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 2015  agosto 02 Domenica calendario

CHE COS’È UN GIOCO

Xenia ha due anni. Ama manipolare oggetti di uso comune: scuoterli, metterli in bocca, smontarli, gettarli per la stanza e contro le pareti. Così facendo, accumula preziose informazioni sul mondo; ma non è l’apprendimento a motivarla. Xenia sta giocando, e giocare è un’attività fine a sé stessa. The Aesthetics of Play, di Brian Upton, comincia con una definizione di gioco: «Il gioco è movimento libero entro un sistema di vincoli». E, in base a questa definizione, quel che fa Xenia non è gioco. Si potrebbe pensare che lo fosse, perché Xenia si muove liberamente entro i vincoli esercitati dall’ambiente; ma chi lo pensasse sottovaluterebbe il peso della parola «sistema» nella definizione di Upton. I vincoli devono essere, appunto, sistematicamente organizzati: avere ciascuno «una funzione specifica nell’esperienza complessiva», formulare regole precise che strutturino l’esperienza. Altrimenti, osserva Upton, qualsiasi attività finirebbe per essere un gioco. Upton è un game designer e guarda al gioco con l’obiettivo di offrire ai consumatori le gratificazioni che seguono a compiti ben eseguiti. Il gioco non deve mostrare «il carattere confuso e casuale della vita quotidiana». Sono necessarie sorprese per tener desto l’interesse, ma ogni sorpresa deve essere appianata, ogni nodo deve essere sciolto. Quindi, per ritornare da direzione diversa allo stesso punto, un’attività inconcludente come quella di Xenia non può essere considerata un gioco.
Upton non crede che una definizione debba cogliere l’essenza del definiendum e in particolare che la sua definizione di gioco debba essere giudicata «corretta». Scopo di una definizione è invece, afferma, quello di «dar luogo a una conversazione produttiva». Sorge allora la domanda: a quale conversazione produttiva intende dar luogo la sua definizione? Un terzo del libro è occupato da un’estensione del suo concetto di gioco alla realizzazione e soprattutto alla fruizione di opere letterarie; e le sue analisi in proposito sono plausibili e sensate. Il lettore di un romanzo, spiega, è costantemente coinvolto (come il partecipante a un videogame) in un gioco di anticipazione della prossima «mossa» che farà l’autore; di conseguenza, contempla una varietà di scenari possibili, è talvolta sconcertato da eventi che prendono una strana piega e costretto a ripensare trama e personaggi, finché, come c’è da aspettarsi in una prospettiva del genere, le tensioni si risolvono e il percorso arriva a una sua naturale conclusione.
Se pure trascuriamo l’immagine edificante e consolatoria che viene così assunta dalla letteratura, rimane il fatto che nell’elaborare le sue tesi Upton si muove su un territorio ampiamente dissodato, per decenni, da autori come Sartre e Wolfgang Iser, da lui peraltro diligentemente citati. Quindi la domanda di prima continua a porsi: siccome è chiaro che la principale ragion d’essere del libro va individuata in questa applicazione «culturale» di una certa idea di gioco, come può essere «produttiva», cioè innovativa, la conversazione che ne risulta?
La risposta la troviamo all’inizio di un capitolo intitolato «Gioco narrativo». Upton riporta l’opinione di un altro game designer, Greg Costikyan: la struttura di un racconto è molto diversa da quella di un gioco; consta di un singolo tracciato che il lettore non può modificare. E Upton commenta: «Questo atteggiamento è estremamente comune fra gli studiosi di giochi». È un atteggiamento che Upton fa sforzi meritori per contrastare; chi fra i suoi colleghi venga convinto da tali sforzi guarderà alla letteratura e ad altre forme artistiche con occhio più attento e mente più aperta, ricavandone importanti lezioni. Ma sono sforzi (e progressi) settoriali, rivolti a un pubblico selezionato e destinati, nel loro ambito, a riscoprire l’acqua calda e a manifestare i propri limiti – nel nostro caso, a non riconoscere il gioco di Xenia, la quale non ha (ancora per poco, forse) l’età giusta per fungere da consumatore dei prodotti di cui, in modo più o meno esplicito, stiamo discutendo.
Il gioco è caratteristica universale e fondante dell’essere umano – direi anzi: dell’essere. A differenza di altri fenomeni di portata analoga (la politica, la guerra, il sesso...) non se ne parla un granché. Quindi non posso che rallegrarmi per l’uscita di un libro come quello di Upton, in una collana (Game Studies, della Mit Press) interamente dedicata alla teoria e pratica dei videogames. Allo stesso tempo, però, non posso che sperare in un futuro in cui uno di questi libri riesca a scuotere le barriere (i vincoli?) della disciplina emergente cui appartiene e aprire una conversazione davvero produttiva su qualcosa che possa legittimamente aspirare all’ambizioso nome di una aesthetics of play – in cui si colga con approvazione l’elemento ludico presente in ogni attività e anche la bellezza di quel che fa Xenia.
Ermanno Bencivenga, Domenicale – Il Sole 24 Ore 2/8/2015

Brian Upton, The Aesthetics of Play , Cambridge (MA), Mit Press, pagg 324, $ 29,95