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 2015  agosto 29 Sabato calendario

APPUNTI KILLER USA PER IL FOGLIO

GIUSEPPE GUASTELLA, CORRIERE DELLA SERA 27/8 –
La diretta tv, il video col cellulare, Facebook, Twitter, perfino il vecchio fax: Vester Lee Flanagan ha usato tutti i mezzi per documentare e far sapere a tutti i dettagli più raccapriccianti su come e perché ha ucciso a sangue freddo un’ex collega e un cameraman che stavano realizzando un servizio per la Wdbj7 di Roanoke (Virginia). La professionalità del giornalista si fonde a quella del killer spietato.
In diretta tv da Moneta, alle 6.45 di ieri mattina Alison Parker è all’esterno di un centro commerciale sulla riva del lago Smith Mountain, 320 chilometri a sud-ovest di Washington. Laureata alla James Madison University, 24 anni, da 16 mesi lavora nella tv che copre parte della Virginia. Appassionata di kayak e di teatro, vive da poco con il collega Chris Hurst in vista del matrimonio. Alison sorride a Vicki Gardner, direttrice della Camera di commercio, che le illustra come rilanceranno il turismo sul lago mentre la telecamera dell’operatore Adam Ward, 27 anni, inquadra le acque. Impegnate nella diretta, non si accorgono che da una ventina di secondi alle spalle di Adam, di fronte a loro, si è parato un afroamericano che le fissa che con la mano sinistra armeggia su un cellulare e con la destra impugna una pistola. È il 41enne Vester Lee Flanagan, un ex collega giornalista che alla Wdbj7 andava in video con il nome di Bryce William. Personaggio cupo e violento, licenziato nel 2013 per i troppi scatti di ira, Flanagan attende qualche secondo, quando l’obiettivo di Ward torna su Parker e Gardner, e i telespettatori possono vedere a tutto schermo, preme il grilletto 15 volte. La prima ad essere colpita è la ragazza, che prova lo stesso a fuggire, urla, implora «Oh mio Dio». Altri proiettili feriscono la Garner, poi è la volta del cameraman che muore senza un lamento, mentre la telecamera continua a filmare in diretta catturando l’immagine dell’omicida poco prima che la tv chiuda, bruscamente, il collegamento lasciando la conduttrice in studio terrorizzata e senza parole, come i telespettatori.
Si sa subito chi è l’uomo che è fuggito a bordo di un’auto grigia, perché sul luogo della strage ha lasciato un suo documento, ma non si saprà mai se lo ha fatto apposta. Mentre la polizia gli dà la caccia, Bryce Williams realizza il suo reportage twittando: «Alison ha fatto commenti razzisti»; «L’hanno assunta dopo questo?»; «Adam mi si è rivoltato dopo aver lavorato con me una volta!!!»; L’ultimo tweet è il più incredibile: «Ho filmato la sparatoria guardare Facebook», prima che l’account venga bloccato. È vero, su Facebook c’è l’intero video ripreso dalla visuale dell’assassino, una prospettiva che lo fa sembrare un macabro videogame. Subito dopo spedisce un fax di 23 pagine al network tv Abc , che lo gira alla polizia, scrivendo che a farlo impazzire sono stati nove morti a giugno nella chiesa di Charleston frequentata da afroamericani, farnetica di essere stato vittima di discriminazioni razziali, di molestie sessuali e di mobbing. Anche se cancellate si leggono anche frasi come: «Sui miei proiettili ho inciso le iniziali delle vittime», «Volete una guerra razziale? Prendete questo, Bianchi».
L’epilogo di una tragedia umana, prima che mediatica, si compie sulla sull’interstatale 66 con l’auto inseguita dalla polizia che va fuori strada senza controllo. Flanagan-William si è suicidato sparandosi alla testa.
Giuseppe Guastella

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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 27/8 – 
Al killer non bastava avere due nomi. Bryce Williams e Vester Flanagan. Voleva fama. Così ha impugnato una pistola per uccidere due ex colleghi, Alison Parker e Adam Ward. Ed ha filmato l’agguato, poi postato su Internet. Un comportamento da terrorista, spesso condiviso dagli sparatori di massa americani. Per essere ricordati — e diventare un modello — registrano l’azione, cercano pretesti per giustificare crimini.
Williams ha fatto tutto questo, scrivendo anche un manifesto di 23 pagine spedito alla rete Abc dove sostiene di aver agito in rappresaglia alla strage nella chiesa afro-americana di Charleston: «Dio mi ha ordinato di farlo».
L’omicida, 41 anni, non è sbucato all’improvviso. È sempre stato un tipo difficile, ovunque è andato ha creato problemi. A sentire la sua versione era «razzismo». Nel 2000 aveva denunciato un’emittente della Florida sostenendo che lo avevano discriminato arrivando a chiamarlo «scimmia». Causa finita in nulla. Da allora ha girato parecchio attraverso gli Usa. Nel suo curriculum ci sono passaggi in radio-tv a San Francisco, Florida, Texas, Georgia, North Carolina e in Virginia. Nel 2012 è stato assunto alla stazione WDBJ7, quella dei reporter assassinati. Ma non è durato molto. Lo hanno messo alla porta con l’aiuto della sicurezza.
I colleghi non ne hanno un buon ricordo. «Un uomo arrabbiato...Non era facile lavorare con lui...È stato coinvolto in molti episodi sgradevoli ...Era strano, sembrava lo scemo del villaggio...Si sentiva perseguitato». Una personalità difficile, incapace di interagire con gli altri e ossessionato dalla questione razziale. «Non parlava d’altro», ha aggiunto un giornalista per nulla sorpreso che nell’ultimo messaggio Williams abbia tirato in ballo ancora il razzismo sostenendo che la povera Alison lo avrebbe insultato.
Le manie dell’omicida hanno spesso trovato spazio sui social network. Una presenza continua lungo un sentiero che ha portato lo sparatore sulla stessa strada di altri «folli» americani. Uniti dall’uso del web per propagandare le loro gesta. Williams nel manifesto inviato all’ Abc cita, non a caso, Seung Hui Cho, lo studente d’origine sudcoreana responsabile della strage al Virginia Tech, uno dei primi a diffondere un video per spiegare la carneficina.
L’assassino lo definisce una fonte di ispirazione, capace di superare in numero di vittime quelli di Columbine. Tutti convinti che i loro guai fossero causati dagli altri, decisi a diventare noti con il sangue del prossimo. Per questo sarebbe importante non chiamarli più con il loro nome.

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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 28/8 –
I killer di massa sono dei pianificatori. Preparano il terreno come fosse una battaglia. Si caricano di rancore. Studiano i nemici, reali o creati nella loro mente malata. È come se si considerassero dei guerrieri, in lotta con il mondo che li circonda.
Bryce Williams, alias Vester Flanagan, l’omicida che ha ucciso Alison e Adam, i due giornalisti in Virginia, è venuto da lontano anche se ha cercato pretesti recenti. Nel documento-manifesto spedito all’emittente Abc ha cercato di collegare il suo gesto al massacro nella chiesa di Charleston. E in effetti ha acquistato — regolarmente — due pistole un paio di giorni dopo quel massacro. Perché, ha spiegato, voleva agire come un angelo vendicatore, per punire i razzisti e quanti lo avrebbero discriminato per il colore della pelle. Una carta usata come arma nelle liti infinite con i suoi capi. In apparenza scuse come le «voci» che diceva di sentire e gli atti di bullismo che avrebbe subito dai colleghi nelle tv dove ha lavorato, dalla California alla Florida.
L’assassino ha riempito, fin dal 2000, papelli di denunce, ha consultato avvocati, intentato azioni legali, convinto di essere una vittima. Un lungo periodo dove Williams ha trasmesso all’esterno il suo malessere, i suoi problemi. Gesti spesso inaccettabili, considerati come la conseguenza di un carattere difficile ma che invece dicevano parecchio sull’uomo. Ne sono convinti medici e psichiatri, esperti di questioni criminali: come per molti episodi, dal liceo di Columbine all’elementare di Newtown, c’erano i segnali. Solo che sono stati trascurati. Una conseguenza di un sistema sanitario che non è in grado di seguire queste forme di malattia, di un approccio sociale che tende a ignorare le bombe a tempo. Restano fuori, li considerano degli «isolati», salvo poi sorprendersi quando esplodono. I commenti di queste ore sulla diffusione dei revolver e sui malanni della psiche sono identici, stantii, retorici. Tutti sanno, pochi vogliono fare. Vorrà dire qualcosa se un gran numero di questi assassini ha potuto acquistare, senza problemi, una Glock o la copia di un fucile d’assalto. Hanno superato i labili controlli federali non strutturati per impedire che il disturbato si faccia l’arsenale.
Williams era convinto di essere bravo nel suo mestiere ma non lo era. Se lo hanno cacciato o lasciato andare via da tante redazioni è per due ragioni. Litigava spesso e quando lo mandavano sui servizi non era il massimo. All’emittente WDBJ7, la stessa delle due vittime, i colleghi si sentivano minacciati. La direzione era stata costretta a scrivere una lettera di richiamo minacciando il licenziamento. Inoltre lo avevano sollecitato a curarsi e ad essere più professionale: «Era un registratore umano e non un reporter». Pressioni inutili. Nel febbraio 2013 hanno interrotto il contratto. Evento chiusosi in modo traumatico con l’intervento della polizia per portarlo fuori dagli uffici. Lui aveva reagito con la consueta aggressività. Ad uno dei dirigenti, Dan Dennison, aveva dato una piccola croce in legno dicendo: «Ne avrai bisogno».
Il killer, quel giorno, ha aperto il nuovo fronte contro l’ultimo nemico. Ed ha atteso il suo momento, per creare la notizia d’apertura, per essere lui stesso la notizia imitando terroristi e altri stragisti. Aveva l’asso nella manica, una sorpresa: l’attacco in diretta, come un terrorista. Quando sono arrivate le prime immagini dell’agguato nessuno ha pensato all’ex giornalista. È stato un fotografo, rivedendo il filmato, a riconoscerlo: «Ma questo è Vester». Ormai era troppo tardi.

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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 27/8 –
Un’intervista in diretta televisiva, una come tante trasmesse «on air» sul piccolo schermo, si trasforma nella scena di un doppio assassinio, dove si consumano gli ultimi istanti di vita di una giovane reporter e del suo operatore. Un episodio di violenza a mano armata, l’ennesimo, che rilancia, con la dovuta prepotenza, il dibattito sul «far west» di fucili e pistole negli Stati Uniti.
Il misfatto si è consumato in Virginia, a Bridgewater Plaza per la precisione, nei pressi della cittadina di Moneta, intorno alle 6.45 di ieri. Alison Parker e Adam Ward, della troupe televisiva di «Wdbj», affiliata della «Cnn» e della «Cbs», sono in diretta per una trasmissione sul turismo locale, loro ospite è Vicki Gardner, direttrice della Camera di Commercio locale.
Le immagini dell’intervista rimbalzano in tempo reale nello studio dell’emittente dove alla conduzione c’è Kimberly McBroom. Ad un tratto, tra luci e ombre del primo mattino, spunta un uomo, è alle spalle della troupe, ma nessuno ci fa caso sino a quando non si sentono ripetuti colpi di pistola, sei o sette, accompagnati dalle urla della conduttrice e della sua ospite che tentano di mettersi al riparo dalla pioggia di fuoco.
Le immagini ondeggiano, si fermano per alcuni istanti sull’attentatore, vestito di scuro con in pugno la pistola. Poi la telecamera cade e il video resta fisso sul pavimento, l’operatore è stato colpito, cosa sia accaduto intorno a lui rimane ignoto, mentre in studio McBroom interrompe la diretta sotto choc. La trasmissione riprende con il drammatico annuncio: «Alison Parker e Adam Ward sono stati uccisi».
Una vendetta razziale?
Vicki Gardner è stata invece ferita alla schiena ed è stata trasportata in ospedale dopo l’intervento di polizia e ambulanza: operata d’urgenza è in condizioni stabili. Su tv e Internet rimbalzano quelle ultime immagini drammatiche, mentre il mistero sembra avvolgere quel gesto di follia omicida.
«È stato un terribile crimine contro due giornalisti eccellenti», commenta a caldo il direttore generale di «Wdbj», Jeff Marks, mentre su Twitter, la redazione scrive: «Vi amiamo, Alison e Adam». Scatta la caccia al killer. Alle forze dell’ordine serve poco tempo per identificarlo e capire che si tratta di un omicidio consumato nello stesso ambiente di lavoro. L’omicida è, infatti, Vester Flanagan, 41 enne afroamericano conosciuto col nome di Bryce Williams, pseudonimo utilizzato «on air».
Un collega delle due vittime, un ex dipendente della «Wdbj», licenziato da qualche tempo e probabilmente alla ricerca di vendetta. Sembra che l’uomo avesse avviato una causa alla tv per discriminazione razziale. E proprio l’elemento razziale sembrerebbe aver spinto il killer a sparare, dato che in un documento inviato all’emittente «Abc» avrebbe motivato il gesto come una vendetta della strage nella chiesa di Charleston, dove il 17 giugno furono assassinati nove afroamericani. Dopo aver ucciso i due giovani colleghi fugge a bordo di un’auto, ma la polizia lo raggiunge sulla Interstate 66, una delle principali arterie stradali che collegano lo Stato alla capitale Washington DC. Durante la folle fuga va fuori strada e per non cadere nelle mani degli agenti si spara. Trasportato in ospedale muore poco dopo.
L’uomo, su Twitter, prima di suicidarsi ha spiegato il suo gesto e ha scritto: «Ho filmato la sparatoria, guardate su Facebook». Immediatamente il suo account è stato sospeso e il video cancellato, ma chi lo ha visionato racconta di una vera e propria esecuzione. Sia Alison che Adam erano fidanzati con colleghi. «Un altro esempio tragico di violenza, ora serve approvare la stretta sulle armi da fuoco», avverte il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest.

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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 28/8 –
Ieri mattina alle 6,45, 24 ore esatte dopo l’omicidio in diretta tv della giornalista Alison Parker e dell’operatore Adam Ward, l’emittente Wdbj ha osservato un minuto di silenzio, sempre «on air». È stato il modo per ricordare i due colleghi uccisi da un ex dipendente della tv, Vester Lee Flanagan, licenziato da qualche tempo, autore di una folle vendetta trasversale, il cui epilogo è stato il suicidio dello stesso attentatore.
Nel «day after» dei fatti di Moneta, in Virginia, (in cui è rimasta anche ferita Vicki Gardner ospite della trasmissione di Parker e Ward) a dominare è lo sgomento, ma anche cordoglio, tristezza e sdegno, sentimenti che si leggono chiari sul volto di Andy Parker, padre di Alison, che pur non trattenendo le lacrime in tv, ricorda la figlia e annuncia che inizierà la sua battaglia contro le armi da fuoco. «Sarà la missione della mia vita, non lascerò cadere l’attenzione, dobbiamo fare qualcosa per quei pazzi che ora sono in possesso di armi», ha detto. Poi si è rivolto al governatore della Virginia, Terry McAuliffe: «Sono con te. Non è l’ultima volta che sentirete parlare di me, si tratta dell’eredità di Alison».
L’uomo ha poi affermato che chi al Congresso blocca la stretta sui controlli delle armi «deve vergognarsi». Poco prima era stato Barack Obama a intervenire dicendo di avere «il cuore spezzato». Il Presidente ha spiegato anche che il numero di persone che in America muore a causa delle armi da fuoco «è molto superiore a quello delle vittime del terrorismo».
Intanto emergono nuovi particolari sul killer: Flanagan - che in trasmissione usava lo pseudonimo di Bryce Williams - aveva frequenti scatti di ira contro i colleghi, e usava un «linguaggio del corpo aggressivo» contro di loro. È quanto rivela un memo interno della Wdbj, assieme ad alcune lettere di richiamo inviate nel 2012 a Flanagan quando lavorava per la tv locale, in cui gli viene chiesto e poi imposto dai dirigenti di rivolgersi a un medico per il suo grave problema di comportamento. Nel luglio del 2012 la richiesta dell’azienda era diventata «obbligatoria» e nel caso in cui Flanagan si fosse ancora rifiutato ancora sarebbe scattato il licenziamento, che è arrivato poco dopo.
E ieri a farsi sentire è stata anche la famiglia dello stesso killer attraverso un suo rappresentante: «È col cuore pesante e profonda tristezza che esprimiamo le nostre condoglianze più sincere alle famiglie di Alison Parker e Adam Ward, le nostre preghiere vanno a loro e alla guarigione di Vicki Gardner».

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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA 27/8 –
Bridgewater Plaza, Virginia: un nuovo simbolo dell’orrore. L’assassinio in diretta tv, “live”, poi amplificato e rivendicato su Twitter, Facebook dallo stesso omicida. Nell’escalation della violenza a cui l’America si sta abituando, quello che accade all’alba di mercoledì segna una nuova soglia. Sono le 6:45 quando la reporter Alison Parker, 24 anni, sta facendo un’intervista ad una dirigente della Camera di Commercio locale; filmata dal suo cameraman Adam Ward, 27 anni. È il Tg del mattino sulla rete locale Wdbj7 affiliata a Cbs, il notiziario che le famiglie guardano a colazione, prima di andare al lavoro e a scuola. I telespettatori non possono immaginare cosa stanno per vedere; i giornalisti ignorano che sarà la loro ultima volta.
L’orario di quell’intervista è noto a Vester Lee Flanagan, un ex collega che ha lavorato anche lui per la stessa emittente locale. Si avvicina, impugna una pistola Glock, spara a pochi metri di distanza, a bruciapelo. La Parker sta andando in onda in quel momento. Le prime battute dell’intervista sono già state trasmesse, quando i telespettatori sentono otto colpi di pistola, le grida di terrore della giornalista, poi l’immagine vacilla: la telecamera è caduta a terra con Ward. Sono i colleghi in studio, inorriditi, a dare l’annuncio: «La reporter e il cameraman sono morti. L’intervistata è ferita».
Poi lo spettacolo continua: sui social media. Non contento di avere invaso il teleschermo con la sparatoria ripresa in diretta tv, Flanagan si è anche auto-ripreso col suo smartphone. Freddamente: la mano destra impugna la pistola e fa fuoco, la sinistra impugna lo smartphone e filma tutto. È il selfie dell’atrocità. Immagine nitida, il braccio puntato, l’arma, la vittima.
Poche ore dopo, mentre la polizia della Virginia ha scatenato la caccia all’uomo e Flanagan è in fuga, lui trova il tempo per l’auto-pubblicità sui social media. Via Twitter dà l’annuncio: «Ho filmato la sparatoria». Dà il link con il suo video, visibile su Facebook. 56 secondi di filmato, un’eternità, per gustarsi la morte degli altri e magari riderci sopra. La giustificazione: «Parker aveva fatto dei commenti razzisti su di me. L’hanno assunta per quello?». Twitter cancella dopo un po’ il suo account. Ma quel messaggio lo hanno visto milioni di americani.
Con il nome d’arte di Bryce Williams, l’afroamericano Flanagan aveva lavorato quasi un anno come reporter della Wdbj7.
Un manager di quella emittente locale, Jeff Marks, lo ricorda «irascibile, collerico, un brutto carattere». Fu licenziato in tronco, «accompagnato all’uscita dalle guardie di sicurezza». Presentò una denuncia contro l’azienda, alla Equal Employment Opportunity Commission: dentro quel ricorso altri dettagli sulle sue accuse di presunto razzismo, e i suoi rancori. Poi si scopre la “pista di Charleston”. In un fax di 25 pagine mandato alla tv Abc due ore prima della sparatoria, lui si diceva indignato per la strage di Charleston (nove neri uccisi in una chiesa da un suprematista bianco) e descriveva se stesso come «una polveriera pronta a esplodere… boom!».
L’odissea di Williams-Flanagan si conclude nel pomeriggio sull’autostrada Interstate 66. La polizia lo intercetta. Lui si spara. L’annuncio della sua morte viene dato alle otto di sera locali. Esce un dettaglio macabro sull’altra vittima della sua furia. Il cameraman Adam Ward si era iscritto nel 2007 all’università di Virginia Tech: che quell’anno fu teatro di una delle più gravi stragi americane, una sparatoria con 32 morti. Ward di recente aveva commemorato quella strage con un’immagine di lutto. Su Facebook.
Una delle prime reazioni viene dal governatore della Virginia, Terry McAuliffe, che chiede «controlli sulle vendite di armi». Per la precisione invoca i “background checks”, quelle verifiche sui precedenti penali o psichici di un acquirente che si presenta dall’armaiolo. Una proposta minimalista, e che comunque ha poche probabilità di passare. Poco dopo lo stesso appello arriva da Obama. Molte città americane — da New Orleans a Chicago, da Baltimora a Boston — stanno vivendo una recrudescenza di omicidi, e tuttavia la campagna per limitare le armi viene regolarmente sconfitta.
La sparatoria “social” della Virginia rilancia anche le polemiche sulla violenza dilagante in Rete. Ieri almeno Twitter è stato veloce a chiudere l’indirizzo dell’assassino. I cui tweet però sono rimasti ben visibili, ormai immortalati per sempre in forma digitale su migliaia di altri siti. Un incoraggiamento per l’emulazione? La morte dei giornalisti in diretta fa il giro del mondo, “apre” i siti d’informazione di cinque continenti.
Ma la vicenda di Flanagan- Williams colpisce gli americani anche per la sua banalità. «In quanti uffici, in quante aziende — si chiede la Fox-News — ci sono individui come lui, che stanno rimuginando qualche torto subito? Come si fa a individuarli?». Ma il disagio, le auto-censure, l’imbarazzo, si estendono ai social media. Convertiti in una diabolica cassa di risonanza per aggressioni, odio, paranoia. Per lo più verbali, di solito. Fino a diventare stavolta il self-marketing di un assassino.

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VITTORIO ZUCCONI, LA REPUBBLICA 27/8 –
In una perfetta composizione di tutto ciò che di tragico e di demenziale fermenta nel ventre della società contemporanea ed esplode in America più che altrove, l’omicidio a freddo di una giornalista e di un cameraman in Virginia racconta il tempo della follia esibizionista globale.
Ci sono, negli otto colpi di pistola sparati da un ex reporter afroamericano di una stazione tv locale in Virginia, a poche ore di strada dalla capitale Washington, tutti i pezzi del mosaico impazzito: la televisione, la Rete, i selfie, i social, il razzismo, la diretta, il narcisismo criminale, la paranoia, in un quadro che si completa con l’immancabile arma da fuoco. E appare quasi paradossale che, per un delitto mediatico di questo genere, in America si sia scatenato un dibattito sull’opportunità di mostrare o meno il video integrale.
A parte vaghe accuse di “razzismo” contro una delle due vittime dello sparatore, la (inevitabilmente) bionda e giovanissima reporter della stazione Wdbj7 Alison Parker, appena 24enne, e il suo cameraman Adam Ward, l’omicidio trova il proprio vero movente nella convergenza di tutti gli elementi che i delitti di questo tipo cercano. La pubblicità. L’intervista alla direttrice della Camera di Commercio su un nuovo shopping center durante un telegiornale, dunque un classico servizio di “bianca” da giornalismo locale senza speciali rilevanze e senza rischi, era in diretta, controllato dallo studio centrale, garanzia che la sequenza sarebbe stata trasmessa, registrata e rilanciata all’infinito.
Per non correre rischi, l’assassino, lui stesso un ex reporter afroamericano licenziato di recente, ha ripreso il doppio omicidio con lo smartphone per rilanciarlo su Facebook e Twitter e la sequenza mostra come lui abbia cercato, con l’esperienza professionale, la migliore inquadratura per immortalare l’espressione di terrore sbigottito sul volto della povera donna quando lei capisce.
Dunque lo sparatore, Vester Lee Flanagan in arte Bryce Williams, morto in ospedale dopo avere tentato il suicidio, voleva fare “il pezzo”, il servizio. E farsi giustizia, per il proprio fallimento come reporter, avvolto nella pretesa di combattere il razzismo che sta riaffiorando nelle sparatorie e negli omicidi di polizia.
Tutto si tiene e s’incatena e si alimenta in questo gesto che sarebbe stato, senza il moltiplicatore infinito della nuova ipermedialità assoluta, il crimine non infrequente dell’impiegato rancoroso che si vendica dei propri “persecutori” sparando contro colleghi e superiori. O i delitti del “serial killer” che cerca l’attenzione di un titolo e si crogiola nella paura altrui e nella caccia.
Ma la quantità dell’esposizione globale, calata nel brodo tossico della violenza in bianco e nero che in questo 2015 sta squassando l’America del primo presidente afroamericano, rende esemplare, e specialmente preoccupante, questo delitto.
Tutto si tiene e tutto si collega, nell’universo continuo della medialità assoluta. La teatralità oscena degli sgozzamenti di ostaggi o di nemici, che i macellai dell’Is ostentano, non ha altra motivazione che l’eco immediata che la Rete offre alla loro propaganda e nessun blackout può fermare.
Flanagan, l’assassino di Roanoke che conosceva i vecchi e i nuovi meccanismi della comunicazione istantanea e virale, è un po’ il “Jihadi John della Virginia”, impegnato nella propria vendetta e guerriglia contro il nemico, che lui vede nella donna bionda e bianca, nei boss della stazione che l’hanno espulso dal paradiso artificiale della tv. E al momento di spararsi, dopo avere sparato, Flanagan aveva imboccato l’autostrada 66, che conduce direttamente a Washington, chissà se con altri “show” in mente.
Roanoke, la cittadina di quasi centomila abitanti dove è avvenuto il delitto, è nella Virginia meridionale ai piedi dei Monti Appalachi, quella “terra di mezzo” fra il profondo Sud e il Nord dove il liberalismo dei sobborghi di Washington incontra i risentimenti della mai sconfitta Confederazione.
Qui, in Virginia, si resistette più che in ogni altro Stato americano alla legalizzazione dei matrimoni razziali misti, fino ai tardi Anni ‘60. Non meraviglia dunque se in questa penombra sociale e culturale covi un reciproco odio razziale che può accendere la miccia della follia in una persona già evidentemente disturbata. Ma la domanda che il doppio omicidio impone è, se in assenza di tanta enorme esposizione mediatica, Flanagan avrebbe pianificato, compiuto e ripreso l’assalto.
Come tutti, in America e non solo, anche lui è stato insieme vittima e carnefice della visibilità assoluta. Aveva certamente visto e scaricato le clip che da tempo riprendono gli omicidi di polizia su persone di colore fermate o arrestate.
Anche lui aveva visto in quei morti, nell’arroganza di troppi agenti e dirigenti di polizia, la manifestazione di una prepotenza che la medialità invasiva del nostro tempo ha reso finalmente visibile dopo generazioni di oscuramento. E ha avuto una reazione criminale, insensata, ma anche profondamente americana nella sua demenza, quella di chi pensa di dover “fare qualcosa”, di dover agire da individuo, da persona, nella impotenza o nella indifferenza della collettività, per “make things right”, per rimettere le cose a posto. Prendi la pistola, Flanagan.
Alison, la reporter uccisa in diretta che il fidanzato che da due giorni era andato a vivere con lei ha pianto su Twitter, era stata accusata di razzismo, indagata dalle autorità e scagionata. Ma le colpe dei padri, il male di generazioni, cadono a cascata sul nostro tempo e confluiscono nell’oceano globale e tentatore del narcisismo assassino.

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FARHAD MANJOO, LA REPUBBLICA 28/8 –
Da un certo infelice punto di vista, non c’è stato niente di nuovo e nemmeno di molto insolito nell’uccisione in diretta di due giornalisti mercoledì mattina in Virginia. La morte in diretta ricorre con raccapricciante regolarità dall’avvento stesso della televisione, basti pensare ai casi di Jack Ruby che spara a Lee Harvey Oswald, l’assassino del presidente John F. Kennedy nel 1963; e ovviamente l’11 settembre 2001. La probabilità che la morte si affacci all’improvviso dai nostri teleschermi è tanto ordinaria quanto macabra. Eppure, da un altro punto di vista, il filmato della sparatoria in Virginia caricato da Bryce Williams – il cui vero nome è Vester Lee Flanagan, l’assassino che ha ucciso due suoi ex colleghi dell’emittente televisiva WDBJ7 – rappresenta un’atroce svolta nell’era della condivisione online e dell’onnipresente documentazione video. Gli omicidi, infatti, sembrano essere stati sapientemente studiati per riscuotere la massima diffusione su Twitter, Facebook e la telefonia mobile e, di conseguenza, seminare il massimo terrore possibile. Il filmato di Flanagan mostra un’esecuzione ravvicinata in prima persona. Il video è stato caricato soltanto dopo che i suoi account sui social media sono diventati noti, mentre la polizia era alla ricerca dell’assassino. E, a differenza delle morti in diretta trasmesse in precedenza, queste non sono state semplicemente mandate in onda, ma sono state distribuite online in modo esteso e virale, sfruttando la complicità di migliaia, forse addirittura milioni, di utenti dei social che non hanno potuto fare a meno di guardare il filmato e condividerlo.
L’orrore sta nel fatto che il killer aveva anticipato ogni mossa, e che contava proprio sulle dinamiche dei social e sulla nostra incapacità a resistere alla tentazione di guardare quello che aveva postato. Per alcuni questa presa di coscienza è arrivata troppo tardi. Il killer sapeva bene che quando sei su un social network spesso pigi retweet, like o share prima ancora di renderti pienamente conto di quello che stai facendo. Twitter e Facebook si sono subito dati da fare per oscurare gli account di Flanagan, ma non abbastanza rapidamente. Quando la sua presenza social è sparita, il filmato era già stato condiviso abbondantemente da giornalisti e utenti di ogni tipo, varcando il confine tra Internet e trasmissioni televisive del mattino, ed era stato scaricato e ripostato ovunque — dove ormai rimarrà accessibile a tempo indeterminato.
Dopo gli omicidi, su YouTube è stato trovato anche un demo reel, nel quale figurano le varie comparsate di Flanagan in televisione come conduttore del telegiornale e reporter: tenuto conto delle sue conoscenze in materia, non sorprende che appaia molto versato in quello che ormai è diventato il rituale mediatico dell’omicidio. Pare che l’omicida sapesse, per esempio, che in una nazione nella quale ogni anno decine di migliaia di persone perdono la vita per le armi da fuoco, l’assassinio di due persone non avrebbe potuto diventare una notizia a livello internazionale, a meno di essere filmata. Come si dice comunemente online, “se non ci sono foto, non è accaduto”. Così, prima di entrare in azione, l’assassino ha atteso che la cinepresa della WD-BJ7 fosse accesa e stesse trasmettendo in diretta.
Ma c’è dell’altro: essendo un giornalista, sembra che il killer avesse compreso anche quanto sono morbosamente irresistibili i filmati girati dai normali cittadini – con le loro riprese un po’ tremolanti, le inquadrature soggettive, dal basso, trasmesse e ritrasmesse di continuo in un circolo vizioso diventato uno show abituale nei telegiornali. Di conseguenza, ha fatto in modo di riprendere lui stesso l’intera scena, con quella esperienza tipica della nostra epoca di uso ininterrotto di telefonini che consente di tenere agilmente in mano il cellulare, in questo caso in verticale, e di impugnare con l’altra una pistola.
L’assassino potrebbe aver previsto un’altra cosa ancora: in qualsiasi sparatoria che riceve un’ampia copertura dalla stampa, i giornalisti si precipitano su Internet a cercare notizie sul killer non appena trapela un nome. Flanagan era preparato anche per questo: i suoi social account erano pronti, con tanto di foto professionale e immagini di quando era bambino. Poi, non appena il suo nome ha iniziato a circolare online, pare che si sia collega- to subito a Twitter e Facebook, per postare i dettagli di una difesa, di una spiegazione, insieme alla clip delle riprese da lui girate mentre faceva fuoco.
In un primo tempo, su Twitter ha aleggiato una certa perplessità nei confronti dell’autenticità dell’account del killer, scetticismo giustificato dal fatto che ormai anche mettere insieme un rapido profilo di un assassino, attingendo alle notizie online, è prassi comune del rituale col quale ci si occupa di questo tipo di tragedie. Poi, però, l’account dell’assassino, @bryce_williams7, ha iniziato a essere aggiornato in diretta, e questo ha posto fine a tutti i dubbi. In 20 minuti su Twitter, l’assassino ha aggiornato il suo status una mezza dozzina di volte, e ha raggiunto il clou caricando il filmato degli omicidi. E adesso, tenuto conto dell’enorme successo di pubblico che ha ottenuto, è assai probabile che questo esempio sarà seguito da altri.
©2015, New York Times News Service
(Traduzione di Anna Bissanti)

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FLAVIO POMPETTI, IL MESSAGGERO 27/8 –
La morte in diretta, filmata in contemporanea dalle stesse due vittime che stavano per essere falciate dai proiettili sparati dall’assassino, e dall’uomo che ha sparato, forse con una camera Go Pro fissa sul corpo. Due giornalisti di una stazione televisiva della Virginia sono stati uccisi ieri mattina mentre stavano registrando una banale intervista alla responsabile della camera di commercio locale. Sette, otto colpi di pistola perfettamente udibili nella registrazione che lo stesso cameramen Adam Ward stava filmando. La sua collega Alison Parker sembra essere stata il bersaglio principale, ma i proiettili oltre al suo collega Ward hanno colpito alla schiena l’intervistata Vicky Gardner.
Erano le 6:45 di mattina e il piazzale del centro commerciale dove si è svolta la scena era quasi deserto, ma qualcuno ha gridato l’allarme e l’assalitore è stato immediatamente identificato come Lester Lee Flanagan, conosciuto con il nome di Bryce Williams, un ex impiegato della stessa stazione televisiva WDBJ. Polizia e Fbi hanno lanciato una caccia all’uomo su grande scala e cinque ore dopo la vettura che il fuggitivo aveva affittato una settimana fa è stata individuata a centinaia di chilometri di distanza, su una strada che porta verso la montagna a sud ovest di Washington. L’uomo a bordo ha risposto all’ordine di fermare l’auto, e quando l’agente l’ha raggiunto, lo ha trovato riverso sul sedile dopo essere sparato un colpo alla testa.
Lo shock iniziale con il quale i colleghi delle due vittime avevano accolto la notizia, ha lasciato spazio alle prime supposizioni su quanto era accaduto. Flanagan, un giornalista di colore, si era lamentato di aver perso il posto dopo appena un anno di lavoro per motivi di pregiudizio razziale, e aveva inviato una denuncia formale alla direzione della rete qualche tempo fa, nella quale lamentava le vessazioni verbali che aveva subito dalla collega Parker.
I manager l’hanno ignorata, perché secondo loro era piena di accuse fabbricate, impossibili da verificare. La rabbia e il desiderio di vendetta hanno mosso la mano dell’assassino, il quale poco dopo la sparatoria ha fornito la prova regina: lui stesso ha filmato la scena del delitto, in un video di 59 secondi nel quale punta la camera sulla giornalista che si appresta ad iniziare l’intervista. Flanagan ha atteso che i suoi colleghi fossero in diretta prima di iniziare a sparare, e di riprendere la scena mentre esplodeva i colpi. Poi ha riversato il filmato sul web e ha lanciato un macabro messaggio su Twitter: «Ho filmato la sparatoria, andate a guardarla su Facebook».
L’assassino è morto un’ora dopo il trasporto in ospedale. Nel frattempo la rete televisiva ABC ha consegnato alla polizia le 23 cartelle di fax che Flanagan aveva inviato la notte prima. E’ una denuncia ripetitiva e spesso sconclusionata della discriminazione razziale della quale il giovane giornalista si sentiva vittima. Nel testo scrive di essere ossessionato da anni dal peso della discriminazione, e di come gli episodi di violenza dell’ultimo anno lo abbiano spinto verso il limite della sopportazione. Dall’uccisione di Ferguson a quelle di Cleveland e di Staten Island, tutte eseguite da poliziotti bianchi nei confronti di giovani di colore. L’ultima goccia è stata la strage della parrocchia di Charleston, nella quale il giovane bianco Dylan Roof ha ucciso nove fedeli neri della chiesa Mother Emmanuel. In quella data Flanagan ha deciso di agire e dice di essersi ispirato alle stragi degli ultimi anni compiute da individui, da Columbine a Sandy Hook, per organizzare la sua carneficina.
E’ ancora presto per capire se la mente di Flanagan era stata corrotta oltre il limite della sanità. Di sicuro questa nuova strage appartiene invece alla categoria ben nota degli omicidi compiuti da ex lavoratori in cerca di vendetta. Alcuni dei politici intervistati a caldo ieri proponevano una disciplina del codice del lavoro che preveda l’obbligo per i dirigenti di un’azienda di denunciare ogni scritto, ogni comportamento di un impiegato insoddisfatto, che possa preannunciare la violenza in arrivo.
Nemmeno una settimana fa nel pieno centro di New York un ex impiegato dell’agenzia federale che esamina le pratiche dei visti per l’immigrazione è entrato nel palazzo fortificato come una caserma, si è diretto verso la stazione di controllo a raggi x dove era allineata una piccola coda di visitatori, e ha sparato a sangue freddo su una delle guardie. Anche lui è fuggito dalla scena, per poi spararsi sul marciapiede dove è morto, appena dietro l’angolo della strada sulla quale si apre l’edificio. Come Flanagan, lamentava un licenziamento ingiusto, avvenuto anni prima presso lo stesso ufficio.
Flavio Pompetti

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FLAVIO POMPETTI, IL MESSAGGERO 28/8 –
«Mi si spezza il cuore ogni volta che accade un episodio come questo». Obama è tornato a ripetere l’orrore che ha provato di fronte alla strage di Roanoke in Virginia, dove mercoledì mattina Vester Flanagan, l’ex impiegato di una stazione tv si è vendicato del licenziamento di due anni fa, uccidendo a sangue freddo due ex colleghi che stavano registrando un’intervista, e la donna che era di fronte alla telecamera. Poche ore dopo l’assassino si è sparato alla testa quando è stato fermato da una volante su una strada non distante da Washington, e si è ucciso.
Obama è tornato a parlare della necessità di irrigidire i controlli sull’acquisto delle armi che «uccidono molto più di quanto non possa fare il terrorismo internazionale». Mentre il presidente parlava, in un negozio in Louisiana un uomo vestito da Rambo aveva aperto il fuoco per ammazzare un poliziotto, dopo aver accoltellato una donna in un appartamento vicino. Quasi contemporaneamente, un’altra persona in un campus universitario del Mississippi si era messa a sparare, per fortuna bloccata dalla polizia prima che potesse mietere vittime. Ieri mattina infine si è concluso il processo a James Holmes, il giovane vestito da Batman che tre anni fa aveva fatto irruzione in un cinema di Aurora in Colorado, per uccidere 12 persone e ferirne diverse decine (Holmes, nonostante le perizie che lo dichiaravano malato di mente, è stato condannato a 12 ergastoli e 3.318 anni di reclusione).
«Quando finirà questa follia?» ha chiesto con gli occhi rossi e vuoti di lacrime, ma con un intensità che ha colpito l’intero paese, il padre di una delle vittime, la giovane Alison Parker. L’uomo ha detto che mercoledì ha trovato la missione della sua vita: battersi perché chi è malato di mente non possa più acquistare un’arma.
Vester Flanagan era un folle? Di sicuro era ossessionato dall’idea di essere bersaglio di discriminazione razziale. L’avvocato Marie Mattox che l’ha rappresentato nel 2013 nella causa contro la stazione WDBJ7 che lo l’aveva licenziato, e contro la quale il giovane intendeva vendicarsi con l’omicidio dei due ex colleghi, racconta di aver parlato con una persona lucida e razionale, anche se profondamente ferita nell’orgoglio. Nelle 23 pagine di una lettera che Flanagan aveva scritto dopo la strage ci sono tracce di un’ira crescente per le uccisioni di tanti uomini come lui di colore, per mano della polizia. L’ultimo episodio, la strage di nove fedeli in una chiesa di Charleston a metà giugno di quest’anno, è quello che lo ha convinto ad agire. Ha acquistato due pistole Glok da 9 mm, ed ha aspettato il momento buono per entrare in azione.
I politici che stanno battendo le piste della campagna presidenziale ieri sono stati chiamati ad esprimersi sull’orientamento che avrebbero, una volta eletti, in tema di armi. Donald Trump si è detto rassegnato all’idea che è impossibile bloccarne il flusso, anche se qualcosa andrebbe fatto per impedire che finiscano nelle mani di persone instabili. Hillary Clinton ha replicato che rispetta il secondo emendamento della Costituzione, quello che garantisce il diritto al possesso, ma che c’è bisogno di limitarlo. Più che aprire nuove prospettive, queste risposte confermano quanto sia difficile negli Usa aprire un serio dibattito in materia, e superare l’ostruzionismo imposto a suon di contributi elettorali dalla NRA, la lobby dei venditori d’armi. L’unico passo concreto è venuto dal gigante della distribuzione Walmart, che ha deciso di fermare le vendite nei suoi negozi delle armi automatiche di assalto, come gli AR-15, arma di elezione per le più recenti stragi.
Flavio Pompetti

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GIULIA CARCASI, IL SOLE 24 ORE 27/8 –
La notizia viene pubblicata con tanto di video: una giovanissima reporter, Alison Parker, e un cameraman, Adam Ward, entrambi dell’emittente televisiva locale della Virginia, la Wdbj-Tv, sono stati uccisi in diretta, mentre realizzavano un’intervista. A ucciderli è un loro ex collega afroamericano, Vester Lee Flanagan, ex dipendente della stessa emittente televisiva.
Prima di ucciderli ha preparato un breve montato della propria vita e ha mandato un fax di 23 pagine alla Abc News: voleva essere lui stesso a raccontare chi era. Poi ha caricato la pistola e avviato la registrazione sullo smartphone. Mentre uccideva i due ragazzi ha ripreso tutto e dopo averli uccisi ha caricato il filmato sui social network con didascalia: «Alison ha fatto commenti razzisti. L’hanno assunta dopo questo?».
Starà agli investigatori, soprattutto attraverso quelle 23 pagine, scandagliare il movente, reale o pretestuoso del razzismo, fornire elementi che aiutino anche noi che ne scriviamo, a ricostruire la dinamica.
Sta a noi, già da adesso, prendere consapevolezza che sia Oriente sia Occidente vivono in una società in cui reale e virtuale si mischiano fino a confondersi, fino a negarsi a vicenda. Sono passati pochi giorni dalla notizia dei due stupratori che a Sorrento, dopo la nefandezza, si sono scattati un selfie facendo il segno della vittoria.
È un videogioco? È un film? È una serie televisiva? No, è la vita. Più ci affidiamo alle foto e alle riprese, più siamo incapaci d’immaginare. Immaginare ci permette di sviluppare i potenziali effetti ridicoli o tragici di un nostro istinto o di un nostro pensiero, ci permette di essere avanti e quindi di camminare evitando i burroni. Se ci chiudiamo in un mondo di foto e di video siamo sempre un passo indietro, siamo in ritardo e ritardati. Vediamo le cose soltanto una volta compiute.
È un problema che non riguarda unicamente chi gira il video, ma anche i mezzi di comunicazione che decidono di pubblicarlo e diffonderlo.
«Il bene e il male sono una questione d’abitudine. Il temporaneo si prolunga. Le cose esterne penetrano all’interno e la maschera a lungo andare diventa volto», sosteneva Marguerite Yourcenar.
La nostra abitudine al male, da spettatori, fa di noi persone migliori? Vivere la precarietà dell’oggi, l’istante del fotogramma, quanto falsa la nostra percezione del tempo, dilatandolo o restringendolo?
Sui social network, per condividere foto o video, bisogna cliccare su “Mi piace”.
Quanto rappresenta la nostra vita una società basata sul concetto di “piacere”?
Ci sono cose che ci piacciono ma non possiamo avere e a volte, non riuscire ad averle è la nostra benedizione. Ci sono cose che dobbiamo fare e accettare ogni giorno anche se non ci piacciono. Le facciamo non per piacere, ma per qualcosa di più grande, per amore a volte: chi lavora in miniera, di certo non lo fa per piacere, ma per dare da mangiare ai figli.
Deve tornare a esistere un posto privato in noi, qualcosa che teniamo inaccessibile al pubblico, che renda la nostra vita diversa dalla vita degli altri.
Il delirio della condivisione si sta traducendo in un’equazione orrenda, una sorta di “sottrazione per aggiunta”: c’è qualcosa di sacro che ci viene tolto mentre ci viene somministrata una quantità enorme di inutile. Ci viene tolto il tutto mentre ci viene dato il tantissimo, come se fossero sinonimi. Ma non lo sono. Tutto non è sinonimo di “tantissimo”, è sinonimo di “intero”. Non siamo più interi.
Se una mano – prima, dopo e durante – è occupata a riprendere la nostra vita, l’altra troppo spesso stringe una sigaretta, un cocktail, la pistola o il volante della macchina. In ogni caso stiamo diventando persone che non hanno le mani libere, maschere che diventano volti.
Giulia Carcasi