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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

«SCRITTORI E MASSA, È LA TESTIMONIANZA DI UNA SCONFITTA»

Non sembri bizzarro introdurre una conversazione con Alberto Asor Rosa – storico della letteratura e intellettuale che ha attraversato mezzo secolo della sinistra cosiddetta radicale, dall’operaismo dei Quaderni Rossi in giù – con l’attacco che il conservatore Balzac riserva ne La duchessa di Langeais all’aristocrazia della Restaurazione. Uccisa per insipienza dai nuovi padroni borghesi, incapace persino di dotarsi d’un salotto letterario di qualche valore: “Quando la letteratura non ha un sistema generale, non attecchisce e si dissolve col dissolversi del suo secolo”.

Curiosamente, Balzac finì per essere proprio il cantore della monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orleans, perché l’arte e la vita hanno rapporti strani e misteriosi, ma il problema del “sistema generale”, o almeno d’un suo accettabile succedaneo, è arrivato fino a noi. Oggi, per dire, Asor Rosa lo cerca e non lo trova: i furori giovanili di Scrittori e Popolo – attacco da sinistra al populismo coltivato dal Pci nel brodo del gramscianesimo – sono tornati in libreria dopo cinquant’anni anni esatti con una postilla, Scrittori e massa.

L’obiettivo polemico, però, è svanito. Non c’è più il popolo, sostituito dalla massa, non ci sono più il Pci, l’operaismo, la rivoluzione: persino il liberalismo è morto, schiacciato dalla vittoria del capitale.

A livello della letteratura, moribonda anche la critica, quel che resta è una massa di scrittori tra i 30 e i 50 anni alle prese con una miriade di storie senza rapporto con la Storia, schiavi del ritmo di produzione imposto dall’industria, spesso tradizionali nella forma, sempre conservatori quanto alla funzione oggettiva. Il Fatto se n’è occupato, parlandone con scrittori e addetti ai lavori, nelle ultime dieci settimane: la serie si chiude tornando al punto di partenza, Alberto Asor Rosa.

Professore, se come lei scrive la critica è incapace di darsi un senso, la politica indicibile o inutile, allora Scrittori e massa non è solo la fine del mondo letterario d’antan, è anche un segnale di resa: una sconfitta che è anche la sua.

Devo fare una premessa: il mio punto di vista non è così negativo e pessimistico come lo raccontate. Ho cercato di individuare una linea di analisi, di individuare una serie di possibilità. In Scrittori e Popolo il tentativo fu contrapporre alla tendenza populistica gli autori della letteratura grande-borghese; oggi anche se è più difficile, ho puntato l’attenzione su alcuni elementi di approfondimento che pure esistono nella letteratura più recente. Direi che anche il fatto che un signore della mia età, che ha attraversato cinquant’anni di storia culturale e politica, si dedichi con una certa diligenza a esaminare e valutare scrittori trenta o quarantenni segnala che non c’è perdita di interesse. Ciò detto, non voglio eludere la domanda.

Dunque, questo libro è la testimonianza di una sconfitta?

Che nell’autore dei due libri ci sia la testimonianza di una sconfitta lo trovo innegabile. È al tempo stesso la sconfitta di una prospettiva politico-ideologica che nel percorso cinquantennale che ci sta alle spalle ne ha subìte di tutti i colori. La sconfitta c’è: è personale e di gruppo, ma è anche più globalmente una sconfitta storica. Non per enfatizzare, ma se uno ha partecipato con un certo impegno alla gestazione dei vari fenomeni che hanno contraddistinto gli anni Sessanta – dalle lotte operaie a quelle studentesche – trovarsi di fronte l’Italia di Matteo Renzi e dei suoi complici non può non rappresentare un elemento di sconfitta e autocritica. A sostegno della ditta si potrebbe dire almeno che qualcuno non ha smesso di parlare…

Veniamo ai libri. Lei sostiene che gli editori vogliono narrativa, l’unica forma ammessa di letteratura, e questo comporta una sovrapproduzione.

Che ci sia un’urgenza della produzione mi pare evidente: se il narratore contemporaneo deve produrre un libro ogni due anni, le risorse umane, la creatività, l’invenzione, la capacità di riflessione diventano impari rispetto a una macchina così vorace.

Balzac scriveva moltissimo…

Be’, forse la fonte era più poderosa… Anche Dumas ha scritto molto, non tutto allo stesso livello, ma sempre ad un altro livello. Diciamo che è come se oggi il meccanismo avesse rovesciato il suo andamento: la produttività di Balzac regolava i ritmi della produzione editoriale, oggi è la macchina produttiva editoriale che regola la produttività dell’autore.

Lei fa un cenno anche a com’è cambiato il lavoro dello scrittore grazie al computer. Troppo facile fare un romanzo?

Certo che questo conta, ma non solo. In passato poteva accadere che ci fosse un narratore riuscito di un solo libro. Manzoni ha scritto solo I promessi sposi e nessuno gli ha chiesto di scrivere altri romanzi: aiutava il fatto che fosse un rentier, se la cavava da solo e non aveva bisogno di portare a casa i soldi a fine mese.

Si parlava del romanzo. Per quanti se ne pubblicano sembra vivacissimo, mentre la sua morte come forma negli anni Sessanta era un fatto assodato. Un solo esempio: Fratelli d’Italia di Arbasino.

È un fatto singolare e vero. Arbasino, certo, ma anche Italo Calvino. L’estenuazione e la dissoluzione della forma romanzo in Calvino arriva a livelli impensabili solo trent’anni prima: Le città invisibili, Se una notte d’inverno… Anche Petrolio di Pasolini è in definitiva un tentativo di svuotare la forma romanzo. Tutto questo processo arriva alla metà degli anni Ottanta: quando i più giovani ricominciano, nei Novanta, riprendono la vecchia forma romanzo. È più tradizionale Veronesi di quanto non sia Calvino, è più tradizionale Lagioia di quanto non sia Gadda. Il Novecento ha fatto fino in fondo il percorso fuori e oltre la forma romanzo, mentre – con qualche eccezione – oggi la scelta è la forma tradizionale.

Fin dal suo debutto, nel Seicento, il romanzo si sviluppa in rapporto con il gusto borghese: forse oggi muore – o non parla più alla Storia – perché anche la borghesia muore.

La domanda è complicata, ma la questione è giusta. Una controprova positiva di questo si potrebbe avere nel fatto che, secondo me, la narrativa più convincente e risolta oggi è quella anglo-americana, dove la genesi borghese e il rivolgersi a un pubblico borghese sono due fatti innegabili. In Italia il vincolo è assai più labile, ma nell’ultima ondata narrativa è indubbio che c’è la ricerca, anche faticosa, di radici e interlocutori che siano più legati a questa famosa tradizione borghese.

Nomi?

Ad esempio Mazzucco e Lagioia, ma anche altri, nei loro romanzi più riusciti sono evidentemente alla ricerca di questa interlocuzione: raccontano la decadenza e il degrado di quel mondo e al tempo stesso non possono fare a meno, in un certo senso, di rivolgersi a lui, di attraversare questa perdita cercando di restituire i simulacri di interlocutori che sul piano sociale e culturale si sono perduti.

In Scrittori e massa parla molto bene di Gomorra come tentativo di uscita dallo storytelling e ritorno alla Storia. Una soluzione, però, non si vede: forse a colpi di 50 titoli l’anno (“ma il calcolo è per difetto”) muore anche la critica?

Effettivamente una linea di tendenza che accomuni più autori non c’è: le ricerche si sono individualizzate, ciascuno cerca verità e invenzione usando mezzi che sono peculiarmente suoi. Per questo ho parlato di “atomismo individualistico”: non ci sono gruppi, non ci sono tendenze, non ci sono centri di elaborazione collettiva che integrino scrittori, critici, intellettuali e così via. Qualcosa accade con la rivista di Goffredo Fofi, Lo straniero, ma nulla a che vedere col panorama anche solo di cinquant’anni fa. In questa situazione non ho nessun motivo di nasconderlo, c’è una estrema difficoltà a orientarsi nella critica: è come se ci si trovasse di fronte a un caleidoscopio con decine e centinaia di ipotesi e suggestioni.

Antonio Pascale ha sostenuto che il suo è un problema di distanza: dovrebbe alzare lo sguardo e così vedrebbe l’intero quadro.

Pascale è uno scrittore molto intelligente, ma in quell’intervista a un certo punto dice: “Non scriviamo per Fofi o Asor Rosa”. E chi l’ha chiesto? La critica mica è la richiesta che lo scrittore si assoggetti, è un’operazione di scambio. Quanto alla distanza, al saper vedere, forse Pascale ha ragione, fatto sta che io quelle analogie non sono riuscito a vederle. Resta che la lotta dello scrittore che cerca la sua strada fra la miriade di ostacoli e occasioni che gli si frappongono è solitaria: l’individualità del conflitto prevale.

Per Franco Cordelli, il problema è che ormai il pubblico dei narratori sono gli stessi narratori: tutti i lettori hanno un romanzo nel cassetto o potrebbero avercelo.

Be’, questo riguarda anche me ormai, visto che da qualche anno anch’io scrivo narrativa. Cordelli è uno scrittore intelligente e avveduto, anche se è di un’altra generazione rispetto a quelli di cui mi occupo. Non so dire se abbia ragione: è un dato di fatto, però, che il pubblico dei lettori sia enormemente diminuito. L’uso degli strumenti informatici ha paradossalmente dato il colpo di grazia al processo di alfabetizzazione che con enorme fatica si era compiuto nei primi due o tre decenni del Dopoguerra.

E quali sono le conseguenze?

Se l’utenza si restringe, ovviamente il rapporto della letteratura con la società tende a diventare meno produttivo. C’è una singolare contraddizione: l’industria editoriale spinge a scrivere sempre più narrativa, e quindi a produrre sempre più narratori, mentre il mercato dei lettori si riduce, per cui la moltitudine dei narratori corrisponde a un bacino sempre più limitato di lettori. Mancano, contemporaneamente, quei punti di riferimento, di sostegno ai processi della lettura, che erano le grandi tendenze culturali e ideologiche e politiche, dal comunismo al cattolicesimo, al liberalismo… Se tutto questo esce di scena, il narratore, poveretto, che fa?

Fa Francesco Piccolo…

Piccolo non è affatto male, è anche simpatico, ma è la riduzione grottesca di una fenomenologia che io considero tragica. Lui ci ride sopra e gli va anche bene…

Gianni Ferrari, vicepresidente di Mondadori Libri, l’ha messa giù dura: editoria e letteratura non sono la stessa cosa, non è compito dell’editore fare ricerca letteraria.

Ferrari è simpaticissimo e gioca a fare l’editore, quindi tutto ciò che costituisce un richiamo alla possibilità che anche una casa editrice stimoli ricerca letteraria lo trova in disaccordo. Però, l’intervista al Fatto la conclude così: elenca una serie di categorie di editori e finisce dicendo che “ci sono editori che pensano, più umilmente, di fare un’attività mista, che in parte è industriale, in parte è scoperta, in parte esplorazione di ciò che bolle nel pentolone del mondo. A me diverte più l’ultima perché mi piace mettere il naso nel pentolone”. Ma allora l’editoria ha a che fare con la ricerca! Lo dice lui, è lui che smentisce che l’editoria sia solo industria e profitto. Chi potrebbe negare che Giulio Einaudi, nonostante la sua tendenza a realizzare soluzioni fallimentari, facesse l’industriale? Ma se le cose stanno come dice, perché non dovremmo essere d’accordo col grande editore Ferrari attento solo ai profitti? L’industria editoriale è anche ricerca letteraria.

Il critico Andrea Cortellessa ha buttato lì che in Scrittori e massa lei si occupa di troppi autori Einaudi, suoi colleghi di casa editrice.

Non ho fatto conteggi, ma non credo: comunque parlando di narrativa e poesia è difficile non occuparsi di Einaudi…

Ancora Cortellessa: queste cose si dicono da anni, l’analisi di Asor Rosa arriva troppo tardi, quando i buoi sono già scappati.

Questa non la capisco: i poveri critici storici arrivano sempre a cose fatte. Anche Scrittori e popolo alla prima riga dell’introduzione recita: “Il populismo è morto e io spiego perché”. Vabbè, diciamo che sono uno che arriva tardi e la chiudiamo qui.

Dei poeti, invece, parla molto bene. Pare che l’unico rifugio della letteratura sia la lirica: ancora una fuga dalla Storia.

Do qualche spiegazione: una di queste è che la poesia non ha mercato, quindi le regole e le pulsioni che derivano dall’essere nel mercato e dover assolvere alcuni compiti di profitto la lirica non ce li ha. I poeti scrivono quello che vogliono e come vogliono: questa maggiore libertà creativa approda a risultati individuali anche di alto livello. A parte Valerio Magrelli – che è una certezza acquisita – se devo fare un esempio dico che anche Aldo Nove tra gli ultimi mi ha molto colpito, forse anche per motivi personali: in Addio mio Novecento c’è una percezione del mutamento, del passaggio, che nei narratori si avverte meno. Forse anche la presenza predominante dell’elemento femminile in poesia è significativa: le donne vanno più facilmente in quella strettoia, mentre il maschio cerca il successo.

La poesia, però, non ha lettori: a livello editoriale è quasi scomparsa.

Sopravvive perché ci sono due collane e qualche cespuglio sparso nell’editoria minore: Ferrari giura che Lo Specchio, quella di Mondadori, non chiuderà, ma stenta; la bianca dell’Einaudi ha diminuito i titoli e la tengono in piedi per motivi di facciata. Dovessero sparire, non so che ne sarebbe dei poeti italiani.