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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

NEI CAMPI DELLA PENNSYLVANIA DOVE I CONTADINI DIVENTANO “MANAGER DEL METANO”

Mi sono fatto sette ore di macchina, dai canyon di grattacieli di New York attraverso le paludi industriali del New Jersey e i boschi da cui deriva il nome della Pennsylvania, per andare a vedere il boom dello scisto. Volevo toccare con mano il benessere creato dalla scoperta del metano che ha trasformato aree sperdute, povere e senza speranza.
È una delle storie economiche più interessanti e controverse degli ultimi anni: il progresso tecnologico ha permesso l’utilizzo di risorse naturali che erano nel suolo da millenni, creando un nuovo motore di crescita quasi dal nulla in zone dove l’economia ristagnava.
Ma lo sfruttamento del territorio ha portato con sé questioni spinose per la nostra generazione e per quelle che seguiranno: gli ambientalisti denunciano la violazione dei terreni agricoli, acqua non più potabile, uno squilibrio naturale che potrebbe portare a una catastrofe ecologica.
Dall’acciaio al gas
Mi aspettavo un campo di battaglia e invece ho trovato Prosperity: una strada, poche case in legno, un piccolo negozio che vende di tutto. «Hanno appena rifatto il portico!» esclama Eric Cowden, uno dei contadini diventato magnate del metano un bel giorno di sette anni fa. «La mattina non si riesce a entrare perché i lavoranti dei pozzi sono pigiati a comprare caffè e ciambelle». Se questa è la febbre del metano, la temperatura è piuttosto bassa.
La realtà è che la rivoluzione dello shale – la parola inglese per lo scisto che qui è sulla bocca di tutti – c’è, ma bisogna cercarla. I dati economici danno un’idea. Dal 2010, quando la produzione di metano è cominciata a salire rapidamente, l’economia della Pennsylvania è cresciuta più della media nazionale. Uno Stato agrario e industriale che aveva sofferto moltissimo il crollo dell’industria dell’acciaio a Pittsburgh ha ritrovato un nuovo stimolo, una fonte di orgoglio, forse anche una «raison d’etre» al di là della squadra di football americano (chiamata, ovviamente, Steelers, i lavoratori di acciaio).
Crisi addio
Ma il contributo più importante del fracking, la fratturazione idraulica (un processo che utilizza acqua ad alta pressione per trivellare orizzontalmente invece che verticalmente), è sulla disoccupazione. Lo scisto ha portato 45 mila nuovi posti di lavoro nell’edilizia, stando alle cifre ufficiali, più altri 243 mila grazie all’effetto volano su altri settori legati al boom dello shale. «Oggi i ristoranti sono pieni dal lunedì al venerdì», dice Eric, un gigante buono che sembra un’ottima forchetta.
È vero che i tassi di disoccupazione di queste zone sono stati più o meno gli stessi che nel resto degli Stati Uniti – alle stelle nel 2009-2010, molto bassi ora – ma i fautori del metano sostengono che sarebbero stati molto più alti senza l’aiuto del gas intrappolato nelle rocce sotterranee. E secondo i contabili di PriceWaterhouseCoopers, da qui al 2030 questa industria-bambina potrebbe creare quasi un milione di nuovi posti di lavoro nella Pennsylvania. Stati limitrofi – come Virginia, Ohio, e New York – dovrebbero guadagnarci perché sono anch’essi sopra il «Marcellus Shale», una formazione geologica di circa 230.000 km quadrati dove il metano è intrappolato a profondità massime di circa 2700 metri.
I pozzi nei prati
Ma i più grandi beneficiari della «riscoperta» dello shale sono i contadini. Le colline intorno a Prosperity sono un esempio di come l’economia rurale sia stata cambiata da Marcellus (il nome latineggiante viene da un paese nello Stato di New York dove la roccia si «affaccia» in superficie). La scena è completamente diversa da quella di altri boom minerari. Non siamo nell’arido deserto del Texas, dove le fiamme delle raffinerie si vedono da centinaia di chilometri di distanza; o nel paesaggio lunare del North Dakota. E non siamo nemmeno nell’inferno terrestre raccontato negli Anni Venti da Upton Sinclair nel romanzo «Oil!» che ispirò «Il Petroliere» di Daniel-Day Lewis e Paul Thomas Anderson.
Qui il panorama è delicato, con colline sinuose che ricordano l’Umbria, campi di fieno e mucche al pascolo. Il colore dominante è il verde estivo dei prati arati, e i pozzi non sembrano dragoni infuocati ma torri delle telecomunicazioni. Eric, che è anche il capo della associazione di lobby locale, mi ha chiesto di incontrarlo a una stazione di servizio con un nome poetico: Lone Pine Stop, la fermata del Pino Solitario. Ma quando arrivo, di pini ce ne è più d’uno e così anche di macchine.
Il metanodotto
Eric racconta che persino questo distributore isolato è stato toccato dai soldi del metano: nel giro di pochi anni i proprietari hanno rifatto l’asfalto, ampliato il negozio e rimodellato le pompe. Nel parcheggio è uno stillicidio di pick-up, i mostri della strada che trasportano il sogno americano di mobilità, lavoro manuale e musica country. Siamo circondati da segni evidenti di una rivoluzione industriale: tubi, cemento, caschi gialli, uomini che urlano.
Prima dello shale la vita qui era più semplice, ma più dura, dice Eric nell’accento rilassato di chi ha più tempo di parlare dei newyorchesi stressati o dei losangelini pretenziosi. Ha 34 anni, ma è un contadino di settima generazione – il primo appezzamento fu dato ai suoi antenati da George Washington, dice con orgoglio. Conosce la terra, gli animali e le stagioni. Inizia un nubifragio e Eric mi rassicura che passerà prima del nostro arrivo alla sua fattoria. Ha ragione. Quando arriviamo in cima al colle che domina i 115 acri della Cowden Farm, il sole ha ricominciato a picchiare.
Eric indica una fattoria limitrofa, dove un enorme parte di bosco sembra mancare, come se ci fosse una pista di sci. «Là sotto c’è il metanodotto che arriva fino qui» dice indicando gli alberi della sua fattoria adiacente a un immenso campo per boy scout. «Sono venuti e hanno scavato per un paio di mesi per mettere i tubi sotto terra». La fattoria di Eric era il punto di passaggio ideale per portare il metano alle centrali delle grandi aziende, ovvero le multinazionali come la Shell e la Chevron che si sono fiondate in Pennsylvania appena hanno capito che valeva la pena l’investimento. «È stata una decisione difficile far passare il metanodotto?» chiedo e fisso la faccia rotonda di Eric per vedere se ha dei dubbi che non vuole ammettere. Ci pensa, coccola per un po’ Emma, il suo pastore australiano, poi risponde. «Non c’è dubbio che un po’ di caos il lavoro l’ha creato, ma è stata una decisione facile».
Fattoria e nuovo business
Eric non dice quanti soldi ha fatto, ma il modello di business dello shale è ben noto: le società pagano ai contadini una somma iniziale per l’accesso alla terra e una percentuale del valore del gas che estraggono. All’inizio pagavano solo 25 dollari all’acro e il 12,5% del gas ma i contadini più furbi sono riusciti a farsi dare fino a 6 mila dollari all’acro e il 25% dell’estratto. Ho l’impressione che Eric non sia diventato miliardario. «Ci siamo comprati un nuovo trattore», mi dice e poi si ricorda che è italiano, un New Holland e mi porta subito a vederlo: «C’è scritto Made In Italy sulla porta». Questa volta sono io a essere orgoglioso.
Gli chiedo come sia cambiata la vita delle tre generazioni di Cowden che vivono nell’azienda agricola. «Nessuno si mette in poltrona e smette di lavorare. Abbiamo mucche, pecore, un po’ d’ortaggi, come sempre. L’unica differenza è che adesso mio nonno, che ha 86 anni, non si deve angosciare con la paura di dover vendere la fattoria».
Vivere al ritmo della Borsa
Vivere con il metano ha insegnato a Eric e ai suoi un nuovo ritmo: non quello lento e regolare delle stagioni, ma quello sincopato e irrazionale dei mercati. Il prezzo del metano è crollato di quasi la metà in meno di un anno, in parte perché l’inverno Usa non è stato rigido, ma in parte perché il boom dello shale ha prodotto troppo gas. «Sappiamo bene quello che può succedere sui mercati», dice. Eric è una brava persona, ama i musical di Broadway e canta nel coro della chiesa metodista. È la faccia accettabile di un settore nuovo che vuole presentarsi come una soluzione pragmatica per una parte dell’America che non aveva molte altre possibilità. Una rivoluzione industriale che vuole convincerti che il fine giustifica i mezzi e che i mezzi non sono nemmeno tanto male.
La sfida di mamma Carol
Ma c’è chi non è convinto né del fine né dei mezzi. Come Carol French che ha una fattoria 300 miglia a Nord da dove vive Eric. Carol ha passato mezzo decennio a chiedere a politici, multinazionali e agli altri contadini di andarci con i piedi di piombo, di considerare gli effetti negativi di questo cambiamento epocale. Lanciò l’allarme anni fa, dicendo che l’acqua della sua fattoria era torba, aveva la consistenza di un gel e conteneva pezzi di roccia. La foto di Carol con un barattolo di schifosa acqua bianca è diventata il simbolo della lotta degli ambientalisti contro lo scisto.
Disse che le sue mucche, che bevevano quell’acqua, avevano degli sfoghi sulla pelle e che persino lei aveva bolle su tutto il corpo. La figlia dovette andar via perché stava sempre male. «La terra deve produrre denaro per essere sostenibile ma siamo pronti a pagare per le perdite inflitte dallo shale?» ha tuonato la signora French su uno dei siti web più letti nella sua zona.
Di Carol a Prosperity non vuole parlare nessuno. Quando chiedo del dibattito ambientale, ottengo solo vaghe allusioni a «chi non ama il cambiamento» e alla differenza tra «ambientalisti e ecologisti», i primi più militanti, gli altri più lungimiranti. E anche il voltafaccia del presidente Obama, che proprio questa settimana ha deciso di favorire energie rinnovabili, ma molto costose come il vento e il sole, viene accolto con alzate di spalle e cambiamenti di discorso.
È un conflitto vecchio e annoso: quanto vogliamo sacrificare – habitat, natura, vite umane – in nome del progresso economico? La domanda è stata posta, in maniera diretta o indiretta, sin dalla preistoria e ha avuto una miriade di risposte. Oggi è una domanda fondamentale per chi, come l’America, è alla ricerca di nuove fonti di sviluppo, e chi come l’Europa guarda speranzosa oltre-Oceano per vedere se c’è qualcosa da imparare.
Eric Cowden e cittadini di Prosperity la risposta l’hanno già data. Hanno scelto la crescita economica, il benessere di molte persone, un nuovo trattore. Non vogliono o non possono sapere se le conseguenze saranno gravi, come paventa Carol French, o se tra vent’anni penseremo allo shale come l’orlo di un baratro ecologico o la fonte di energia pulita, veloce e poco cara.
I pozzi continuano a bucare i campi della Pennsylvania e le comunità che un tempo si aggrappavano all’agricoltura per sopravvivere si godono una vita migliore. «Quella è Carole-Jo», dice Eric indicando una signora di mezza età che fa jogging sul ciglio della strada. «Canta nel coro con me. È un’ingegnere che ora fa un lavoro importantissimo e ben pagato».
Per ora, la Pennsylvania dello shale continua a correre.
2- continua
Francesco Guerrera, La Stampa 5/8/2015