Alessandro Pasini, Corriere della Sera 2/8/2015, 2 agosto 2015
RUFFINI TRIONFA NELLA 25 KM POI LA DICHIARAZIONE D’AMORE «AURORA MI VUOI SPOSARE?»
DAL NOSTRO INVIATO KAZAN Sotto la pioggia nelle acque scure, con lo stomaco a pezzi e un americano che gli mordeva le caviglie, a Simone Ruffini restava una sola possibilità: uscire in fretta da lì.
Così è partito, ha attaccato una volta, due, tre, finché Alex Meyer è crollato. Domato lo yankee, domato il fiume Kazanka, è entrato nel corridoio del traguardo con una leggerezza assurda per uno che stava in acqua da 25 chilometri e quasi cinque ore, dando di gambe come stesse facendo i 50 e avventandosi sulla piastra del traguardo con una furia che pareva LeBron James quando schiaccia.
Uno spettacolo. Che però è nulla rispetto a quello organizzato poi sul podio, dopo l’inno di Mameli cantato insieme a Matteo Furlan, ancora splendido terzo dopo il bronzo nella 5 chilometri. Lì infatti Simone estrae un foglio e lo mostra al mondo. Che cosa c’è scritto, non si capisce, Simone fallo vedere bene. «Aurora mi vuoi sposare?», ecco cosa c’è scritto. Aurora è la Ponselé, la fondista, sua fidanzata da sei anni. Sta in tribuna e non crede a ciò che vede: ride, piange, s’imbarazza, fa il cuore unendo le mani, poi scatta, corre, lo raggiunge, lo abbraccia, lo bacia, gli parla nell’orecchio. La risposta è sì, chiaro. «Dopo i Giochi di Rio», dice. Fra un anno o poco più.
Cuori di caimani, il lato sentimentale di una grandissima impresa tecnica e di carattere. Simone, 25 anni, marchigiano di Tolentino tesserato per Esercito e Aniene, studente di scienze motorie, neocampione che i genitori buttarono in piscina a cinque anni perché sennò, ha confessato un giorno, «sarei stato sempre a casa a guardare la tv», e poi dalla piscina ha preso la misteriosa via delle acque senza confini, ha solide basi ricostruite dopo un periodo difficile in cui ha pure cambiato allenatore, affidandosi a Emanuele Sacchi.
Queste basi si erano già viste nella 10 chilometri, quando ha conquistato il pass olimpico con il settimo posto, e sono state magnificate ieri: forza, lucidità tattica, coraggio nell’accettare di scegliere la rotta nella fuga finale con Meyer. «Ho sempre creduto nel podio, ma quando lui mi ha fatto passare ai mille metri ho cominciato a capire che non ne aveva più e potevo vincere. Un po’ di paura c’era sempre perché rimaneva lì, ma stavo bene e l’ho staccato». Fondamentale però è stata soprattutto la forza fisica e interiore che gli ha consentito di superare due momenti durissimi: «Al via ho avuto problemi di stomaco, e ai 5 e 7 chilometri ho anche vomitato. Per fortuna il dottore (Sergio Crescenzi, ndr ) mi ha dato qualcosa e piano piano mi sono ripreso. A spingermi è stata la voglia di fare un buon risultato dopo un anno non buono».
Con l’amico Furlan — qui compagno di stanza del sincronetto Giorgio Minisini, quattro bronzi in due, una camera magica — è nata così la doppietta che porta a tre il conto finale di medaglie della specialità. A Barcellona ci fu solo l’oro della Grimaldi nei 25 chilometri e dunque il passo avanti è evidente. Ma non solo: l’ennesima grande impresa della Premiata Compagnia del Fondo stronca nuovamente certi stereotipi sull’italiano (peraltro spesso fondati), confermandosi maestra della fatica e capace di rispettare le promesse che fa a se stessa. Un esempio anche di vita, volendo, ma meglio non esagerare. «Noi siamo l’Italia del sacrificio — dice il c.t. Massimo Giuliani —, quella che ce la può fare dal punto di vista organizzativo e del metodo».
Se poi contiamo che dieci delle ventidue medaglie mondiali totali della nostra storia (e quattro degli 8 ori) sono arrivate proprio dalla 25 chilometri, la disciplina più faticosa e affascinante, forse significa che siamo nati per questo. Anzi, non appropriamoci di virtù non nostre: ci sono nati loro. Rari nantes davvero.