Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 02 Domenica calendario

RUFFINI TRIONFA NELLA 25 KM POI LA DICHIARAZIONE D’AMORE «AURORA MI VUOI SPOSARE?»

DAL NOSTRO INVIATO KAZAN Sotto la pioggia nelle acque scure, con lo stomaco a pezzi e un americano che gli mordeva le caviglie, a Simone Ruffini restava una sola possibilità: uscire in fretta da lì.
Così è partito, ha attaccato una volta, due, tre, finché Alex Meyer è crollato. Domato lo yankee, domato il fiume Kazanka, è entrato nel corridoio del traguardo con una leggerezza assurda per uno che stava in acqua da 25 chilometri e quasi cinque ore, dando di gambe come stesse facendo i 50 e avventandosi sulla piastra del traguardo con una furia che pareva LeBron James quando schiaccia.
Uno spettacolo. Che però è nulla rispetto a quello organizzato poi sul podio, dopo l’inno di Mameli cantato insieme a Matteo Furlan, ancora splendido terzo dopo il bronzo nella 5 chilometri. Lì infatti Simone estrae un foglio e lo mostra al mondo. Che cosa c’è scritto, non si capisce, Simone fallo vedere bene. «Aurora mi vuoi sposare?», ecco cosa c’è scritto. Aurora è la Ponselé, la fondista, sua fidanzata da sei anni. Sta in tribuna e non crede a ciò che vede: ride, piange, s’imbarazza, fa il cuore unendo le mani, poi scatta, corre, lo raggiunge, lo abbraccia, lo bacia, gli parla nell’orecchio. La risposta è sì, chiaro. «Dopo i Giochi di Rio», dice. Fra un anno o poco più.
Cuori di caimani, il lato sentimentale di una grandissima impresa tecnica e di carattere. Simone, 25 anni, marchigiano di Tolentino tesserato per Esercito e Aniene, studente di scienze motorie, neocampione che i genitori buttarono in piscina a cinque anni perché sennò, ha confessato un giorno, «sarei stato sempre a casa a guardare la tv», e poi dalla piscina ha preso la misteriosa via delle acque senza confini, ha solide basi ricostruite dopo un periodo difficile in cui ha pure cambiato allenatore, affidandosi a Emanuele Sacchi.
Queste basi si erano già viste nella 10 chilometri, quando ha conquistato il pass olimpico con il settimo posto, e sono state magnificate ieri: forza, lucidità tattica, coraggio nell’accettare di scegliere la rotta nella fuga finale con Meyer. «Ho sempre creduto nel podio, ma quando lui mi ha fatto passare ai mille metri ho cominciato a capire che non ne aveva più e potevo vincere. Un po’ di paura c’era sempre perché rimaneva lì, ma stavo bene e l’ho staccato». Fondamentale però è stata soprattutto la forza fisica e interiore che gli ha consentito di superare due momenti durissimi: «Al via ho avuto problemi di stomaco, e ai 5 e 7 chilometri ho anche vomitato. Per fortuna il dottore (Sergio Crescenzi, ndr ) mi ha dato qualcosa e piano piano mi sono ripreso. A spingermi è stata la voglia di fare un buon risultato dopo un anno non buono».
Con l’amico Furlan — qui compagno di stanza del sincronetto Giorgio Minisini, quattro bronzi in due, una camera magica — è nata così la doppietta che porta a tre il conto finale di medaglie della specialità. A Barcellona ci fu solo l’oro della Grimaldi nei 25 chilometri e dunque il passo avanti è evidente. Ma non solo: l’ennesima grande impresa della Premiata Compagnia del Fondo stronca nuovamente certi stereotipi sull’italiano (peraltro spesso fondati), confermandosi maestra della fatica e capace di rispettare le promesse che fa a se stessa. Un esempio anche di vita, volendo, ma meglio non esagerare. «Noi siamo l’Italia del sacrificio — dice il c.t. Massimo Giuliani —, quella che ce la può fare dal punto di vista organizzativo e del metodo».
Se poi contiamo che dieci delle ventidue medaglie mondiali totali della nostra storia (e quattro degli 8 ori) sono arrivate proprio dalla 25 chilometri, la disciplina più faticosa e affascinante, forse significa che siamo nati per questo. Anzi, non appropriamoci di virtù non nostre: ci sono nati loro. Rari nantes davvero.