Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

UNO SPETTRO SI AGGIRA PER LA SILICON VALLEY

Chris Sacca, ex manager di Google, siede sul palco del Launch Festival a San Francisco in cui vengono presentate le future start-up. Indossa una vistosa camicia da cowboy. «Non vedo l’ora che arrivi il crollo», dichiara. Eppure Sacca è un investitore in capitale di rischio. Dopo la sua uscita da Google è stato tra i primi a impegnare somme ingenti in aziende tecnologiche come Facebook, Twitter e Uber, guadagnando cifre imponenti. Oggi le imprese che ha finanziato valgono miliardi. Nonostante questo, è convinto che i più recenti sviluppi sulla scena delle start-up californiane siano a dir poco sconcertanti: «La Silicon Valley sta oltrepassando ogni limite», sostiene. E per questo si aspetta il crollo: «Gli incompetenti sarebbero finalmente costretti ad andarsene».
Le somme che gli investitori immettono in tante start-up sono sempre maggiori, con il risultato di farne salire a livelli folli, anche dell’ordine di decine di miliardi, le valutazioni e le quotazioni in borsa. Come nel caso del portile di scambio case Airbnb, che sta raccogliendo 1,5 miliardi di finanziamenti, per una valutizione di 24; e di Dropbox, servizio di condivisione e memorizzazione di file, valutato 10 miliardi al momento delle ultime operazioni di raccolti. La Palantir Technologies, che produce software finanziari e per la sicurezza, vuole raccogliere fino a 1 miliardo e verrebbe stimata 20. E Uber, intermediario di servizi di trasporto (attaccato dai tassisti di mezzo mondo), 50.
Che gli investitori versino tanti soldi in nuove imprese sperando di arricchirsi attraverso una vendita di quote o un’offerta pubblica iniziale (ipo), non è una novità. E nemmeno il fatto che non sempre siano le idee più innovative, originali o redditizie a essere finanziate, come si è già visto in precedenti fasi di boom. Quel che è nuovo oggi è il livello delle cifre investite nelle società, con le relative valutazioni.
Il flusso di persone che arrivano in California con il sogno di metter su un’impresa per fare soldi facili non accenna a diminuire. Molti di loro erano fra il pubblico della conferenza sulle start-up del Launch Festival dove ha parlato Sacca: centinaia di imprenditori che hanno sborsato parecchi soldi per approntare qui i loro stand e avviare un dialogo con investitori come Union SquareVentures o Sequoia Capital. C’erano novità, ma a dominare erano i progetti me-too, cioè senza significative differenze rispetto a quanto già esiste sul mercato: il prossimo servizio di consegna, la prossima app per foto, il prossimo portale di valutazione dei ristoranti... Fino ad alcuni anni fa valutazioni di start-up per 10 miliardi di dollari e più apparivano fantasie. Google, per esempio: prima della quotazione in borsa del 2004, con un fatturato trimestrale di 700 milioni di dollari, non valeva certo miliardi. Lo stesso Amazon e tutti gli altri nomi di successo della prima ondata di aziende dot.com. Oggi, invece, il miliardo di dollari è quasi all’ordine del giorno. Che le imprese facciano fatturato è di secondaria importanza. Ben più importanti sono la quota di mercato, la previsione di crescita e l’ego del fondatore. Stewart Butterfield, fondatore della start-up Slack Technologies, specializzata in organizzazione e servizio messaging, ha per esempio dichiarato di voler raggiungere la valutazione di 1 miliardo di dollari che rappresenterebbe un «buon valore soglia psicologico» per clienti, collaboratori e giornalisti. La società il miliardo l’ha oltrepassato.
Ci sono svariati motivi per cui le valutazioni hanno avuto una simile impennata. Le start-up vengono quotate in borsa più tardi e nel frattempo organizzano più tappe di finanziamento, durante le quali le valutazioni possono crescere (Uber ha raccolto 10 miliardi prima ancora della quotazione). Tecnologie come il cloud-computing, gli smartphone e i sensori a basso costo accendono la creatività dei neoimprenditori. E i miliardi affluiscono nella Silicon Valley dal mondo intero. Sia da tradizionali finanziatori delle start-up, come imprese di venture capital e banche di investimento, sia da nuove fonti, come fondi speculativi e di investimento e privati. Con una legge del 2012, inoltre, gli Stati Uniti hanno reso più facile per le piccole imprese fare il pieno di capitali privati prima della quotazione. C’è poi l’effetto del Fomo, Fear of missing out, la paura di perdere una buona occasione di guadagno, di lasciarsi sfuggire la prossima Facebook, che è stata quotata in borsa con una valutazione di 104 miliardi di dollari e oggi ne capitalizza 230. «È l’istinto gregario», dice Alex Lykken della Pitchbook, società di ricerca specializzata in analisi di private equity e capitale di rischio. «Gli investitori di venture capital devono partecipare e tutti gli altri sperano a loro volta di fare il colpo». L’anno scorso solo le imprese a capitale di rischio hanno investito 48,3 miliardi di dollari con le start-up Usa, il 61% in più rispetto al 2013. Anche società di investimento, come Blackrock o Fidelity Investments, che di norma investono nelle start-up solo dopo la quotazione, adesso vogliono anticipare. Perfino fondi pensione sono coinvolti in modo più massiccio.
Le start-up da miliardi così foraggiate hanno un soprannome: unicorni quelle valutate dalle borse o da investitori privati più di 1 miliardo di dollari (sono 69 negli Usa, 144 nel mondo); decacorni quelle che arrivano a dieci. Sono soprattutto significative due start-up senza fatturato di rilievo salite oltre i 10 miliardi di valutazione: Snapchat, servizio per l’invio rapido di immagini e notizie, che ha ricevuto 200 milioni di dollari dal gigante cinese dell’e-commerce Alibaba Group e che, secondo stime parziali, vale 15 miliardi di dollari; e la bacheca online Pinterest, social network dedicato alla condivisione di immagini e video, che a marzo di quest’anno aveva raccolto 367 milioni di dollari. La sua valutazione si attesta ora su 11 miliardi di dollari, il doppio rispetto ad appena un anno fa. Sebbene queste società contino solo alcune decine di dipendenti e non abbiano quasi fatturato, sono tra le imprese non quotate più valutate al mondo. Viene da chiedersi: non è arrischiato investirvi?
L’80-90% di tutte le start-up muoiono pochi anni dopo la fondazione. E per gli investitori è difficile farsi un’idea completa dell’azienda: ai minuscoli fatturati solo di rado si aggiungono profitti, e come società non quotate non devono depositare bilanci e rapporti di attività alle autorità di borsa. La disponibilità di dati storici per fare previsioni è quindi scarsissima. Un investimento sicuro è tutt’altra cosa. E anche ammesso che una start-up superi i primi anni senza arenarsi, il disastro è sempre possibile. «La mia preoccupazione è che le valutazioni al momento della quotazione o della vendita non siano comparabili con quelle precedenti, durante le fasi di finanziamento da privati», avverte Raffi Amit, professore alla scuola di management Wharton. «Ci si dovrebbe chiedere quali profitti si debbano raggiungere (penso per esempio a una valutazione da 41 miliardi come per Uber) per giustificare simili investimenti». Sono critici anche alcuni finanziatori della SiliconValley. Bill Gurley, socio presso la società di venture capital Benchmark, mette in guardia da tempo sulle conseguenze di questa voracità finanziaria; eppure, la sua stessa azienda conta in portafoglio Uber, Snapchat, il network di spazi per il coworking WeWork e l’impresa sul cloud JasperTechnologies. A metà febbraio Gurley sedeva sul palco della Goldman Sachs technology & internet conference ripetendo quel che va predicando da mesi: investire in certe start-up è troppo rischioso. Vista la facilità dei finanziamenti, le imprese non hanno mai bruciato così tanti soldi dal 1999: «Finirà male per molti». Per Gurley, già ingegnere per Compaq e Amd, a essere particolarmente allarmanti sono i servizi di consegna e altre start-up con utili bassi, che sostengono la posizione sul mercato con buoni e promozioni e che solo con enorme fatica possono diventare davvero redditizi. Solo una minoranza, tuttavia, ha deciso di seguire il suo consiglio, come ha riferito lo stesso Gurley al Wall Street Journal. Più di tutto pesa il timore di non esserci, quando una pioggia di denaro scroscerà su startup e finanziatori.
Per certi aspetti, l’ubriacatura da startup ricorda il boom degli anni Novanta, finito con il collasso di 15 anni fa. Molti esperti della Silicon Valley, come Russell Hancock, presidente dell’organizzazione Joint Venture Silicon Valley, non credono tuttavia che si sia formata una nuova bolla internettiana: «Il 2000 fu un’altra cosa», sia perché le imprese di oggi sarebbero più solide, sia perché gli investimenti sono aumentati gradualmente, e il livello di occupati e l’economia della regione californiana crescono proporzionalmente. Inoltre il numero di start-up è assai più ampio. Anche Aaron Gershenberg della Silicon Valley Bank è ottimista. Se non si mette di mezzo qualche avvenimento macroeconomico o geopolitico, la «richiesta di start-up con capitale di rischio alle spalle crescerà ancora. C’è grande disponibilità di capitali che aspettano di essere investiti nell’economia dell’innovazione».
Ciononostante, a molti pare che il settore della tecnologia, per sua natura ciclico, sia destinato a un’inevitabile correzione. Alex Lykken, della PitchBook, si aspetta innanzitutto i cosiddetti flat round o down round, per cui le start-up si troveranno ad accettare valutazioni più basse, con ripercussioni negative sul mercato. Henry Blodget, già analista di Wall Street, è un altro che tenta di frenare l’euforia: «Solo perché i segnali non indicano una bolla, non significa che sfuggiremo ancora per molto alla resa dei conti», scrive nel suo portale di notizie Business Insider. E se perfino Sam Altman, presidente della Y Combinator (Yc), il più importante incubatore di start-up della Silicon Valley, comincia a mettere in guardia, è chiaro che qualcosa potrebbe sfuggire di mano: «Non è per forza positivo che le imprese raccolgano denaro a palate grazie a valutazioni molto alte», dice. «Non è buona la casistica di aziende che nelle prime fasi di finanziamento hanno ricevuto somme enormi grazie a valutazioni altissime. In questo modo si rovina la cultura del settore». In occasione dell’Yc demo day, centinaia di investitori in venture capital hanno assediato il Computer history museum di Mountain View, dove si sono azzuffati su chi e quanto potrà investire nelle oltre 100 start-up dell’Y Combinator, neoimprese che si occupano di tutto, da propulsori a razzo prodotti su stampanti 3D fino ai barbecue connessi a tablet (fra i diplomati della Yc si annoverano imprese come Airbnb e Dropbox). Ma, anche se le sue dichiarazioni gettano benzina sul tema bolla, Altman non ne può più degli uccelli del malaugurio. Ha scritto il presidente della Yc sul suo blog: «Quelli che pensano che le start-up siano sopravvalutate sono sempre liberi di farne a meno».