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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

DONNE CHE MORDONO DONNE

Una delle prime cose che mi dice Manar è che l’emira morde. L’emira è la comandante della polizia delle donne, l’emira è la donna più in alto dello Stato Islamico, l’emira è saudita, si chiama Umm al Areth e morde.
Se ne va in giro per le vie di Raqqa con un plotone di scorta, il lanciarazzi a tracolla e la dentiera in tasca.
I denti di ferro sono il suo giocattolo, il suo balocco; li ordina ai pochi dentisti rimasti in città e li affonda nelle carni delle sue vittime.
«I denti di ferro?», chiedo incredula. «Non sai niente?», si stupisce Manar. «L’emira ne va pazza».
La stanza d’albergo è vasta e grigia; le ampie finestre disegnano brulle colline.
Siamo in Turchia, a Sanliurfa, al sicuro in teoria, molto in teoria: la Siria, con le sue atrocità, è a trenta chilometri, a 160 c’è Raqqa, la capitale dell’Isis.
E tuttavia Manar ha paura.
Scruta ogni gesto del fotografo, timorosa che questi possa rubarle un lembo di viso. Mima storie luride, di donne che torturano donne, di donne cannibali; evoca tetre visioni che mi tormenteranno per giorni.
Manar ha 24 anni e ha accettato di parlarmi assieme alla sorella Amal, di 26.
Tanto Manar è vivida di parole, quanto Amal è attonita nel suo dolore. Le sorelle sono agenti pentite della Brigata al Khansa, la notoria Gestapo femminile del Khilafah, il Califfato.
È la prima volta che parlano con un giornale, la prima volta, anche, che si apre un’intima finestra sul Male.
«Se ci prendono», dice Manar, «ci fanno saltare in aria».
Eppure, in principio, hanno sperato. Ma la realtà, mi dirà Amal, è sempre così diversa dal suo racconto. La mia curiosità, la mia ossessione, era capire finalmente cosa porti una persona sana di mente a unirsi a gente che sgozza, lapida, stupra e schiavizza i diversi e le donne.
«Guarda che all’inizio io non ero neanche velata», è l’esordio di Manar. Studiava Pedagogia all’università di Homs e soltanto l’efferatezza del conflitto, le torture, le bombe, gli elicotteri, l’hanno costretta a rientrare a casa, a Raqqa.
«È stata la curiosità a farci arruolare nella Brigata al Khansa. Quelli di Daesh (Isis, ndr) dicevano islam, islam», dice Manar.
«La mia migliore amica mi fa: il loro è il vero islam. Cercano reclute. Andiamo a dare un’occhiata».
La stazione centrale della Brigata al Khansa occupa un imponente edificio nuovo sul fiume Furat, l’Eufrate.
«Mi aspettavo che ci facessero lezioni di religione», dice Manar. «Invece ci hanno detto solo quali erano le regole». Tipo?
«Se mostrano gli occhi, picchiatele fino alla morte. Ho avuto paura. Mi sono chiesta: faranno sul serio?».
Un giorno Manar era in pattuglia con tre colleghe, due siriane e una tunisina, a caccia di peccatrici.
Il peccato era una donna non coperta con tre strati di velo in volto.
Il peccato era una donna per strada non accompagnata dal padre, dal marito o dal fratello.
Il peccato era una donna senza guanti o con un’abaya nera troppo corta che magari, salendo le scale, scopriva un calzino che lasciava incustodito un millimetro di pelle.
Il peccato era una risata cristallina o una parola squillante o una scia di profumo o un odore di sigaretta.
«Quel giorno, una collega dice: guardate, una tipa senza velo!».
Manar segue il suo sguardo e vede su un balcone una signora con un vestito bianco che stende i panni, la testa libera dall’hijab. Avrà avuto trent’anni. «Troviamo il portone del palazzo, saliamo le scale, bussiamo alla porta e un paio di bambini ci aprono la porta. Io tengo da parte i bambini, mentre le mie colleghe urlano: sei un’infedele! Perché provochi la gente?».
Manar pensava che l’avrebbero punita come al solito. Pensava che l’avrebbero picchiata per bene e portata in prigione e convocato il marito e bastonata di nuovo e intascato una multa di 90 dollari. «È stato incredibile», dice Manar e, mentre lo dice, si alza e mima la scena, un fantasma nero che vibra.
«Una delle due tunisine, di nome Sariya, tira fuori dalla tasca i denti di ferro e s’abbatte sulla donna come un animale. Le apre il vestito e con i denti di ferro in bocca le azzanna il seno».
Le sue mani mimano ora un cerchio che si allarga: «Non potrò mai dimenticare il sangue che tinge di rosso il vestito bianco e la tunisina impazzita che morde il capezzolo. Mi sono piegata per soccorrere la donna e la tunisina mi ha tirato per i capelli dicendo che fai? Abbiamo lasciato la donna a sanguinare per terra. Dopo, ho saputo che il marito era tornato a casa e l’aveva portata in ospedale, ma lei aveva perso troppo sangue. È morta dopo tre giorni».
Delle duemila e passa agenti della Brigata al Khansa, solo le straniere e le emire hanno in dotazione la dentiera, morbido lattice dentro, lame di ferro fuori. Manar e Amal calcolano che l’80 per cento delle poliziotte siano muhajirat, di fuori: egiziane e magrebine, afgane, turche, cecene e tante francesi di origine araba. L’emira, Umm al Areth, è una saudita moglie di un importante comandante saudita di Daesh: la numero due è una tunisina di nome Umm Bayan; la terza è una straniera dall’arabo classico perfetto, del Caucaso, Zuleyha.
Sono tutte sulla cinquantina; indossano tutte la divisa blu scuro da emira.
Le poliziotte di più basso grado sono in prevalenza siriane e tunisine.
La differenza tra le soldatesse e le straniere è nel potere e nei salari e nell’arsenale. Le truppe semplici ricevono circa 50 dollari al mese e hanno a disposizione fruste e Kalashnikov, le comandanti ne prendono anche 500 e hanno acidi e dentiere.
Questa storia dei denti di ferro non l’avevo mai udita; eppure sono anni che sgrano il rosario delle nefandezze mediorientali. A memoria, mi viene in mente l’uccellino vivo che un prigioniero politico di Bashar al Assad ha dovuto ingoiare, e tutto il catalogo degli orrori di Gheddafi e Saddam. Ma di donne lupo non ho memoria: a quale pozzo avvelenato della storia hanno bevuto queste sanguinarie?
Al mio ritorno a casa, cercherò tracce nel Corano e negli hadith, i detti del Profeta, invano. Interpellerò un esperto di islam, che mi confermerà il nulla più totale. L’ulema citerà en passant una simile barbarie nell’Inquisizione Spagnola. Scoprirò così che tra i vari strumenti di tortura di Torquemada c’era un arnese tremendo usato per punire le eretiche: uno straziatoio di seni simile alle dentiere di ferro dell’Isis.
A Sanliurfa cerco una conferma alla storia; segretamente spero che qualcuno mi dica che non è vera. «Maarufa», mi dice Umm Bilal, una signora da poco fuggita in Turchia: è nota.
«Se n’è parlato tanto in città». Umm Bilal è una quarantenne timida di Raqqa, a sua volta arrestata dalla Brigata al Khansa, perché di veli sul volto ne aveva due invece che tre. «Ho provato a spiegare che soffro di asma e ho problemi a respirare. Mi hanno portata alla stazione. Mi hanno picchiata per ore, e più piangevo e più mi picchiavano e più mi insultavano. Erano in due, avevano un accento del Nord Africa. Mi chiamavano infedele e mi battevano con una fune. Peggio ancora era sentire gli urli delle altre donne nelle altre celle. Dopo 24 ore è venuto mio marito, e me le hanno date anche davanti a lui. Mi hanno liberata dopo che abbiamo pagato una multa di 50 lire turche».
Mentre parla, la sua voce trema.
«Daesh è il male», dice.
Ho chiesto a Manar e Amal, le pentite, come abbiano potuto resistere tre mesi – da gennaio a marzo – ma è una domanda che non tiene conto del pericolo che hanno corso fuggendo.
Manar mi risponde con una storia. Un giorno, era in pattuglia nel suq. Questo facevano, la maggior pane del tempo: andare a caccia di veli insufficienti, andare a caccia di occhi di donne.
Quel giorno, nel suq, incrocia gli occhi di una sua cugina. Pur essendo la cugina un’ombra, in questo universo grottesco le ombre ormai si riconoscono.
Quel giorno, la collega di Manar vede anche lei ciò che non dovrebbe: «Vedila, vedila quella».
Manar nega che ci sia niente di illegale, Manar nega l’evidente. «La mia collega mi ha denunciata per tradimento. Mi ha trascinata davanti a un giudice che mi ha condannata a trenta frustate. A frustarmi è stato un tunisino e mentre mi frustava teneva una copia del Corano sotto l’ascella e mentre mi flagellava mi diceva perché non applichi le leggi, sei una spia?».
Manar racconta le cose che ha vissuto per esorcizzarle, credo. Sono tanti gli abissi che si porta dentro. I presunti gay buttati dal sesto piano al cospetto della popolazione: i presunti nemici trascinati con le moto per le vie, tronchi senza testa, mortifere scie.
E le donne, le donne.
Una volta, a piazza Naim, la piazza degli sgozzamenti, il boia ha strangolato una signora per presunto adulterio. Manar di nuovo mima l’atto al ricordo, mani che si stringono intorno al collo, «e la donna che muore sotto gli occhi del marito e del fratello che non dicono una parola».
Amal, la sorella, ascolta in silenzio. La osservo spesso, mi osserva di rimando e non dice niente. È esile e fragile, l’immagine dello smarrimento.
Provo ad aprire una breccia nel suo muro, le chiedo di raccontarmi la sua esperienza.
«Non c’è niente in islam di tutto questo», dice.
«Per giustiziare una donna per adulterio hai bisogno di quattro testimoni che dicano di aver visto l’atto da vicino».
E tuttavia sarebbe sbagliato il pensare che le orde nere siano sessuofobe: tutt’altro. Raqqa in realtà è Eros e Thanatos, sesso e morte: Raqqa, in realtà, è un bordello del diavolo.
Non ci sono solo le duemila yazide rapite lo scorso anno nel Sinjar e stuprate in branco e vendute alla stregua di schiave: dalle stesse ragazze della Brigata al Khansa si pretende una disinvoltura inusitata in queste terre arcaiche.
Il matrimonio jihad, lo chiamano. «L’emira mi ha ordinato di sposare un algerino», dice Amal.
L’algerino è arrivato la sera, ha consumato «come un animale», e la mattina dopo le ha detto che lui se ne sarebbe andato, però dopo poche ore sarebbe arrivato un suo amico con cui avrebbe consumato un altro matrimonio jihad.
E com’era l’algerino?
«Fumava. L’algerino fumava. Gli ho detto ma non è vietato? Mi ha risposto che Dio lo perdonerà».
«Ci sono tantissimi casi cosi», dice Manar.
«Sono degli ipocriti», dice Amal. «Le corti islamiche falsificano i matrimoni». «Non li ho mai visti pregare, non li ho mai visti leggere il Corano», dice Manar. Manar non lo dice chiaramente. ma scoprirò in seguito che la sorte della sorella è toccata anche a lei.
Un tunisino l’ha sposata e il giorno dopo le ha detto ora io vado in guerra e tu sposi un mio amico. Lei è andata in tribunale chiedendo giustizia «ma il giudice ha detto che l’uomo ha ragione, è un mujahed, un combattente che va in paradiso».
Manar si è «sposata» due volte in tre mesi. «Odio Daesh», dice.
Umm Bilal, la signora con l’asma, mi ha detto che la sua vicina di casa, una ex parrucchiera, anch’essa una poliziotta, ha collezionato tre mariti in meno di una stagione: «Se ne sta tutta nera al balcone ad aspettare il quarto».
Il terrore di Umm Bilal era che un tale fato potesse abbattersi anche sulle sue due figlie.
«Due agenti, due donne, si sono presentate al loro liceo e hanno chiesto alle ragazze di scoprirsi il viso. Hanno indicato le più belle dicendo tu e tu e tu sposerete dei mujaheddin e andrete in paradiso. Tra le prescelte c’era anche mia figlia Rida, di 17 anni».
E stato allora che Umm Bilal si è data all’esilio: lo ha fatto per impedire «a quei maniaci» di prendersi le sue bambine.
Alla fine, Manar e Amal sono state fortunate. Ora sono qui, a Sanliurfa, a raccontare la loro storia, non più complici di donne che mordono altre donne con gli strumenti di Torquemada.
Non tutte hanno potuto permettersi una fuga verso la dignità; una loro conoscente si è cosparsa di benzina ed è morta bruciata viva. Ha preferito le fiamme al matrimonio jihad.
Da quando sono scappate, un tunisino, Abu Aisha, ha occupato la loro casa, ma non importa: «Vogliamo vivere quanto più lontano possibile da Daesh», dice Manar.
«Sono loro i veri infedeli. Invochiamo il Cielo affinché li distrugga senza pietà», dice Amal, il pollice puntato verso la terra. un timido sorriso sul viso esangue