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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

BERLINO ’45, IN GIRO TRA LE MACERIE CON LA MASCELLA DI HITLER IN BORSA

Era quasi la mezzanotte dell’8 maggio 1945, e una giovane in uniforme da tenente stava brindando in una casa di Berlino, mentre ascoltava la radio che annunciava la capitolazione della Germania. Per prendere il bicchiere di vino aveva appoggiato per terra una «scatola rosso scuro, foderata di morbido satin, come quelle usate per gli articoli di profumeria o la bigiotteria». Dentro c’era la mascella di Adolf Hitler, la prova inconfutabile che il Reich era stato sconfitto - e il più grande segreto del dopoguerra.
Elena Rzevskaja si era arruolata volontaria e aveva fatto l’interprete di guerra. Aveva interrogato i primi tedeschi fatti prigionieri nella battaglia di Mosca: congelati, coperti di stracci e paglia, spaesati e quasi servili. Aveva letto le lettere che scrivevano a casa, dove l’entusiasmo piano piano lasciava posto allo sconcerto. Era entrata in villaggi russi messi a ferro e fuoco dai nazisti in ritirata. In Polonia aveva parlato con i deportati ebrei, i prigionieri italiani, i polacchi che ritornavano nelle case dalle quali erano stati cacciati. E con tutto questo bagaglio di rabbia e dolore, appena venticinquenne, era arrivata a Berlino. Con una missione principale: scoprire che fine aveva fatto il Führer.
Segreto di Stato
Un’odissea unica che viene raccontata da Rzevskaja nelle Memorie di una interprete di guerra, appena pubblicato da Voland. La ricerca e l’identificazione dei resti di Hitler erano rimaste un segreto di Stato per decenni. Elena riuscì a raccontarlo per la prima volta nel 1965 (in italiano con il titolo La fine di Hitler fuori dal mito), ma solo con la fine del comunismo ha potuto scrivere la versione finale, contemporaneamente un racconto autobiografico di una ragazza in mezzo alla guerra, un resoconto documentato degli ultimi giorni di Hitler, e un giallo sull’indagine intorno alla sua morte.
Berlino era una città in macerie, dove si combatteva per le strade, i bambini portavano sul braccio una fascia bianca in segno di resa e dal cielo piovevano ancora i volantini di Goebbels che incitavano alla resistenza. Di Hitler si diceva che fosse morto, che fosse a combattere, che fosse volato nel suo rifugio in Baviera. In realtà si era ucciso alle 15,30 del 30 aprile, con i russi a 200 metri dal bunker. Il 1° maggio la radio tedesca dette la notizia della sua morte. Ma i sovietici non ci credettero. Nel Führerbunker Elena trovò segretarie, cuochi, attendenti e autisti nel panico, e quintali di documenti: i diari di Goebbels, pagine di esaltazione e complotti, quelli del segretario di Hitler, Bormann, l’inventario delle case di Magda Goebbels, lettere, telegrammi, dispacci, che insieme ai verbali degli interrogatori formano un quadro surreale e dettagliato dell’agonia del regime. I cadaveri dei Goebbels sono ritrovati ed esposti, e nel sotterraneo viene fatta l’agghiacciante scoperta dei sei figli della «coppia perfetta» del nazionalsocialismo, avvelenati dalla madre: «Sembravano solo addormentati», ricorda Rzevskaja.
Di Hitler però nessuna traccia, fino a che un addetto al garage non rivela di aver dato a Bormann diverse taniche di benzina. Il 29 aprile il Führer ricevette la notizia della morte di Mussolini, e decise di far bruciare il suo cadavere. Il maresciallo Zukov sveglia Stalin con una telefonata per dirgli che Hitler è morto. «Ha avuto quello che si meritava, il mascalzone. Peccato che non siamo riusciti a prenderlo vivo. Dov’è il cadavere?», è la risposta. Il giardino della cancelleria è pieno di morti, uccisi dai bombardamenti o fatti fucilare dal Führer per paranoia. Il cadavere più ricercato del mondo viene scoperto per caso, il 4 maggio, quando il soldato Ivan Churakov cade in una buca lasciata da una bomba e trova i resti di un uomo, una donna e due cani. L’autopsia accerta la morte per cianuro. E la tenente Rzevskaja si vede consegnare la scatola rossa: «Ne rispondi con la tua testa». La missione conta solo tre persone: si tratta di trovare in una città devastata i medici di Hitler. L’assistente del dentista, Käthe Heusermann, identifica le mascelle (pagherà con 10 anni di Gulag per «aver aiutato i borghesi a prolungare la guerra curando i denti di Hitler»).
Gioco di disinformazioni
Intanto i soldati russi regalavano alle telegrafiste i vestiti e le scarpe di Eva Braun, i primi abiti da donna che vedevano dopo quattro anni di trincea. La guerra era finita, ma il trio che aveva identificato il Führer ricevette l’ordine di dimenticare tutto. Stalin non rivelò mai agli alleati di avere le prove della sua morte. Anzi, sosteneva che fosse nascosto in Occidente, e perfino il maresciallo Zukov non sapeva la verità. Un complesso gioco di disinformazioni, sospetti e intrighi dentro il Cremlino, che nel 1946 spedisce a Berlino una missione dal nome in codice «Mito», con l’incarico di stabilire che Hitler non è morto, ossia il contrario di quello che Stalin sa già. Elena Rzevskaja si chiede ancora oggi il perché: «Forse gli dispiaceva non avere più la sua vecchia nemesi».