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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

IL CICLONE TRUMP INFIAMMA L’AMERICA. COSÌ IL MAGNATE FA TREMARE I BUSH

Circonfuso da una vampata di capelli biondorossicci richiamati che gli incendiano la testa al primo vento, seduto su una ricchezza che lui valuta a otto miliardi di dollari, Donald Trump ha fatto irruzione come una boccia da bowling tra i pallidi birilli degli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca.
Irriso da chi ne segue da anni le fanfaronate, considerato impresentabile dalla stragrande maggioranza degli stessi elettori repubblicani in giugno e uno scherzo di cattivo gusto da analisti, osservatori, politologi e dall’immancabile Nobel Paul Krugman, in questa prima settimana di agosto l’uomo che si crede un grattacielo ha steso tutti i sedici birilli avversari nei sondaggi. Il meno lontano è l’erede designato al Trono dei Bush, Jeb, che con il 12 per cento di sostegno sta a meno della metà del 26 per cento di Trump.
Il propellente che ha sparato il sessantanovenne e trimaritato Donald dal ridicolo per mandarlo nell’orbita dei favoriti, è fatto della stessa miscela che sta sparando in alto movimenti, imbonitori, demagoghi, arruffapopolo di vario colore in altre nazioni dell’Occidente inquieto: la frustrazione insieme confusa e ringhiosa di una middle class che sta assistendo all’erosione quotidiana della propria collocazione sociale. E che accusa la classe politica, gli stranieri, le minoranze, i “liberal”, i radical chic e dunque la capitale per definizione corrotta, Washington, per la propria crisi, immaginata fra le moltitudini insaziabili degli “scrocconi” che vivono di sussidi pubblici e la cricca dei politicanti che li protegge per avere voti.
Il fatto che Donald Trump, miliardario che fece causa a Tim ‘O Brian del New York Times per avere insinuato che lui “valesse” soltanto 250 milioni e il resto fossero buffi cotonati come le sue grottesche coiffure, appartenga a quello 0,1 per cento degli americani che hanno risucchiato la ricchezza nazionale prosciugando il lago della classe media, non sembra turbare, per ora, gli elettori repubblicani. I sondaggi provano come molti di loro siano ancora ipnotizzati dalla deliziosa fiaba reaganiana della ricchezza che, presto o tardi, scenderà anche verso di loro, mentre da una generazione sta invece sfidando la legge di gravità, fluendo dal basso verso l’alto.
La sua tecnica, messa a punto nei decenni da quando prese in mano la modesta impresa edile del padre Frederick in Queens fino alla costruzione del più grande casinò mai edificato ad Atlantico City, il Taj Mahal, già fallito, è riassunta in un famoso aforisma di Oscar Wilde, secondo il quale «Niente ha successo come l’eccesso». Nel tempo delle cavere di risonanza globali offerte da Rete e dai Social Network come Twitter, ai quali lui partecipa, e della spasmodica prudenza del politicante di professione terrorizzato dall’eco di gaffe e parole sbagliate, Trump teorizza l’opposto: «La correttezza politica mi annoia e mi fa perdere tempo. Dico quello che mi pare e se non vi piace peggio per voi».
Ed eccolo allora, mentre i sociologi e i politilogi avvertono i candidati che il voto degli ispanici sarà sempre più decisivo, sparare a sale contro «i messicani stupratori, fannulloni e delinquenti», contro le icone dell’America afro, come il reverendo Al Sharpton, in favore di tutte le armi, contro Obama, non solo un traditore e un inetto che sta vendendo l’America al mondo, ma un usurpatore, neppure nato negli Stati Uniti. I nativi, gli indiani mohawk che avevano tentato di costruire un casinò che avrebbe fatto concorrenza ai suoi resort, eretti facilmente in un’Atlanic City dove non si piantava un chiodo senza la benedizione dei “Bravi Ragazzi”, sono ladri e disonesti. Chiunque osasse, od osi, criticarlo o sfotterlo, come il comico Bill Maher che lo definì un incrocio fra un uomo e un orango, sa di ricevere querele che arrivo fino al miliardo che domandò (senza successo) al New York Times.
Naturalmente, è tutta fiction, tutto un reality show come quell’Apprendista che nel 2004 la rete Nbc produsse per lui, nella quale lanciava o licenziava aspiranti collaboratori con un gesto della mano e un soffio della sua capigliatura. Non piace a tutti, certamente non alla Nbc che ha cancellato il suo show e ha rifiutato di trasmettere le prossime edizioni di Miss Universo e Miss America delle quali lui è proprietario, specialmente dopo che una miss delusa ha rivelato che i risultati sono ancora più truccati delle concorrenti. Lui stesso, è ben diverso dal personaggio clownesco che interpreta, forte di una laurea in Economia ottenuta in una più selettive università americane, la Wharton School of Economics.
La sua abilità nel concludere deal, nel fare affari vantaggiosi, è leggendaria, come dimostrò acquistando da un ricco bancarottiere della Virginia una tenuta da 41 milioni per soli 6 e rivendendola sei mesi più tardi per 60.
Anche le cinque bancarotte sofferte dalle sue imprese — ma non da lui personalmente, precisa, minacciando querele — sono parte del mito che in fondo piace, perché, anche nell’ora delle grida alla Thomas Piketty contro la sproporzione della ricchezza negli Stati Uniti, l’abbondanza del danaro, il successo finanziario rimangono nel profondo della anima calvinista americana un invidiabile segno di approvazione divina. E ci saranno sempre più elettori disposti a credere in un Reagan o in un Donald Trump, anziché pronti a “Occupy” Wall Street.
Le accuse di essere un magnifico baro, uno che, raccontano ridendo i suoi avversari a golf, non esita a spostare a calcetti le palline degli altri per rendere più difficili i colpi e a sistemarsi meglio le proprie, o i divorzi, come quello sensazionale dalla olimpionica ceca di sci, Ivana, o dalla modella Marla Maples, alimentano la fama: ed è la notorietà, quella scritta a colossali caratteri d’oro sugli edifici che sponsorizza o costruisce, il suo vero asset. Il settimanale Atlantic lo ha definito la «Paris Hilton del business», uno che è famoso soltanto per essere famoso, ma il secondo grattacielo più alto di Chicago lo ha costruito lui, non la Hilton.
Ora lo attendono i dibattiti in tv, il primo domani sera, e poi le Primarie da gennaio, che possono essere insieme il trampolino e la trappola mortale per gli aspiranti presidenti che partono da posizoni radicali. Ma per ora, tutti ci divertiamo molto con il giocattolo Donald, anche Homer Simpson che ne ha fatto una macchietta, anche il celebre giornalista politico Chris Cilizza, che si è pubblicamente scusato per averlo sottovalutato. Non diventerà mai presidente degli Stati Uniti (lo scrivo sperando che non mi quereli), perché il pensiero di avere il dito di Donald sul bottone rosso dell’arsenale nucleare spegnerà le fiamme della sua chioma. Ma sta offrendo qualche brivido di interesse in una stagione elettorale che aveva minacciato la battaglia a bagnomaria fra le minestre riscaldate dei Clinton e dei Bush.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 5/8/2015