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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

L’ULTIMA STRAGE DELL’IMMIGRAZIONE ITALIANA


Lavorando, gli operai guardavano in su e come per esorcizzare cantilenavano: Vien giù, vien giù, questo vien giù. Infatti il ghiacciaio Allalin si staccò dalla montagna alle 17 e 15 del 30 agosto 1965. Trenta secondi di frastuono, due milioni di metri cubi in picchiata: Pareva che il cielo intero fosse cascato sulla terra, raccontò chi potè raccontare. Sotto rimasero ammazzati in 88; cinquantasei italiani, in maggioranza bellunesi e friulani, ma pure calabresi, sardi, pugliesi. L’ecatombe di Mattmark – Canton Vallese, Svizzera sud occidentale – fu quasi il corrispettivo in alta quota della strage di nove anni prima nelle interiora minerarie di Marcinelle, Belgio. Fu l’ultima tragedia dell’emigrazione italiana, però non se ne ricorda più nessuno. Adesso, a interrompere l’amnesia, è uscito un libro documentatissimo, Morire a Mattmark (Donzelli, pp. 172, euro 27), che a cinquant’anni dal macello ne ripercorre genesi, dinamiche, conseguenze. L’ha scritto Toni Ricciardi, 38 anni, irpino, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra.
La formula è giornalisticamente bollita causa abuso, ma quella del ghiacciaio fu una catastrofe annunciata quant’altre mai. Benché negli archivi non ne rimanga traccia, sul cantiere della maxi-diga gli incidenti, mortali, si susseguivano da tempo. E «la caduta di ghiaccio e slavine era quotidianità». Per comprimere i costi dell’impresa, avviata sul finire dei Cinquanta, s’era deciso di accelerarne le tempistiche aumentando la manodopera. Nell’estate ‘65 lavoravano a Mattmark 700 persone, ma fino a pochissimi anni prima avevano superato le mille. Volendo, si poteva sgobbare di straordinario anche 16 ore al giorno, domeniche incluse, con temperature che di notte, a duemila metri, piombavano come niente sotto i meno 30.
Il cantiere era una cittadella drasticamente gerarchizzata. Tecnici e maestranze specializzate furono alloggiati più a valle in corretti appartamenti prefabbricati; mentre la bassa forza venne ammucchiata in baracche ai piedi del ghiacciaio: «In ognuna cento operai. Ma non mi posso lamentare perché si stava bene. C’era la cucina, la radio» ricorda qualcuno. E sia.
Il guaio è che l’accampamento, le officine e la mensa furono piazzati proprio sulla linea di caduta del ghiacciaio. Ossia «nell’unico posto rischioso possibile». Fu «una scelta motivata esclusivamente da ragioni economiche. Li sistemarono lassù per ridurre tempi e costi degli andirivieni in pullman» dice Ricciardi. Durante il crollo, lo spostamento d’aria fece volare autocarri e bulldozer come petali. Alcuni si salvarono proprio perché scagliati via dalla ventata. «Insieme agli italiani morirono 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci, un apolide e 23 svizzeri». Se la frana fosse avvenuta mezz’ora dopo, al momento del cambio turno, «i morti sarebbero stati seicento».
I ghiacci del Mattmark avrebbero dovuto travolgere anche il mito dell’efficienza elvetica. Ma così non andò. Amplificata da un’eccezionale copertura stampa – sul posto arrivarono 200 giornalisti da tutta Europa – la commozione fu voluminosa. «L’emigrazione è una favola che divora» scrisse Dino Buzzati sul Corriere. Era e resta a tutt’oggi la più grave sciagura della storia svizzera. Però subito si impose pressoché unanime la tesi dell’imprevedibilità: il cedimento del ghiacciaio era dovuto «all’aumento delle temperature e alle forti piogge dei giorni precedenti». Responsabilità umane, zero. Molti tra i friulani erano reduci dall’apocalisse del Vajont, ottobre ‘63, ma quando la ricordavano ai tecnici svizzeri si sentivano rispondere: «Qui non potrebbe succedere, siamo mica in Italia». I lavori della commissione d’inchiesta non ebbero tempi da giustizia-modello. Terminarono nel ‘69 e l’anno dopo partì il rinvio a giudizio di 17 persone – direttori, ingegneri, funzionari – per omicidio colposo. Il processo sarebbe stato celebrato solo nel ‘72. Finirono tutti assolti. I legali dei familiari impugnarono, ma il Tribunale cantonale di Sion diede loro torto, scaricandogli addosso pure il pagamento di metà delle spese processuali.
Le responsabilità svanirono in una stretta emotiva. La tesi della catastrofe naturale si fuse con il moto di solidarietà. Tra il 1965 e il ‘92, la Fondazione Mattmark – che alleava imprese, sindacati, Croce Rossa, media svizzeri e Ambasciata italiana – sborsò alle famiglie oltre 4 milioni e mezzo di franchi. Intanto, dal giugno ‘69, gli 82 virgola 9 milioni di metri cubi d’acqua raccolti nel grembo della diga ormai avviata pompavano energia per 250 milioni di Kwh.
«La sentenza fu politica. Condannare vertici e addetti avrebbe significato condannare un sistema» ritiene Ricciardi. E ricorda: «In quegli anni la Svizzera ospitava il 50 per cento del flusso migratorio italiano nel mondo. Non erano più lavoratori stagionali: cominciavano a divenire stanziali». In quel clima, le ripulse xenofobe prendevano a canalizzarsi politicamente. Nel ‘70 il referendum anti-stranieri voluto dalla patriottica Azione Nazionale di James Schwarzenbach non passò, ma per un pugno di voti. Forse l’effetto-Mattmark incise sullo scrutinio. Di certo la strage segnò la fine di un allegro e profittevole laissez-faire in fatto di sicurezza sul lavoro: «Nel ‘69 la Svizzera era ancora il Paese con il maggior numero di morti bianche in Europa». Le vittime della diga consolidavano l’immagine collettiva, o magari il cliché, di una Nazione ingrata, «arrogante e crudele» verso i cafoni che in pochi decenni ne avevano raddoppiato il Pil. Un’immagine riaffiorata nel febbraio 2014, quando la Confederazione tornò a votare sugli sbarramenti agli immigrati e al referendum, sempre di poco, prevalse per la prima volta il Sì.
Il ghiacciaio del Mattmark venne giù su una Svizzera che – mutatis mutandis – viveva come l’Italia il suo boom economico. Ma che, negli scacchismi della guerra fredda, aveva indossato la divisa di un anticomunismo ad accenti paranoidi; segnato da un occhiuto controllo poliziesco sulle classi lavoratrici e specie sulla manodopera straniera. In materia di energia, il capitalismo dell’idroelettrico era ancora in piena fregola, però il nucleare tamburellava già alle porte. E presto, a metà dei Settanta, la crisi petrolifera avrebbe mandato in fumo tante favole belle di benessere a durata indeterminata.
Oggi in cima al Mattmark c’è una lapide, una croce. Alle traversie dell’immigrazione si dedicano tesi di laurea e progetti di ricerca. Ma Toni Ricciardi confessa: «Scrivendo il libro ho incontrato difficoltà. Accesso complicato agli archivi, documenti spariti... Lasciamo stare, va’».
Ché sarà pure una storia svizzera, ma sembra spaventosamente italiana.