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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

OSSESSIONATI DALLA LUCE D’AGOSTO

Dicono che una sera d’estate del 1932, William Faulkner fosse seduto in veranda accanto a sua moglie. Guardava il tramonto, quando la moglie esclamò: «Niente è paragonabile alla luce d’agosto, non è vero?». A quel punto, lo scrittore si alzò di scatto, andò nel suo studio e cambiò il titolo del romanzo, il terzo, che stava finendo: non più «Dark House» ma «Light in August». Titolo bellissimo, cui alcuni critici attribuiscono significati doppi e tripli: «light» è un aggettivo che significa leggero, e come verbo designa anche il parto delle mucche. Il libro si apre con Lena Grove, una giovane povera e incinta che dall’Alabama arriva a piedi nella contea di Yoknapatawpha, luogo immaginario ricorrente in Faulkner, per cercare il padre del suo bambino non ancora nato.
C’è molta estate nei libri di Faulkner, l’estate porta con sé un’avvisaglia lugubre, una minaccia funebre: è come se il nero, dentro quella luminosità implacabile fulgida nitida, fosse ancora più nero. In apertura di «Luce d’agosto», la morte dei genitori di Lena avviene nella stessa estate triste, in una casa fatta di tronchi, con una lampada a cherosene, senza reti per le zanzare e con un vortice d’insetti nell’aria. Ventagli di foglia di palma cercano di attenuare la calura insopportabile, l’«immobile silenzio del pomeriggio di agosto», che avanza lento come un carro trainato da cavalli stanchi, sa di pino e di mosto. I personaggi di Faulkner continuano a guardare il sole alto, finché arriva la consolazione della luce obliqua serale e si può cominciare a stare in veranda. L’estate non fa che esaltare l’immobilità e la «solitudine assolata della terra immensa», e le figure allucinate, come quella del nero-bianco Christmas, l’assassino, ambiguo e imprendibile, piantato nel mezzo del romanzo a prendersi tutta la luce e a creare tante ombre diverse.
«Zanzare». C’è un romanzo del 1927 che si intitola così ed è una satira del mondo artisticoletterario, delle discussioni che nascono intorno alla bellezza, all’arte, al sesso. Si apre con un accenno alla «dolce giovane primavera» passata, a contrasto con l’agosto «simile a un pingue uccello languido» che «volava lentamente attraverso l’estate pallida verso la luna del disfacimento e della morte». In estate le zanzare (mai pronunciate con il loro nome ma alluse anonimamente), prima piccole e fiduciose, si fanno «più grosse e accanite», «onnipresenti come impresari funebri, furbe come strozzini, inevitabili e sicure di sé come uomini politici», «invadenti e mostruose ma senza maestà». Bisogna tornare a «Luce d’agosto» per ritrovare l’inevitabilità delle zanzare che ronzano lì intorno da quarant’anni.
È un’ossessione, l’estate, per Faulkner. Aprite «Assalonne, Assalonne!» e gustatevi il crescendo feroce degli aggettivi. Siamo subito immersi nel «lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio» di un inizio di settembre. Claudio Magris ha scritto che aprendo il romanzo «ci si sente perduti e confusi, abbagliati da quelle lame di luce estiva che penetrano, attraverso le fessure delle persiane chiuse, in quella buia stanza in cui la voce, anzi le voci, cominciano a narrare dall’oscuro fondo del tempo una grandiosa storia di passione, fatalità, vanità e tragedia». Tutta quella luce non fa che mettere a nudo le ombre dello squallore morale, degli abissi dell’alcol, delle infamie e degli intrighi familiari, delle lacerazioni razziali. Vere e proprie allucinazioni dell’irrazionale.
E si potrebbe continuare con tante altre estati faulkneriane. Ma è in «Mentre morivo» — scritto non a caso nell’estate del 1929, a 32 anni, nelle ore notturne di pausa mentre lavorava come fuochista alla centrale elettrica dell’Università di Oxford, nel Mississippi — che le peculiarità della stagione meteorologica incidono più a fondo non solo nella trama della narrazione ma anche nel tessuto psichico dei suoi personaggi. È un luglio torrido e piovoso quando una famiglia di contadini del Mississippi veglia la madre morente Addie; intanto, qualcuno prepara la bara che su un carro la porterà, secondo il desiderio della vecchia, verso Jefferson, il paese d’origine.
Si avvertono sin dall’inizio i segni di una pioggia estiva imminente: «Il sole, da un’ora sopra l’orizzonte, si posa come un uovo sanguigno su una cresta di nubi tempestose; la luce ha preso sfumatura color rame: minacciosa all’occhio, solforosa al naso; puzza di lampi». Solo nel ricordo dell’infanzia l’estate è un mese felice: «Da bambino ho imparato che l’acqua prende un sapore molto più buono quando è rimasta per un po’ in un secchio di cedro. Tiepida, con un sapore che ricorda leggermente quello del vento caldo di luglio tra i cedri». Dio mio, che grandissimo scrittore, Faulkner! Nessuno come lui sa (e fa) amare e odiare l’estate.