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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

SINAI SANTA CATERINA LA PRINCIPESSA INSIDIATA DAL DRAGO

Isoldati egiziani smontano i fucili pezzo a pezzo per pulirli al tramonto ai piedi delle mura, attorniati da un gruppo di ragazzi beduini. Fanno parte di una guarnigione di trenta uomini delle truppe speciali dell’esercito di al-Sisi, stanziata permanentemente nel più antico monastero abitato del mondo cristiano, a ridosso del massiccio più alto dell’Egitto, tra centinaia di chilometri di deserto crivellato dai checkpoint e increspato da roventi, incessanti cortine di roccia e sabbia.
Tra la quinta violacea di granito e il cielo blu cobalto, sbalzata nella dura luce dei quasi duemila metri di altezza tra Sahara e Mar Rosso, Santa Caterina del Sinai è la principessa insidiata dal drago, l’emblema imprendibile non solo della cultura e dell’arte di Bisanzio, ma dell’oriente cristiano. L’architettura del VI secolo ha resistito alla conquista del califfato omàyyade e al dominio sciita dei fatimìdi, alle crociate e ai turchi selgiùchidi, al Grand Siècle francese e alla campagna di Napoleone, agli inglesi e all’agonia dell’impero ottomano, alla piena della storia. Enclave greca da sempre abitata dai monaci ortodossi, giardino dell’ellenismo cristiano in terra islamica, nella sua biblioteca si intrecciano le grafie di migliaia di codici, dalla Bibbia Sinaitica del quarto secolo all’ Iliade dell’ottavo, all’esemplare miniato della Scala del paradiso di Giovanni Climaco.
La tradizione ascetica del Sinai attinge all’intero bacino della mistica, all’ancestrale corrente della preghiera continua, che si allarga tra yoga e esicasmo in un unico flusso euroasiatico di suoni e lettere dai riflessi sacri a oriente e occidente.
Da poco la biblioteca è stata chiusa in grandi casse. Per consentire, spiega Father Justin, il padre bibliotecario, un colto americano laureato a Harvard e da lunghi anni monaco sinaita, i restauri finanziati dalla Saint Catherine Foundation britannica. Gli operai egiziani, guidati dai tecnici greci, lavorano all’ampliamento dei locali. Ma quest’arca di scrittura è in bilico su un temibile crinale geopolitico, al centro di un quadrante bellico dove il terrorismo dell’Is ha lasciato sul campo un centinaio morti nell’ultimo mese.
Santa Caterina del Sinai è oggi forse la massima posta in gioco nella partita internazionale per la conservazione dei beni culturali globali. L’offensiva del califfato, che da Ninive a Tunisi a Palmira si è abbattuta sui musei e sui siti archeologici, fa temere per i grandi reperti dell’antichità. È silenziosamente caduta la linea di monasteri bizantini del confine turco-iracheno, lungo l’antico limes – da Qal’at sim’an a Tur Abdin –, lasciando pochi patrimoni intatti, in genere quelli protetti dal prestigio politico della chiesa cattolica, come il monastero di Mar Mattai, di cui una campagna stampa internazionale ha contribuito a mettere in salvo la biblioteca siriaca. Di peso tuttavia irrilevante in confronto a quella del Sinai.
«Questo è il posto più sicuro della terra», mormora padre Justin indulgente e scettico. «I soldati hanno montato la guardia su queste mura ininterrottamente dal VI secolo». Addita il piccolo ingresso nella cortina frontale delle mura: «È stato aperto solo di recente. Quindici secoli fa, quando gli arabi minacciavano questi spalti, il portale giustinianeo è stato murato ». Indica in alto, sopra le sue vestigia, un aggetto solcato da una feritoia: «L’antica canna fumaria della cucina è rimasta per secoli l’unico varco, cui si accedeva con una carrucola». Al centro del cortile, accanto alla basilica di Giustiniano, la moschea bianca dei fatimìdi testimonia che la penetrazione è avvenuta. «Senza danno. L’impatto arabo è stato soprattutto culturale. Stiamo creando, con l’aiuto di uno sponsor, un archivio fotografico digitale dei manoscritti siriaci e arabi, che metteremo gratuitamente online».
Secondo la tradizione fu Maometto stesso, nel secondo anno dell’Egira, a garantire libero `na e a «tutti i seguaci del Nazareno in oriente e occidente, vicini e lontani, arabi e stranieri, noti e ignoti» nel famoso achtiname manoscritto e siglato dall’impronta della sua mano di cui la biblioteca del Sinai conserva varie copie. Una è in mostra nello Skeuophylakion, il museo non lontano dal recinto del leggendario roveto ardente, dove le tre icone preiconoclaste, con al centro il Pantokrator, irradiano la loro prodigiosa luce scura. Dipinte prima della cosiddetta iconoclastia, la fase di interdizione e rielaborazione della teologia cristiana dell’immagine, si sono salvate proprio grazie alla conquista araba. A torto considerata un’eresia, la raffinata disputa sulla liceità della rappresentazione del sacro accomuna il pensiero bizantino e islamico e ne prova la tolleranza. Nella “dura, limpida luce del Sinai”, come l’ha definita Chatwin, il monastero dapprima dedicato alla Trasfigurazione e poi dal IX secolo alla sapiente santa Caterina, leggendaria ipòstasi cristiana della conterranea e quasi speculare martire pagana Ipazia, è un luogo di ibridazione naturale. Ma il pendolo della storia, dopo quindici secoli, è tornato a divaricare il suo corso tra oriente e occidente, e l’avanzata del califfato riprende fin nel nome, anche se solo ideologicamente, quella del VII secolo.
«Il VII secolo non è mai finito. Qui il tempo si misura in modo diverso», sorride Father Justin. Tra roccia e cielo la storia è inscritta in un piccolo scorcio, quasi immutata come la geologia. Oggi come millecinquecento anni fa i soldati della guarnigione presidiano le mura sorvegliate dai beduini da sempre. I bambini intorno ai soldati che alla fine del turno di guardia siedono scalzi nella fosforescenza rosa che precede il tramonto riflesso dal deserto minerale di alta quota sono l’ultima generazione della tribù Gebelia sparsa nei villaggi intorno, gli eredi delle guarnigioni bizantine mandate da Giustiniano a difendere “dai barbari saraceni”, come scrive Procopio, il sito indicato da Elena, madre del primo imperatore Costantino e geniale inventrice della topografia dei Luoghi Santi, come il più sacro: quello in cui Mosè ricevette la legge dal dito di dio ed Elia fu rapito sul carro.
«Si vive come in un forziere», dice padre Justin. Dalla tarda antichità della Peregrinatio Ethaeriae al tardo medioevo di Ibn Battuta e Pero Tafur, all’Otto e Novecento, i pellegrini si sono incolonnati nei secoli verso quella “fine del mondo”, come la chiamò Sir Frederick Henniker: i grandi esploratori inglesi dell’impero ottomano, con una curiosa prevalenza di viaggiatrici donne; i grandi scrittori francesi: Dumas, che «dopo fatiche inaudite» approdò al «porto che la devozione dei cristiani ha saputo serbare ai navigatori di questo oceano di sabbia tra gli scogli di granito»; Pierre Loti, che descrisse «il silenzio inaudito di questa necropoli sospesa a duemila metri di altezza, in mezzo a contrade sprovviste a tal punto di vita umana o animale che l’aria che vi spira è irrespirata, pressoché vergine».
La bellezza quasi intollerabile del Sinai è anche naturale, nasce dalla perfetta sacralità dei luoghi. L’intero sito è patrimonio dell’umanità, tutelato da una risoluzione dell’Unesco che equipara l’unicità storico-artistica a quella del paesaggio. È una pressione estetica cui adattare gradualmente lo spazio del respiro interiore, spiega Father Justin. «Ci vuole quiete e tempo, senso della tradizione e comunione con l’ambiente. Santa Caterina è il presidio di un’unica continuità dispiegata nell’antico e preciso disegno della preghiera e dell’arte, nell’iconografia e nella liturgia, nell’andirivieni dei monaci tra le porte regali dell’iconòstasi come nell’ecosistema naturale della regione e in quello sociale delle tribù del deserto, oggi impoverite dalla chiusura dell’area».
«La natura visibile del luogo gli torse l’anima verso l’invisibile», scrisse nel VII secolo Daniele, igumeno del Sinai, nella Vita di Giovanni Climaco. Come nella filosofia bizantina è sacra l’immagine che sotto l’apparenza di una forma materiale svela in trasparenza un sovramondo ideale così secondo la teologia ortodossa per trascendere la materia occorre immergersi misticamente nella natura sensibile del mondo intravedendo «tra le sue crepe l’azzurro dell’eternità». All’idea ortodossa del mondo visibile come iconòstasi, soglia di comunicazione tra umano e divino, si è recentemente inchinato il papa nella sua enciclica sulla salvaguardia estetica e culturale del creato.
«La bellezza salverà il mondo», diceva Dostoevskij. Oggi sta al mondo, al dialogo fra i governi e in particolare a quello appena rinato tra le chiese, salvare il tesoro di tradizione e bellezza dell’oriente cristiano chiuso tra antichissime mura sotto la vetta sacra a tre religioni. Come il cavaliere impietrito nella luce di un ininterrotto ciclo orientale-occidentale di dipinti, salvare Santa Caterina del Sinai, la principessa insidiata dal drago dell’integralismo.
Silvia Ronchey, la Repubblica 5/8/2015