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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

INTERVISTA A BRUNO ZANIN

«Amarcord, sì. Mi ricordo che di Federico Fellini ne ho conosciuti almeno due, ma ce ne saranno stati tre, quattro, o forse centomila come scrive Pirandello, perché quell’uomo sapeva farsi adolescente e adulto, serio e buffone, abbassandosi o innalzandosi a seconda di chi si trovava davanti. Mi ricordo un Fellini generoso e paterno, che mi chiamava Brunaccio o Brunin e che per tutta la durata delle riprese mi trattò come un figlio discolo, e un Fellini affetto da egolatria, dedito solo a se stesso e al suo lavoro, a tratti disumano. Mi ricordo che tutti i giorni pretendeva di avere sul set Mara Ciukleva, stella decaduta dell’Accademia d’arte drammatica bulgara, ormai ultraottantenne ridotta in miseria, presente in quasi tutti i suoi film, e la maltrattava con urla belluine se non scattava ai suoi ordini, per poi il giorno seguente mostrarsi tenerissimo, come se fosse sua madre. Mi ricordo che il primo Fellini m’invitava a pranzo nella sua villa di Fregene, salvo eclissarsi dopo l’uscita del film, con mio immenso dolore. Mi ricordo che lo chiamavo al telefono e lui, per non farsi riconoscere, imitava la vocina della cameriera: “Il Maestro non è in casa”».
Ricorda tutto, ma non vorrebbe ricordare niente, Bruno Zanin, protagonista di Amarcord, il Titta Biondi che Fellini prese dalla strada. «Quell’incontro ha cambiato il Dna delle mie cellule cerebrali. Fu una sventurata fortuna». Per questo s’è sempre rifiutato di partecipare a qualsiasi evento celebrativo, funerali compresi. «Quando Fellini morì, mi trovavo in Bosnia per conto di un’agenzia umanitaria. Da là inviavo corrispondenze di guerra alla Radio Vaticana. Fu un collaboratore del direttore padre Federico Lombardi, oggi portavoce di Papa Francesco, a darmi la notizia».
Zanin resta l’unico interprete principale che potrebbe presenziare alla Mostra del cinema di Venezia, dove il capolavoro viene riproposto il 5 settembre in versione restaurata, nel 40° anniversario del premio Oscar. «Gli altri se ne sono andati. Morta Pupella Maggio, la madre di Titta. Morto Armando Brancia, il padre. Morto Nandino Orfei, lo zio Patacca. Morto Ciccio Ingrassia, lo zio matto. Morta Magali Noël, la Gradisca. Morta Maria Antonietta Beluzzi, la tabaccaia. Morto Tonino Guerra, che collaborò alla sceneggiatura. Morto Luigi Benzi, l’amico dell’adolescenza che ispirò a Fellini la figura di Titta. Morti Nino Rota, autore delle musiche, e il costumista Danilo Donati, entrambi premiati con l’Oscar. Sono morti tutti».
Lungo i sentieri che dall’Alpe Soi conducono al Passo Baranca, il protagonista di Amarcord conserva intatto il sorriso largo del Titta: «Speriamo che qui, nascosto tra le montagne, la signora in nero si dimentichi di me. Ci ha provato già varie volte, ma sono un osso duro». Cresciuto con sette fratelli in una povera famiglia contadina della campagna veneta vicino al Brenta, dopo aver cambiato mestieri, case, città e girato il mondo, ha trovato il suo centro di gravità permanente in una baita ai piedi del monte Rosa, dove sono venuto a cercarlo. Ha due figli, già adulti, e un’ex moglie. «Abitano tutt’e tre in Francia. Lei era una fotografa. Si presentò per un servizio al Théâtre de la Ville di Parigi, mentre recitavo. Matrimonio nel 1978, separazione dopo otto anni. Oggi vivo da solo».
Perché Fellini scelse proprio lei per Amarcord?
Per una serie di fatalità. Pare che di ragazzi per fare Titta ne avesse selezionati già due, ma non lo convincevano. Siccome credeva ai maghi, a pochi giorni dall’inizio delle riprese si rivolse disperato al suo amico Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese. Il quale gli disse: «Smetti di cercare. Ti troverà lui». E così avvenne.
Crede alle premonizioni?
Alle coincidenze. E agli incontri predestinati, sì.
In che modo lei trovò Fellini? E perché lui decise di scritturarla?
Da tempo fuori casa, già ospite di varie carceri minorili, dopo un periodo balordo passato a Roma a correre la cavallina mi ero trasferito sull’isola di Lipari per salvarmi da una sorta di maga Circe conosciuta durante una seduta spiritica, che mi aveva reso la vita un inferno. Avevo 21 anni. Vendevo braccialetti, collanine e orecchini realizzati da me. Mi capitò di fare un prestito a una romana priva dei soldi per tornare a casa con la famiglia. Mesi dopo, uno dei suoi figli mi portò al casting per un film western a Cinecittà. Al Teatro 5 notai una trentina di ragazzetti in fila. Attendevano un provino per Amarcord. L’assistente Maurizio Mein chiamò più volte un nome, lo ricorderò sempre: Tiberi Daniele. Nessuno si fece avanti. Mi presentai al suo posto e mi ritrovai con altri sei in una stanza. Stavo arretrato per non farmi scoprire. Fellini discuteva a voce alta con un tizio strambo, la barba da frate: era il gesuita svizzero Gérald Morin, suo segretario privato. Il Maestro era nero come un temporale, ce l’aveva con il costumista Donati. Finché non gli cadde l’occhio su di me: «E quello là chi è? Perché non viene avanti?» gridò. Stavo per scappare, ma fui trattenuto dalla sua voce, divenuta all’improvviso dolcissima: «Tu, capellone, avvicinati, ti voglio vedere meglio». Cominciò a farmi delle domande strane, come se già mi conoscesse, mi chiese persino di che segno fossi. Quando sentì che arrivavo dalle Isole Eolie, che ero dell’Ariete e che non mi avevano convocato, bensì mi ero intrufolato per la curiosità di conoscerlo, ebbe una reazione da matto: «È lui, è lui, è arrivato! Gérald, chiamami subito Rol al telefono!». Una settimana dopo, tolto l’orecchino, tagliati i capelli e vestito da Titta, cominciammo le riprese. Era il 23 gennaio 1973.
Le Eolie e l’Ariete che c’entravano?
Me lo spiegò anni dopo Tullio Kezich, biografo del regista. Fellini fu invitato con Giulietta Masina a Lipari da Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, che avevano appena finito di girare Stromboli. E lì, mentre alloggiava proprio nell’albergo in cui ero stato ospite prima di trovarmi una casa, Fellini fece un sogno premonitore che gli cambiò la vita. Lui credeva alle visioni oniriche, lo guidavano nelle scelte artistiche. Nel Libro dei sogni, pubblicato postumo contro la sua volontà, ce n’è uno in cui sono presente anch’io, legato a un episodio imbarazzante.
Quale episodio?
Non posso dirlo, vada a vederselo da solo. (Sono andato a vedermelo: riguarda un problema intestinale del regista, in effetti irriferibile).
Quanto durarono le riprese?
Fino al 29 luglio. Dieci persone a occuparsi di me: il parrucchiere che mi decolorava i capelli per farmi biondo, il sarto, l’autista personale.
Lei resta nell’immaginario collettivo per la mano infilata sotto la gonna bianca della Gradisca nel buio di un cinema.
Magali Noël era amabile. A volte si portava appresso sul set il secondo marito e i figlioletti adottivi di origine vietnamita.
E anche per il sollevamento da terra della tabaccaia pettoruta.
Inchiodato per sempre a quella scena, lo so. Maria Antonietta Beluzzi era un talento naturale. L’hanno usata malissimo tutti, anche Adriano Celentano, che la sfruttò in Di che segno sei? per le sue forme giunoniche. Era un’umile camiciaia di Bologna che adorava Fellini. Lui, con la scusa di mostrarmi come andava girata l’azione, tuffava la faccia in mezzo alle sue tettone e a me lasciava il compito di caricarmela sulle spalle anche dieci volte.
Ha guadagnato molto con Amarcord?
Ebbi un contratto da attore esordiente, 160 mila lire per 5 giorni a settimana.
Con la rivalutazione Istat, l’equivalente di 250 euro al giorno. Moltiplicati per i sette mesi scarsi di lavorazione, fanno meno di 34 mila euro lordi. Una miseria.
Una miseria non direi, se consideriamo che fino a pochi giorni prima vendevo collanine sulla spiaggia. Quando i giornali scrissero che ero il protagonista, e non un semplice ragazzo della scolaresca di Amarcord, protestai, minacciai di lasciare il set. Ma non avevo nessuno alle spalle, neppure un agente: solo una diffida del questore a risiedere in Roma. Infatti mi alloggiarono in una villa di Frascati per evitare che venissi arrestato, finché il prefetto non revocò l’ordinanza, per ragioni artistiche. Il produttore Franco Cristaldi mi promise un premio alla fine delle riprese. Mai visto.
E dopo Amarcord?
Ogni tanto, quando Fellini girava un nuovo film, mi convocava a pranzo al Teatro 5: «Ho saputo, patacca, che hai lavorato con Luca Ronconi e con Giorgio Strehler. Bravo, te l’avevo detto che sei nato attore. Però ti trovo dimagrito. Hai soldi, caro, hai una casa?». Quasi sempre ero senza una lira e in arretrato con l’affitto. Lui diventava serio e chiamava la produzione: «C’è Zanin che deve recitare una parte, preparategli il contratto, mi serve per sette pose, è un ruolo che non compare nella sceneggiatura». Poi mi dava un pizzicotto sul braccio, come un monello complice: «Ma che muscoli che hai, disgraziato, continui sempre a farti seghe? Ora ho da lavorare, sparisci, fila in sartoria per le misure». Fu così che mi ritrovai secondo cameriere, che mai entra in campo, nello spot pubblicitario dei rigatoni Barilla, e paziente completamente bendato del mago brasiliano di chirurgia plastica in Ginger e Fred, e gentiluomo veneziano mascherato in una scena di massa del Casanova. Era il suo modo per aiutarmi a spese della produzione e magari sentirsi meno in colpa per avermi scaraventato in quel bell’ambientino. Quando chiedevo a Federico perché non mi affidasse un ruolo vero, sospirava: «Caro Brunin, non posso darti una parte importante, tutti ti ricordano come il Titta. E poi, cosa ti faccio fare? Dimmelo tu, tesoro». E sorrideva sornione e bugiardo.
Era bugiardo?
Mentiva su tutto con puerile sfacciataggine. Diceva che era stato come me in collegio dai salesiani, ma non era vero: fu il fratello Riccardo a studiare dai preti. Sosteneva d’aver provato l’Lsd. Quanto al transatlantico Rex, non solcò mai il mare di Rimini. Il regista nel 1977 si trovava a Parigi e promise di venirmi a vedere a teatro con la moglie Giulietta Masina. Recitavo in francese Jacques ovvero la sottomissione di Eugène Ionesco. Gli feci tenere due posti in prima fila. Figurarsi l’eccitazione dei colleghi. La direzione convocò stampa e tv. Ma lui non si presentò. Il giorno seguente trovai in camerino un biglietto in cui si scusava tantissimo: si era scordato di un invito a cena con Giulietta dall’ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse anch’egli con la consorte al Théâtre de la Ville proprio per incontrarvi Fellini. Da ridere. Più bugiardo di lui, se escludiamo il sottoscritto, non ho conosciuto mai nessuno.
Piccinerie dei grandi.
Lo stesso bidone me lo tirò a Roma anni dopo, mancando all’appuntamento che mi aveva dato in un lussuoso ristorante di via Cavour. Solo che qui ad attenderlo c’era anche uno dei miei figli, tredicenne, armato di Kodak per immortalare l’evento. Da allora smisi di telefonargli e di volergli bene.
Ha mai avuto la sensazione che Fellini fosse omosessuale, come si vocifera?
Lo apprendo da lei.
Il sito The Celebry Post ha persino svolto un sondaggio sull’argomento.
Che cosa vuole che m’importasse di quel che faceva il genio Fellini con il suo pisello? Io a quel tempo avevo già un bel daffare con il mio, che mi dava pure qualche pensiero. Che tristezza però scoprire che nel 2015 c’è gente ancora interessata a quello che fa il prossimo della propria sessualità. Non sarebbe più interessante sapere che cosa ha nel cuore e nel cervello, anziché nelle mutande?
Perché, dopo una ventina di film, il teatro e l’interpretazione di Giulio nel Marco Polo televisivo di Giuliano Montaldo, ha abbandonato la carriera di attore?
Ho sperimentato la refrattarietà a vivere con gli altri colleghi, l’insufficienza della mia cultura, il senso d’inadeguatezza, la mancanza di una vera vocazione. Tutti limiti con i quali ho dovuto fare i conti quando mi sono accorto che venivo doppiato persino nei film in italiano. E allora, come dice Voltaire nel Candido, meglio avere una casetta e coltivare il proprio orticello. È quello che ho fatto dopo aver vissuto l’orrore della guerra in Bosnia.
Sicuro che questa scelta sia definitiva?
Sì, non ce la facevo più a stare sul set con 70 persone quasi tutte bisognose dello psichiatra. Ero stanco di assorbire le loro nevrosi. L’attore non ha il senso né della realtà né di niente. Ti sbronzi, fumi le canne, tiri cocaina, fai sempre le ore piccole senza regola, rischi d’impazzire. Io sono nato contadino, mi sentivo un impostore nell’esercitare un mestiere che non mi apparteneva. La vigilia di Natale del 1989 recitavo Il ventaglio di Carlo Goldoni al teatro Alfieri di Torino, sotto la direzione di un argentino che del commediografo veneziano non conosceva un tubo. Non sapevo dove passare il Natale, non avevo programmato nulla. Mi ero dimenticato dei regali per i figli, di scrivere due righe di auguri agli amici, la stessa cosa con mia madre. Andai al bar a bere una birra, stavo per pagare: mi accorsi d’aver scordato nel camerino il borsello con soldi, documenti, chiavi di casa. Tornai indietro: teatro chiuso, custode partito per le feste. Passai la notte di Natale in camper, al gelo, in un parcheggio di periferia. L’indomani mangiai alla mensa della Caritas. Ma che razza di vita stavo facendo? Decisi di smettere.
Di che cosa vive adesso?
Per vedere come campa una persona, basta aprire il suo frigorifero. Il mio è vuoto, perché consumo quotidianamente ciò che coltivo nell’orto. Ma poi mai chiedere a un artista ritiratosi a vita privata dove trova i soldi per tirare la carretta. Ognuno ha il proprio trucco.
Si può sapere qual è il suo?
Riesco a sopravvivere vendendo un mio libro con il passaparola. Uso la formula «lo paghi ciò che vuoi e solo se t’è piaciuto». È un romanzo autobiografico, in cui racconto la mia infanzia non splendida, non invidiabile, non esemplare. È stato l’amico Raffaele La Capria a suggerirmi la scrittura come terapia contro la depressione, la brutta bestia che ti spegne la luce, ti toglie la voglia di vivere, ti lascia nel mondo senza fartici stare. Ho poi un piccolo monolocale a Tivoli che do in affitto. Faccio lavori di manutenzione nelle ville di alcuni amici. Diciamo che vivo una dignitosa povertà, condizione che mi offre ciò che non avevo prima, quando facevo l’attore e guadagnavo in un giorno ciò che ora racimolo a malapena in tre mesi, ossia un’assoluta libertà. Sono padrone del mio tempo, un privilegio che a pochi è concesso.
Come s’intitola il libro?
Nessuno dovrà saperlo. È rivolto a tutti coloro che hanno subìto violenze e abusi sessuali da bambini, com’è accaduto a me in collegio a opera di un prete, quando avevo 13 anni. L’ho dedicato anche a Papa Francesco, che ha impugnato il bastone per sanare questa piaga schifosa all’interno della Chiesa. La Grafica Veneta di Fabio Franceschi me lo ha appena ristampato come regalo per il mio 64° compleanno, in edizione speciale numerata.
Ha scritto solo quello?
Per una casa editrice di Bergamo sto per pubblicare Puttana guerra!, un romanzo-verità sull’esperienza che ho vissuto dal 1992 al 1995 in Bosnia.
A distanza di mezzo secolo, l’abuso subìto in collegio la fa ancora soffrire?
Quell’esperienza ha avvelenato la mia esistenza, provocando una ferita che ancora sanguina. Ma continuare a portare rancore a un individuo diventato ormai uno scheletro significherebbe tenerlo sempre vivo nella testa e la storia non finirebbe mai. È difficile perdonare, ma è ancora più difficile perdonare sé stessi. Per colpa di quel trauma mi sono sempre sentito sbagliato, ho compiuto una montagna di errori, ho fatto soffrire molte persone. È successo, non posso rimediare ormai. I miei figli mi hanno dato un consiglio: «Papà, mettici una pietra sopra, non pensarci più, noi ti amiamo così come sei. Fai pace con te stesso». È ciò che mi disse anche fratel Carlo Carretto, reduce dal deserto del Sahara, quando andai a trovarlo con un pellegrinaggio a piedi da Rimini all’eremo di Spello: «Sei destinato a portare questa croce, rasségnati Bruno! Sii quello che sei. Che il tuo peccato non diventi più grande dell’amore che provi nel cuore per le creature verso le quali ti senti attratto. Dio ti ha voluto così per qualche suo disegno misterioso. Lui ti ama per come sei. Perdona quel sacerdote. Se ancora vive, è sicuramente infelice molto più di te». Io piangevo.
Lo ha perdonato?
Alla mia età, visto che sono rimasto l’unico interprete vivente di Amarcord, devo stare all’erta e prepararmi agli addii con dignità, perdonando e chiedendo perdono, altrimenti morirò rabbioso e avrò sprecato la vita. Ora la saluto, devo andare ad abbeverare l’orto. Con questo caldo i fagioli hanno bisogno di acqua.


LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Arbiter. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Arbiter. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.