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 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

La Destra al governo dopo Cavour e il problema della Sicilia

La documentazione delle disavventure del dottor Galati alle prese con la mafia dell’Uditore non fu lasciata a dormire in un cassetto, ma fu inclusa nelle carte consegnate a una commissione parlamentare d’inchiesta in piena regola sullo stato dell’ordine pubblico in Sicilia. Istituita nell’estate del 1875, la Commissione presentò le risultanze del suo lavoro soltanto nel 1877. La storia dell’inchiesta parlamentare – la prima espressamente dedicata alla mafia – mostra chiaramente l’estensione delle conoscenze della classe di governo italiana in materia di mafia siciliana. Essa è inoltre parte di un assai più vasto dramma politico che si svolse tra il 1875 e il 1877, e da cui si ricava che il sistema politico italiano non soltanto non combatte la mafia delle origini, ma contribuì attivamente al suo sviluppo. La mappa della politica italiana dopo l’Unità aveva un po’ l’aspetto della mappa di Palermo: un labirinto di vicoli entro la semplice cornice delle strade principali. Nei quindici anni successivi all’unificazione, l’Italia fu governata da una coalizione a maglie larghe detta la Destra, il cui nucleo centrale era costituito dai proprietari terrieri conservatori del Settentrione. L’opposizione, un raggruppamento ancora meno compatto detto la Sinistra, che aveva le sue roccaforti nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, favoriva un aumento della spesa pubblica e più democrazia. Ma le differenze tra le due coalizioni erano non meno culturali che politiche. La Destra aveva spesso l’impressione (va detto, non senza giustificazioni) che molti deputati meridionali e siciliani dovessero la loro elezione alla politica delle clientele e a macchine elettorali che ricompensavano i sostenitori e intimidivano gli avversari. Agli occhi della Sinistra, la Destra appariva altezzosa e ipocrita; aveva tradito gli ideali che avevano condotto alla fondazione dello Stato italiano, e gravemente trascurato il Mezzogiorno. La storia dell’inchiesta parlamentare comincia nel 1874, in un momento in cui la coalizione della Destra cominciava a imbattersi in grossi guai. E la causa principale delle difficoltà del governo era la Sicilia, dove la Destra aveva sempre contato ben pochi sostenitori. Per parecchie ragioni (in cima alla lista c’era la politica fiscale), nel 1874 la Sicilia stava ormai sfuggendo completamente al controllo politico della Destra. Nelle elezioni svoltesi nel novembre di quell’anno, quaranta dei quarantotto collegi siciliani invitarono alla Camera, deputati dell’opposizione. Tra i grandi timonieri della campagna elettorale della Sinistra troviamo Nicolò Turrisi Colonna, un esperto della «setta», assistito in questo compito da Antonio Giammona, il suo boss mafioso prediletto nonché il persecutore del dottor Galati. A Roma, dopo le elezioni del novembre 1874 la Destra restò aggrappata al potere. Durante e dopo la campagna elettorale, fece ricorso a una tattica che aveva già utilizzato in passato: soffiò sul fuoco della questione criminale per screditare l’opposizione. Con toni di un’asprezza mai vista, la Destra accusò i deputati siciliani della Sinistra di voler mimare l’unità del paese, di essere corrotti, di utilizzare i banditi per rastrellare voti, di essere mafiosi. Nel quadro di questa strategia, subito dopo le elezioni il governo propose alcune leggi duramente repressive, alla cui stregua le persone sospettate di appartenere ad associazioni criminali e i loro protettori politici potevano essere tenuti in carcere senza processo per ben cinque anni. Un abbondante e cogente materiale probatorio messo insieme mobilitando i prefetti, i magistrati inquirenti e la polizia fu presentato alla commissione cui spettava l’esame dei disegni di legge. Si sottolineò il fatto che l’anno 1873 aveva visto un omicidio ogni 44.674 abitanti in Lombardia, e un omicidio ogni 3.194 abitanti in Sicilia. Dai rapporti ufficiali risultava che ora la mafia era presente in tutta la Sicilia occidentale, come Messina – un porto di grande importanza per l’industria agrumaria. Le opinioni dei prefetti erano divise sulla questione se la mafia fosse oppure no un’organizzazione unitaria, e sulla natura del ruolo svolto in essa dalla mentalità siciliana. Ma in maggioranza affermavano nettamente che la mafia basava il suo potere sui racket dell’estorsione e sull’intimidazione dei testimoni, e reclutava i suoi affiliati in tutte le classi sociali. Il prefetto di Agrigento era convinto che i mafiosi costituissero un «rango» speciale: Il rango di mafioso lo si acquista dando prova del coraggio personale; portando armi proibite; battendosi in duello su un pretesto qualunque; pugnalando o tradendo qualcuno; fingendo di perdonare un’offesa per vendicarsi poi in un altro momento o in un luogo diverso (vendicare personalmente le offese ricevute è la prima legge del codice della mafia); mantenendo un silenzio assoluto riguardo a un certo delitto; negando davanti a tutte le autorità e magistrati di essere a conoscenza di crimini di cui si è stati diretti testimoni; deponendo il falso per assicurare l’assoluzione del colpevole; ingannando e raggirando in tutti i modi possibili. L’equilibrato e ben informato corrispondente romano del «Times» sfogliò una parte di questo materiale, e la sua allarmata conclusione fu che la mafia era «una setta intoccabile la cui organizzazione è altrettanto perfetta di quella dei gesuiti o dei massoni, e i cui segreti sono ancor più impenetrabili».1 Rendendo pubblici tutti questi elementi e proponendo la nuova legislazione anticrimine, la Destra compì un estremo tentativo di creare l’impressione che un governo antimafia si trovasse di fronte a un’opposizione amica della mafia. Agli occhi della Sinistra, la Destra stava dandosi la zappa sui piedi. Non soltanto uomini come Turrisi Colonna erano bersagli diretti delle proposte governative, ma si sentirono minacciati anche moltissimi proprietari terrieri siciliani che erano in realtà vittime della mafia. Fin dall’Unità avevano sperato – sempre invano – che il governo li aiutasse a liberarsi dalla morse della criminalità organizzata. E ora che, esauritasi la loro pazienza, avevano votato per i candidati dell’opposizione, scoprivano che per la polizia stavano diventando potenziali bersagli. La scena era pronta per uno scontro politico decisivo tra i due campi. Lo scontro giunse nel giugno 1875, durante un acceso dibattito parlamentare sulle riforme proposte che durò dieci giorni. Una volta aperta la discussione, i deputati siciliani si levarono a parlare uno dopo l’altro per difendere la reputazione della loro isola. Alcuni negarono l’esistenza della mafia: secondo loro, era solo un pretesto per dare addosso all’opposizione. Insisterono sui velenosi pregiudizi antisiciliani esibiti da un prefetto il quale in un rapporto misteriosamente trapelato aveva affermato che i siciliani erano un popolo «moralmente pervertito» che poteva essere governato soltanto usando la forza. Un intervento fece infine da detonatore di una controversia che sarebbe stata ricordata come la più tempestosa dalla fondazione del Parlamento italiano nel 1861. Durante i primi scambi, vari deputati della Sinistra cominciarono a chiedersi a voce alta coma mai un uomo che sedeva in mezzo a loro non fosse ancora intervenuto: Diego Tajani, eletto ne Mezzogiorno, tra il 1868 e il 1872 era stato Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, e sapeva dunque molte cose su come la Destra aveva governato la Sicilia. I deputati della Sinistra lo consideravano la loro arma segreta contro il governo, e le loro allusioni miravano a provocarlo e raccontare ciò che sapeva. Ex servitore dello Stato, Tajani riluttava a parlare di questioni attinenti alle cariche ricoperte in passato; ma alla fine, pugnalato da un lato dai commenti che arrivavano dai banchi della Sinistra, e dall’altro dai tentativi del governo di attribuirsi una superiorità morale in materia di questione criminale, si levò a parlare davanti alla Camera. Il discorso di Tajani cominciò con una frecciata rivolta agli uomini della Sinistra che gli sedevano accanto: negare l’esistenza della mafia – disse - «significa negare il sole»; che essa aveva la consistenza della cosa «che si vede, che si sente, che si tocca». Tajani rivelò che sulla scia della rivolta del 1866 la Destra aveva incoraggiato la polizia a collaborare con la mafia. Sostenne che le autorità avevano lasciato ai mafiosi mano libera in cambio di informazioni su criminali per così dire «abusivi», e su chiunque fosse ritenuto dal governo un sovversivo. Tajani era stato coinvolto personalmente nelle vicende più scandalose, al cui centro stava l figura di Giuseppe Albanese, nominato questore di Palermo nel 1867. Albanese non si faceva scrupolo di ammettere la sua ammirazione per un funzionario borbonico che aveva proposto di «interessa[re] i capi della mafia a tutelare la sicurezza». Era quello che un contemporaneo definì l’approccio «omeopatico» alla questione dell’ordine pubblico. Si trattava di farsi amici i mafiosi e di utilizzarli come procacciatori di voti e agenti di polizia ufficiosi, aiutandoli in cambio a tenere sotto controllo i loro rivali. Nel 1869, spiegò Tajani, il questore Albanese era stato pugnalato da un mafioso in una piazza di Palermo. Emerse che era stato aggredito perché aveva tentato di ricattare il suo assalitore. Albanese aveva inoltre legami con una banda che era penetrata a forza negli uffici della Corte d’Appello, aveva scavato un tunnel sotto una delle strade principali per depredare una cassa di risparmi, e aveva sottratto un certo numero di oggetti preziosi dal museo cittadino. Tutti gli oggetti furono poi ritrovati nella casa di un uomo che lavorava nell’ufficio di Albanese alla Questura di Palermo. Il questore Albanese, affermò Tajani davanti alla Camera, era qualcosa di più del caso isolato di un poliziotto corrotto. Nel 1869, nell’esercizio delle sue funzioni di Procuratore generale, Tajani aveva appreso che a Monreale, nei dintorni di Palermo, i criminali agivano con l’approvazione del comandante della Guardia Nazionale. Poco tempo dopo che la cosa si era risaputa, due malavitosi che sembravano pronti a testimoniare sulla vicenda caddero in un’imboscata e furono assassinati. Malgrado il suo ruolo di questore, Albanese non solo intervenne personalmente per scoraggiare un’inchiesta sul perché e sul come i due erano morti, ma arrivò a dire al magistrato responsabile che «ragioni di ordine pubblico avevano indotto l’autorità ad ordinare la loro morte». Nel 1871, su istruzioni di Tajani, Albanese fu incriminato per l’assassinio degli informatori sulla vicenda di Monreale, ma il questore fu rilasciato per mancanza di prove, e a questo punto il Procuratore, disgustato, s’era dimesso, candidandosi alla Camera sotto le bandiere della Sinistra.2 Prima che riuscisse a completare il suo discorso, Tajani fu rabbiosamente interrotto da Giovanni Lanza, colui che all’epoca della presunta politica di collusione con la mafia era stato Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno; il quale non appena cominciò a sfogare la sua collera per le accuse di Tajani, fu sommerso da grida, esclamazioni di scherno e fischi. Allora i sostenitori dei due contendenti presero a spintonarsi e a scambiarsi insulti, e quella che già prima era una seduta tempestosa precipitò nel caos e bisognò sospendere la seduta. Solo l’indomani Tajani poté svolgere il suo discorso fino alla brutale conclusione: «La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale»3. Avendo riacquistato la calma, Lanza chiese un’inchiesta sulle accuse, ma ormai il danno politico per il governo era fatto. La piattaforma della Destra sull’ordine pubblico era crollata. A questo punto, nessuno poteva ragionevolmente credere che nel Parlamento si fronteggiassero una fazione filomafiosa e una fazione antimafiosa. Per entrambe le parti, la via d’uscita più semplice era lasciar cadere l’intera faccenda. Così quando le leggi repressive furono approvate (erano destinate a rimanere lettera morta), Destra e Sinistra si trovarono d’accordo su quello che è il mezzo prediletto dai politici di tutto il mondo quando si tratta di mettere la sordina a una questione controversa: istituirono una commissione d’inchiesta. La mafia fu beninteso inclusa nell’ambito dell’inchiesta, ma insieme con tanti altri aspetti della società siciliana che l’effettiva fisionomia del problema mafia ne sarebbe quasi certamente uscita sbiadita. Non meraviglia che Franchetti e Sonnino non si aspettassero dall’inchiesta parlamentare risultati convincenti, e decisero quindi di organizzare la loro inchiesta privata. Le persone con cui Franchetti e Sonnino parlarono confermarono il responso degli avvenimenti fatto da Tajani alla Camera. Sappiamo anche che, con il mandato di cattura di Tajani che gli pendeva sul capo, il questore Albanese fuggì dalla Sicilia, e si persuase a tornare soltanto quando l’allora presidente del Consiglio Lanza lo ricevette in casa sua e gli assicurò l’appoggio del governo. Si ritiene inoltre che subito prima delle dimissioni di Tajani fosse in preparazione un attentato per ucciderlo. I nove membri della commissione parlamentare d’inchiesta fecero il loro viaggio in Sicilia nell’inverno 1875-76. Tutte le città gli riservarono un caloroso benvenuto e i loro incontri-interviste si svolgevano nelle sedi dei comuni. Parecchi senatori e deputati utilizzarono l’occasione dell’incontro con i commissari per liquidare la questione criminale, numerosissimi testimoni parlarono del ruolo della mafia nell’industria agrumaria e nelle rivolte del 1860 e del 1866. Prese insieme, tutte queste informazioni delinearono un quadro confuso ma profondamente allarmante della criminalità organizzata e della corruzione politica. La documentazione sulla mafia a disposizione dei politici italiani era ulteriormente cresciuta. La carte dell’inchiesta non furono mai pubblicate. Quando, al principio del 1877, la commissione dovette presentare le sue risultanze alla Camera, la coalizione della Destra era già caduta. Quel tanto di volontà che c’era stato di fare un uso politico della questione mafia s’era ormai dissolto. Né la Destra, né la Sinistra, avevano molto interesse a capire sul serio il fenomeno della criminalità organizzata in Sicilia(così si spiega anche la fredda accoglienza riservata, in quello stesso periodo al rapporto di Franchetti sull’industria della violenza). Il rapporto finale della commissione parlamentare fu presentato a un’aula della Camera quasi vuota. Le sue conclusioni erano al contempo blende e sbagliate: la mafia vi veniva definita come una «solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, della legge e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che preferiscono trarre l’esistenza e gli agi, anziché dal lavoro, dalla violenza».4 In breve, la mafia fu opportunamente liquidata come un branco disorganizzato di miserabili, imbroglioni e scansafatiche, nemici dello Stato piuttosto che «strumento di governo locale». Nel 1877, la classe politica italiana disponeva ormai del grosso delle conoscenze necessarie per combattere la mafia, e di tutte le ragioni di cui aveva bisogno per dimenticare ciò che sapeva.