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 2015  agosto 02 Domenica calendario

L’EREDITÀ NEFASTA DELL’EREDITIERE ROSSO

Confesso di essere stato io a chiamare Parolaio rosso l’onorevole Fausto Bertinotti. Tra un istante ne spiegherò il perché, ma prima devo ammettere che non credevo di vederlo ritornare sulla scena all’età di 75 anni. E per una faccenda di eredità non politica, bensì pecuniaria: mezzo milione di euro che gli è stato assegnato nel testamento di Mario D’Urso, un signore per bene che lo stimava, nonostante la differenza di classe sociale. Tuttavia la circostanza insolita ci consente di dare un’occhiata a una figura che, per parecchio tempo, è stata una delle maschere capaci di rappresentare bene il caos dilagante all’interno della sinistra italiana. È un disordine così forte, e persino surreale, che lascia prevedere la scomparsa di una realtà, ancorché tetra, ma indispensabile all’equilibrio del sistema politico.
L’ispirazione a chiamare Bertinotti il Parolaio rosso mi venne nel maggio 1995 quando lessi l’autobiografia del leader di Rifondazione comunista: «Tutti i colori del rosso», scritta con Lorenzo Scheggi Merlini e pubblicata dalla Sperling & Kupfer. Lui raccontava che da piccolo suo padre Enrico, ferroviere e socialista, non appena salivano su un treno o su un tram gli diceva: «Fausto, mi raccomando: parla poco, sai che la gente s’infastidisce!».
Purtroppo Faustino, chiacchierone sin dall’infanzia, si guardò bene dal dare ascolto a papà. E iniziò presto a costruirsi la fama del politico più verboso d’Italia. Oggi insidiato dal premier Matteo Renzi che, da questo momento, comincerò a chiamare il Parolaio bianco.
La prima volta che vidi in azione Berty fu nel 1977 dopo l’assassinio di Carlo Casalegno, ucciso a Torino dalle Br. Da segretario piemontese della Cgil, organizzò un dibattito tra i cronisti che avevano raccontato il delitto e le reazioni dell’ambiente operaio della città. Ma in realtà concionò soltanto lui. Lo stesso fece dopo la sconfitta della Triplice sindacale nello scontro del 1980 con la Fiat. In un convegno del manifesto descrisse quel disastro con l’enfasi del trionfatore.
Il suo periodo d’oro cominciò il giorno che Armando Cossutta, in seguito al tramonto del Pci e dell’Unione sovietica, sul finire del 1989 fondò Rifondazione comunista. L’Armando ne affidò la guida a Sergio Garavini, torinese, sindacalista e deputato Pci. Ma presto si trovò scontento di come funzionava la baracca. Si liberò di Garavini, un comunista troppo serioso, e nel gennaio 1994 ingaggiò Fausto, prelevandolo dal comando generale della Cgil.
Fu un’accoppiata micidiale che scelse come avversario non un governo di destra, ma l’esecutivo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. Qui bisogna distinguere tra il primo e il secondo governo del Prof. Entrambi contavano tra gli alleati Rifondazione comunista. Invece vediamo che cosa accadde.
All’inizio dell’ottobre 1997 il Prodi uno stava per morire. Chi aveva deciso di ucciderlo era proprio il partito di Cossutta & Bertinotti. Il 9 ottobre, la ditta ultrarossa votò contro il governo e il Prof si dimise. Sui rifondaroli cominciarono a piovere decine di fax di protesta. Persino il manifesto gli si rivoltò contro. Roba da non credere.
L’Armando si rassegnò a ricevere i giornalisti nel suo ufficio presidenziale. Avendo alle spalle un ritratto di Carlo Marx con didascalie in cirillico e la vecchia bandiera rossa della sezione Pci di Sesto San Giovanni: la Stalingrado d’Italia, non ancora nei guai per una storiaccia di tangenti.
Cossutta cominciò a parlare come un Vittorio Emanuele II redivivo, anche se privo dei baffoni a manubrio e della barba a pizzo. A tutti i cronisti diceva: «Non sono insensibile all’allarme che c’è nel Paese. E non sono di quelli che alzano le spalle davanti ai fax!». Berty non era d’accordo e andò a proclamarlo in una sfilza di talk show televisivi.
A seguire Cossutta lo convinse a partecipare alla Marcia della pace Perugia-Assisi. Il Parolaio si presentò in casual elegante. Era straconvinto di essere accolto da un mare di applausi. Invece fece un bagno di insulti e di fischi per aver costretto alle dimissioni il Prof che aveva battuto il Berlusconi. Cinque giorni dopo, il presidente Scalfaro rimandò Prodi davanti alle Camere, che gli rinnovarono la fiducia.
Comunque, nell’ottobre 1998 il primo Prodi cadde sempre per volontà del Parolaio. L’accusa era quella solita: il governo era centrista e il Prof un servo della Confindustria. In compenso l’Armando e Fausto si divisero. Il primo fondò il Partito dei comunisti italiani, presto scomparso. Il Parolaio ereditò Rifondazione e si preparò a fare altri danni.
E qui siamo al Prodi due, nato dopo la vittoria elettorale del 2006. La novità di quel Parlamento fu che la presidenza di Montecitorio andò al Parolaio. Il Prof si rassegnò a concedergliela nella speranza che Fausto non gli avrebbe più rotto i corbelli. Il premier s’illudeva. A Berty non fregava nulla dei doveri che impongono l’imparzialità alla terza carica dello Stato. Infatti cominciò subito ad esternare.
Tagli alla spesa pubblica? Nessuno, non siamo mica il governo della signora Thatcher. La legge Biagi sul lavoro? Va rasa al suolo. La Mediaset del Berlusca? Deve dimagrire. La Rai? Ha da restare così com’è, al servizio dei lavoratori. Esempi da seguire? Il compagno Lula in Brasile e il compagno Chavez in Venezuela.
Infine nel dicembre 2007 il Parolaio proclamò che il progetto dell’Unione di centrosinistra era fallito. E riservò a Prodi una stilettata velenosa. Spiegò che di lui si poteva dire quello che Ennio Flaiano aveva detto di Vincenzo Cardarelli: «È il più grande poeta morente».
In realtà nel 2007, proprio il partito del Parolaio iniziò a tirare le cuoia. Le elezioni amministrative ebbero un esito disastroso. Franco Giordano, il segretario messo in sella da Berty, fu lapidario: «Ci hanno sradicato da tutta l’Italia del nord». Fausto cercò di sostituirlo con Nichi Vendola, il suo nuovo pupillo politico. Ma nel Paese l’aria stava cambiando. Alle elezioni generali del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi, Rifondazione non conquistò neppure un seggio in Parlamento. Anche Fausto rimase a casa. Mentre Berlusconi era ritornato al potere in modo trionfale.
In quello scenario di rovine, in luglio si tenne a Chianciano il congresso di Rifondazione. Il Parolaio era sicuro di portare Vendola alla vittoria. Ma entrambi vennero sconfitti da Paolo Ferrero. Un tipo tutto all’opposto di Nichi e Fausto. Valdese della val Germanasca. Nemico del lusso. Abituato a guidare una vecchia Mercedes, ridotta così male che quando andava a trovare i rom veniva scambiato per uno di loro.
Oggi, a parte Ferrero, del vecchio mondo di Rifondazione è rimasto in attività soltanto Vendola, con la sua Sinistra ecologia e libertà. Bertinotti si è ritirato a vita privata e compare sui media soltanto per il mezzo milione di euro ereditato da Mario D’Urso. E il compagno Armando Cossutta?
Molti pensano che sia defunto. Ma è vivo e vegeto, anche se silenzioso. Nato nel 1926, in settembre compirà la bellezza di 89 anni. È sempre attivo nell’Anpi, il club dei partigiani rossi. Alle elezioni europee del 2009 aveva annunciato il suo voto per il Partito democratico. Però non conosco se abbia votato per i dem di Matteo Renzi nelle europee del 2014. Comunque sia, il Bestiario gli augura un’esistenza ancora lunga, in questa Italia che è sempre di più un paese per vecchi.