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 2015  agosto 04 Martedì calendario

WALLIS, LA DONNA CHE SAPEVA TROPPO

“La duchessa” è il titolo italiano del libro che Caroline Blackwood dedica a Wallis Simpson, ovvero l’americana divorziata, la borghesuccia di Baltimora, la novella Moll Flanders in cerca di mariti che la mantengano nel lusso, per amore della quale il principe Edward, duca di Windsor, rinuncia alla corona. Correva l’anno 1936. In inglese il titolo suona “The last of the Duchess”, e a un orecchio allenato viene in mente il titolo di una poesia di Browning, “My last Duchess”, un componimento in pentame-tri
giambici a rima baciata, ispirato alla morte di Lucrezia de’ Medici, che nell’Inghilterra vittoriana trasferisce Eros e Thanatos sullo sfondo delle corti italiane. L’Italia, il Rinascimento sono sempre state per gli inglesi le unità di luogo e tempo perfette per storie di intrighi e scandali. Così da subito Lady Caroline ci invita a leggere il romanzo come una tragedia elisabettiana di ambiente italiano, una specie di remake della Duchessa di Amalfi , di Webster. Un noir, un racconto horror in chiave erotica, una piéce macabra dove il tono ironico si contamina con quello tragico.
Del resto convivono nel carattere dell’autrice, e più precisamente nel lato irlandese del suo (alto) lignaggio, sia l’umorismo sia la tragedia. Caroline Blackwood appartiene a una famiglia dell’aristocrazia anglo-irlandese; per parte di padre, nel ramo principale l’albero genealogico la congiunge a Sheridan, brillante drammaturgo settecentesco, la cui Scuola della maldicenza è un classico nel genere commedia libertina; mentre dal lato materno è una Guinness, anche se ci tiene a dire che detesta la birra. Con la stessa intensità detestò la madre Maureeen, marchesa di Dufferin e Ava, troppo impegnata nella vita mondana per occuparsi dei figli.
Come che sia, queste relazioni torneranno utili quando Caroline cresce e ribellandosi al destino che la condannava al matrimonio coatto con un erede altrettanto aristocratico, scopre la sua vera vocazione, quella del giornalismo e della scrittura. Ne ha storie da raccontare: il beau monde che ha rifiutato è pieno di intrighi e di scandali, e ne è piena la sua stessa esistenza, che conosce sì la nobiltà, ma anche molta, molta miseria. Sì che, in una dissolvenza inquietante da dietro i lineamenti aristocratici – il volto magro, gli enormi occhi azzurri, quasi delle pozze liquide che lasciano immaginare un pianto appena asciugato – affiora il volto piagato di Giobbe. Fu lei stessa a domandarsi perché mai Lucian Freud, una specie di Byron bello e dannato con cui all’inizio degli anni Cinquanta scappa a Parigi, la rappresenti così: il volto intorpidito dal dolore, lo sguardo perso nel vuoto. Perché, si chiederà anni dopo, quando ormai la relazione col pittore è finita, perché mi ha fatto così vecchia, visto che era un ragazza? Nell’intimità di quei ritratti in realtà il grande artista, che non fu un grande marito, coglie però il sentimento di solitudine che è la cifra dell’esistenza del suo soggetto.
La solitudine è al centro della biografia kafkiana della Duchessa. Kafkiana, perché non facciamo che aggirarci nelle stanze di un castello vuoto, che vuoto rimarrà fino alla fine. Nelle pagine che l’autrice scrive, la grande assente è proprio lei: Wallis Simpson.
Le cose andarono così: visto che ha le giuste conoscenze in quel mondo, nel 1980 il Sunday Times incarica Caroline Blackwood – la quale nel frattempo, oltre che protagonista della dolce vita degli artisti che a Londra si incontrano al Gargoyle e al Colony Club, s’è fatta scrittrice à la Muriel Spark , à la Iris Murdoch – di scrivere un articolo sulla duchessa di Windsor, che ormai vedova – il principe è morto nel maggio 1972 – si è ritirata a vivere a Parigi in un palazzo che dà sul Bois de Boulogne. Lord Snowdon, ex marito della principessa Margaret, farà il servizio fotografico. Un bel team, dal punto di vista del giornale che mira alle vendite e conosce quanto il suo pubblico si accenda alle notizie che riguardano la famiglia reale. Senz’altro la coppia della plebea americana e del principe innamorato ancora titilla la fantasia del sempre monarchico cittadino medio British, che ancora non ha chiaro perché il principe, diventato re Edoardo VIII, abbia perso la testa per quella donna strana, abdicando al trono britannico l’ 11 dicembre 1936. Sarà perché nessuna meglio di lei era brava nel sesso orale, come sosteneva con enfasi e per esperienza Jimmy Donahue, lo sfacciato omosessuale di cui Wallis s’era invaghita? Forse il principe era omosessuale? E masochista? E amava Wallis per le umiliazioni che da lei subiva?
Caroline parte per Parigi con varie lettere di presentazione, ma si trova di fronte l’insormontabile ostacolo di un cane da guardia tra i peggiori, Maître Suzanne Blum. Ovvero, l’avvocata ebrea francese più che ottantenne, che ha ottenuto la tutela esclusiva della duchessa. Farà di tutto, Caroline, ma non otterrà accesso a quella che dovrebbe essere la protagonista dell’intervista. E si ritroverà – è lei stessa a dirlo – a scrivere la storia di «una vecchia orribile tenuta prigioniera da un’altrettanto orribile vecchia», una storia infame, il raccapricciante ritratto inciso col bisturi nella carne di due vecchie donne avvinte in una relazione perversa, macabra. È amore, quello che lega le due? O è odio? E che differenza c’è tra l’odio e l’amore? Perché Wallis è caduta nelle trame di Maître Suzanne? E perché Suzanne la tratta così? Per quale specie di pena del contrappasso una donna come Wallis che adorava la libertà fino al punto della licenziosità, che amava come poche altre cose al mondo volare, si è consegnata alla propria carceriera?
Alla perfezione Caroline Blackwood descrive il paradosso dell’amore. Non quello in fondo strumentale della duchessa per il duca, ma quello davvero patologico di Maître Suzanne per Wallis. E quello che doveva essere un racconto mondano, acquisisce un tono morale; diventa quasi un’allegoria dove si dimostra come l’unica passione che possa riempire una vita oziosa e vacua è quella del potere.