, che sentono la sabbia del tempo muoversi sotto i piedi, i pasdaran e il loro mazzieri del Basij si aggrappano al 76enne erede dell’ayatollah Khomeini, ad Ali Khamenei, che non ha mai abbandonato il breviario degli anatemi contro i demoni americani. Per marcare il territorio attorno al sacrario abbandonato della rivoluzione, quella ambasciata dove una sessantina di diplomatici e funzionari americani furono tenuti in ostaggio per 444 giorni e liberati all’elezione di Ronald Reagan nel1981, i Basij hanno appeso una placca murata con le più virulente sparate anti Usa del supremo leader. Sapendo che nessuno oserà toglierla, in spregio a lui.
È un catalogo di trite accuse e di parole logorate da mezzo secolo di retorica, «corrotti», «arroganti», «affamatori del popolo iraniano», «infedeli» e l’immancabile «nemici del Corano», che riprendono l’ultimo discorso pubblico di Khamenei dopo l’annuncio dell’accordo con John Kerry, chiuso con il sempre popolare «Morte agli Usa» rieccheggiato dalla folla adunata per l’occasione. Proprio quello slogan che il giorno successivo gli agenti del governo, teoricamente del suo governo, avrebbe tentato di cancellare.
Mai in maniera così vistosa, neppure nelle ore delle sommosse studentesche poi represse, le contraddizioni all’interno di un regime in declino, disperatamente alla ricerca di un’alternativa alla sua dipendenza dal petrolio, si erano manifestate con tanta evidenza come in questa guerra dei graffiti. Segnale che quel di schiudersi verso una normalizzazione diplomatica con il resto del mondo, già concretizzata dalla riapertura dell’ambasciata britannica prontamente assediata dai manifestanti a molla inviati dai Pasdaran, scuote la nazione.
«Niente altro che doppiezza, teatro per farci accettare un accordo che non fermerà la corsa alla bomba atomica», hanno risposto da Washington i duri come il senatore di New York Chuck Schumer, che voterà contro, in ossequio all’intransigenza del governo israeliano di Bibi Netanyahu. Né a Washington né a Teheran difettano i duri, ancora aggrappati all’umiliazione del 1979, a quella vergogna che sta amareggiando gli ultimi mesi di vita anche di chi non seppe lavarla, il presidente Jimmy Carter, come ha confessato nella sua conferenza stampa di addio dopo la diagnosi terminale. Altri regimi, altri nemici mortali di ieri hanno saputo superare il passato, di fronte al fallimento del fondamentalismo dottrinale, come i Castro in quella Cuba dove ora la bandiera americana sventola sull’ambasciata. Ma Cuba è molto lontana da Teheran.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 3/9/2015