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 2015  agosto 02 Domenica calendario

LA BOLLA CINESE, IL RISCHIO-CONTAGIO E LE «MURAGLIE» PER DIFENDERSI

Nell’ultima settimana la Borsa di Shanghai ha perso il 10%. L’indice Paneuropeo Stoxx 50 è rimasto fermo (+0,02%). Wall Street, nella versione S&P500, addirittura è salita dell’1,16%. Due direzioni opposte, due mondi separati. Uno scenario che, allungando lo sguardo al passato, non cambia. Da metà giugno, da quando cioè la Bolla cinese è scoppiata, lo Shanghai Composite index ha lasciato sul terreno circa il 29% del suo valore. Le blue chip del Vecchio continente, invece, hanno guadagnato oltre il 3,3%. Certo,i singoli numeri raccontano sempre metà della storia. E, tuttavia, l’indicazione di fondo è innegabile: il tracollo non ha (fin qui) contagiato il mondo occidentale. Le spine sono rimaste nel giardino del Dragone. Non a caso. I limiti all’investimento dall’estero sul mondo azionario hanno fatto da argine. A ben vedere Pechino, nel recente passato, si è mosso per aprire i mercati agli investitori stranieri. In particolare, nel settore delle obbligazioni. Gli «stranieri», che possiedono meno del 3% dei 6,4 trilioni di titoli made in «China», non si sono però fatti convincere. L’opacità del comparto, la sua frammentazione rendono difficile districarsi tra un’offerta che, per molti, è eccessiva. Così, le problematiche non hanno per adesso superato la Grande Muraglia. Questo, tuttavia, non significa che i problemi non sussistano. La cinghia di trasmissione dell’instabilità ha diversi modi per espandere i suoi effetti. In primis, attraverso le materie prime. Pechino, anche per la volontà di convertirsi ai consumi interni, va rallentando l’appetito per le commodities. Una dinamica che, da una parte, contribuisce al calo dei loro prezzi; e, dall’altro, mette in difficoltà i Paesi produttori/esportatori di materie prime. Un esempio? Il Brasile. Lo Stato carioca, soffocato dagli stessi scandali che sempre di più lambiscono il Governo, è finito in recessione. E, secondo il terminale Bloomberg, diversi suoi titoli di Stato, dopo che S&P ne ha abbassato l’outlook, sono ormai trattati dagli operatori come «spazzatura». Può dirsi: il tema riguarda solo gli emergenti! Sbagliato. La cinghia di trasmissione, nel mondo globalizzato, si estende all’Occidente. Molte multinazionali del Vecchio continente, e statunitensi, hanno costruito i loro budget sulla crescita negli emerging market. Se questi ultimi, anche per l’atteso rialzo dei tassi da parte della Fed, ingolfano il motore i guai si fanno seri. Insomma: nel mondo finanziarizzato e globalizzato, dove le reti tecnologiche permettono lo spostamento immediato dei capitali (trasformati in semplici bit), ipotizzare di essere al riparo dalla valanga è utopia. Ciò detto, però, una speranza rimane. Proprio il mancato contagio dalla Borsa di Shangai offre un’importante suggestione. È possibile, sia attraverso normative che strategie delle istituzioni, limitare i danni. La Bce di Mario Draghi, con l’allentamento quantitativo, ha impedito che l’incendio greco si propagasse a tutta l’Eurozona. Un muro, costruito dalla politica monetaria, che fin qui ha retto. Certo, la domanda è scontata: la Cina, tra i suoi Draghi, avrà quello giusto?
Vittorio Carlini, Il Sole 24 Ore 2/8/2015