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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

«Francesco Baracca era tutto un’ala di guerra, cuore e motore, tendini e tiranti, ossa e centine, sangue ed essenza, animo e fuoco, tutto una volontà di battaglia, uomo e congegno

«Francesco Baracca era tutto un’ala di guerra, cuore e motore, tendini e tiranti, ossa e centine, sangue ed essenza, animo e fuoco, tutto una volontà di battaglia, uomo e congegno. L’ala s’è rotta ed arsa, il corpo s’è rotto ed arso. Ma chi oggi è più alato di lui? Ditemelo. Il suo spirito è un demone di vittoria». È il 26 giugno 1918 e il poeta Gabriele d’Annunzio celebra con una solenne orazione funebre la memoria del grande aviatore. Baracca era morto sette giorni prima. «Una bestia di fuoco e velocità/ cinque quintali di pura bellezza/ Un angelo giallo come un lampo/ e improvviso come una faina/ Nessuno ci stava dietro/ Senza peso, senza ingombro, solo pensiero veloce/ Le donne si innamoravano dell’aeroplano e del mio coraggio/ Di lassù c’è un’altra vista del mondo/ un altro panorama della vita/ Non avremmo potuto invecchiare mai…». È l’anno 2001 e il cantautore Francesco de Gregori scrive Spad VII S2489 (si chiamava così uno degli aerei di Baracca) per celebrare la storia romantica e tragica dell’aviatore e della sua «bestia di fuoco». Oggi esce un libro. L’hanno scritto Luca Goldoni e il figlio Alessandro. S’intitola semplicemente Francesco Baracca (Bur). Ma porta un sottotitolo amaro: L’eroe dimenticato della Grande guerra . Racconta di una vita troppo breve per essere giusta e tanto intensa da sforare nel mito. Comincia il 9 maggio del 1888 a Lugo di Romagna. Francesco è figlio di famiglia ricca. Ricco è il padre, Enrico, possidente terriero. Nobile, e facoltosa, è la madre, contessa Paolina. Il giovane Baracca crescerà bello ed elegante. Appena gli spuntano i peli in faccia, si fa i baffetti alla Clark Gable. È colto, non soltanto per gli studi dai padri Scolopi, ma per la curiosità verso tutte le cose e tutte le novità del mondo. Diventerà ufficiale di cavalleria. «E quando trasferiscono il suo squadrone a Rieti-Roma — scrivono i Goldoni — il nostro non perde un’occasione fra concorsi ippici, ricevimenti, cacce alla volpe, amori corsari con qualche amazzone propensa a cavalcare anche fra le lenzuola». Va a Parigi, ufficialmente per «perfezionare la lingua», come scrive alla madre; in realtà per prendere il brevetto di pilota nella Sorbona degli aviatori. E, già in quegli anni giovanili, Baracca mostra tutto il suo talento: con gli aeroplani e con le femmine. Scrivono i Goldoni: «È stato probabilmente in quei giorni che Francesco ha conosciuto Marcelle, durante quegli eccitanti tour per le vie e i celebri locali della Ville Lumière. Lei è una cantante e ballerina forse di can can, come l’astro nascente Coco Chanel. È alta, bionda e sinuosa, l’ironico charme delle parigine, la voglia di vivere dei vent’anni… Un amore-meteora molto erotico e passionale, probabilmente consumato insieme a libri che Baracca acquista durante il soggiorno francese: Le livre d’amour de l’Orient e KamaSutra de Vatsyayana ». Ma sarebbe riduttivo ricordare soltanto i successi di Francesco nel cielo dell’amore. I più grandi successi li ha ottenuti nel cielo, quel brutto cielo, della Grande guerra. Ne ha fatti fuori 34 di aerei nemici. Nessuno aveva il suo «manico», la capacità di tenere insieme cloche e pedaliera, cioè i comandi dell’aereo. Nessuno sapeva come lui arrampicarsi nella fusoliera del suo caccia tendendo la cloche tra le ginocchia per raggiungere la mitragliatrice altrimenti inarrivabile e quindi inutile. Ma a una signorina che liricamente gli chiedeva: «Come fai ad avere questa sensibilità per governare questo animale volante?»; rispondeva senza volgarità: «Io l’aereo lo sento con il culo: sono le vibrazioni che mi trasmette lì che mi danno il senso del volo». Baracca non voleva uccidere il nemico. Ne aveva grande rispetto. Voleva soltanto abbatterlo, possibilmente lasciandolo vivo per poi atterrargli vicino. E stringergli la mano. E, se era ancora in condizioni di accettarlo, offrigli un sorso dalla bottiglia di vino Albana di Romagna che viaggiava nei cieli con lui. Solo un rimpianto s’è portato dentro il nostro Baracca. Quello di aver cercato tra le nuvole dell’Europa in guerra l’unico bravo come lui e di non averlo mai intercettato: il «Barone rosso», Manfred von Richthofen, che con il suo Fokker triplano aveva abbattuto 81 aerei nemici. Si sono cercati e non si sono mai trovati, i due campioni. Non combattevano per dare la morte. Né il «Barone rosso» né l’«Asso italiano» avevano un istinto assassino. Erano come i duellanti di Joseph Conrad che si sono inseguiti per una vita a rincorrere l’utopia della singola superiorità. Il duello non avvenne. Il «Barone rosso» morì due mesi prima di Francesco Baracca. Nessuno ha mai potuto dire: «L’ho abbattuto io!». Così come nessuno può rivendicare la morte dell’Asso italiano. Le loro uscite di scena sono misteriose. Baracca sparì alla vista del giovane tenente che gli copriva le spalle in volo il 19 giugno 1918. Era la «Battaglia del solstizio», quella in cui gli «incapaci-di-volare» comandanti dell’aviazione italiana mandarono la 91ª squadriglia di Baracca a un suicida attacco contro le postazioni nemiche di terra. Il mitico aviatore italiano venne trovato morto, ma non vicino al suo aereo. E con un proiettile conficcato in testa… Passano cinque anni e un altro pilota, questa volta di automobili da corsa, vince una gara nella Romagna di Baracca. Il suo nome è Enzo Ferrari. Ad applaudirlo c’è il padre di Francesco, Enrico Baracca. Ed è così che sull’aereo di Baracca c’era il «Cavallino rampante», sulla Ferrari di oggi c’è sempre il «Cavallino rampante».