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 2015  agosto 01 Sabato calendario

È PICCOLA, LENTA E BIANCA MA ORA È DAVVERO LA PRIMA

Rebecca “Becky” Hammon girava per casa con un pallone da basket appena dopo aver imparato a camminare. A cinque anni palleggiava con tutte e due le mani. A otto giocava nei tornei Ymca: ma a Rapid City, South Dakota, 70 mila abitanti, non c’erano molte bambine attratte dal basket e la misero fra i maschi. A 10 i ragazzi la chiamavano alle partitelle tre contro tre, nei parchi. È stato attorno a quell’età che riuscì per la prima volta a schiacciare: in casa, con suo padre inginocchiato, e il canestro attaccato allo stipite della porta. «Pa’, ci riuscirò mai con uno vero?», chiese. «No, Becky, non ce la farai mai».
Quando entrò alla Stevens High School, era arrivata a 168 cm. Era troppo piccola, troppo lenta, ma sapeva manovrare la palla e vedeva il gioco. «Alcuni possono sopravvivere grazie alle loro doti atletiche. Io ho imparato a sopravvivere con il mio cervello», ha detto. Al secondo anno si prese il posto di point-guard. Chiuse la carriera liceale con tutti i record della scuola in qualsiasi statistica significativa, meno il campionato statale.
Ma nessuno scout universitario presta attenzione a una che è troppo piccola, troppo lenta, bianca e viene dal South Dakota. Nessuno eccetto Kari Gallegos-Doering, allora assistente a Colorado State: «Aveva qualcosa di speciale, che non si vede spesso», ha detto. Le offrì una borsa di studio. Hammon ha messo le Rams sulla mappa del basket, le ha portate alle Sweet 16, e quando si è laureata era in testa alle classifiche per punti, assist e tiri da 3, oltre che aver superato Keith Van Horn come miglior marcatore nella storia della Western Athletic Conference.
Ma nessuno scout della Wnba fa caso a una che è troppo piccola, troppo lenta, bianca e viene da un’università di seconda o terza fascia. Al draft del 1999 il suo nome non venne chiamato. Le New York Liberty le offrirono uno di quei contratti-ghigliottina all’apertura del training camp. Si guadagnò un posto in squadra. Per tre volte venne votata all’All-Star Game, ma nel 2007, nonostante fosse finita seconda dietro all’australiana Lauren Jackson nella votazione per la Mvp, la mandarono a San Antonio.
Quello stesso anno, non la convocarono al raduno della nazionale per l’Olimpiade di Pechino. Lei, che durante la off-season giocava in Russia, nel Cska Mosca, e da piccola sognava di andare ai Giochi, chiese la nazionalità e vinse il bronzo: Anne Donovan, il coach Usa, la accusò di «non essere patriottica» (poi ha ritrattato). Ci è tornata a Londra 2012, questa volta senza medaglia. È stato sul volo di ritorno che ha incontrato Gregg Popovich, l’allenatore degli Spurs. Hanno chiacchierato di tutto, men che di basket.
Nel luglio 2013 le è saltato il legamento crociato anteriore sinistro. Durante la riabilitazione, ha chiesto a Popovich se poteva assistere agli allenamenti, alle riunioni dello staff e alle partite, senza essere pagata. Il 5 agosto 2014 è stata assunta come assistant coach, prima donna nella storia della Nba. La settimana scorsa, ha vinto il torneo di Las Vegas, il più importante dell’estate Nba. «Quando sei da un po’ nel giro, sai chi può allenare e chi no. Lei è come Doc Rivers, come Steve Kerr. E sa leggere un pick-and-roll come Tony Parker», ha detto Popovich. E l’anno scorso, appena dopo che Pop le ha formalizzato l’offerta, Hammon ha chiamato sua madre. Aveva la voce spezzata dai singhiozzi: «Mi hanno scelto. Nessuno mi ha mai scelto. Mi hanno scelto», le disse.