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 2015  agosto 29 Sabato calendario

LE BANCHE CENTRALI FETICCIO DEI GOVERNI

È stata una settimana di altalena sulle Borse: dai timori di un crac globale innescato dalla Cina al rally degli ultimi giorni. E’ una coincidenza fortunata che la settimana si concluda col simposio della Fed a Jackson Hole. Qualsiasi cosa accada, infatti, sappiamo che la situazione verrà immancabilmente risolta dal deus ex machina: la Fed, la Bce.
Adottando la moneta unica, gli Stati dell’Eurozona si erano dati una banca centrale che perseguiva un solo obiettivo: la stabilità dei prezzi. La politica monetaria è uno strumento potente, non a caso tutti lo invocano, proprio per questo è importante che il mandato del banchiere centrale sia esplicitamente vincolato. Più le decisioni sono discrezionali, e maggiore è l’incertezza.
Oggi, al contrario, si esige dai banchieri centrali massima flessibilità. Agli obiettivi dichiarati se ne sommano di non dichiarati (per esempio, nel caso della Bce, evitare il fallimento della Grecia). L’aspettativa di un intervento salvifico, quale che sia il cadavere da resuscitare, è spesso una profezia che si autoavvera.
A leggere i giornali, pare che l’opinione pubblica sia ormai convinta che con un’adeguata messa a punto dei tassi ci si possa assicurare corsi di Borsa perennemente in rialzo, sulla base dell’idea che quando le Borse hanno il segno più sono «razionali», mentre i ribassi sarebbero «irrazionali».
I mercati sono come dei termometri. Se la temperatura che segnano è alta, bisogna cercare malattia e cura, non mettere il termometro sotto ghiaccio.
La valutazione delle aziende cinesi era basata sulle aspettative di crescita di quel Paese. Per ventiquattro anni, il tasso di crescita del Pil cinese è stato superiore al 7% l’anno. Si è trattato di un processo straordinario, che ha traghettato buona parte della popolazione fuori della povertà. Ciò è stato possibile attraverso una serie di «esperimenti» di riforma, dapprima fortemente voluti da Deng Xiaoping. Il mercato si è fatto largo negli interstizi, sfruttando spazi di libertà concessi poco a poco.
Certo le cose sono molto cambiate. Raccontano Ronald Coase e Ning Wang (Come la Cina è diventata un Paese capitalista) che uno dei primi miliardari cinesi, Nian Guangjiu, fece fortuna coi semi d’anguria tostati. Aveva cominciato come venditore ambulante, rischiando il carcere più volte per «crimine economico» (cioè: per attività economica). Nel 1979, il governo consentì ai disoccupati residenti nelle città di lavorare autonomamente per opere di riparazione, servizi e artigianato: ma assumere dei dipendenti restava proibito. Quando Nian cominciò a reclutare collaboratori oltre la cerchia dei familiari, ci volle Deng in persona per evitargli la galera. Nel 2015 ci sono 213 miliardari cinesi nella classifica di Forbes.
E tuttavia la «transizione cinese» non è certo conclusa. La tutela dei diritti di proprietà è sempre incerta e il settore finanziario rimane sotto il controllo pubblico. La corruzione percepita è elevata, il processo di riforme da anni in fase di stallo.
Il Partito ha cercato di evitare a tutti i costi una frenata, tramite l’espansione del credito. Il debito totale (imprese, famiglie, governo) è praticamente raddoppiato dal 2007 ad oggi. Ovviamente la disponibilità di credito a buon mercato agevola gli investimenti: ma agevola anche quelli poco avveduti (ricordate la bolla immobiliare?).
Le correzioni sono dolorose e i governi preferirebbero evitarle. La «volatilità» impaurisce i risparmiatori. Ma quando c’è «volatilità» significa che gli operatori di mercato stanno facendo scommesse diverse, per pervenire a stime più affidabili. Non è chiaro a nessuno, a priori, se per esempio l’indebitamento privato dei cinesi è «sostenibile» o meno. Così come è possibile che i mercati scontino l’ipotesi di un terremoto politico, in Cina vaticinato da anni: il rallentamento dell’economia prosciugherebbe le sorgenti di consenso del Partito. Che guardacaso risponde «facendo come la Fed».
Parrebbe che la fede nell’infallibilità delle banche centrali sia, fra le idee «occidentali», quella che a Pechino ha più fortuna. Ma siamo sicuri che non c’è problema che un’iniezione di liquidità non possa risolvere, in Asia o in Europa? Il potere delle banche centrali cresce tanto più si chiede loro, comunque, di «intervenire». Sono organismi che godono di ottima reputazione, dove c’è notevole sapienza tecnica, ma indirettamente condizionati dai meccanismi del consenso tramite le pressioni dei governi. La classe politica è ben felice di delegare loro tutto il delegabile. Ne fa con entusiasmo un feticcio. E’ pronta a farne uno spauracchio, se al mago si guastasse la bacchetta magica.
Twitter @amingardi
Alberto Mingardi, La Stampa 29/8/2015