Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 02 Domenica calendario

MATRIMONIO A METÀ STRADA TRA DUE EGO IMPREVEDIBILI

Di loro due ha raccontato Laurie, poco dopo la morte di lui del 27 ottobre 2013, come a liberarsi di una pena insopportabile. Grazie a lei sappiamo perciò quasi tutto della storia d’amore fra Lou Reed e Laurie Anderson.
Saldo, sorprendente legame della mezza età fra due imprevedibili Ego artistici: ma anche esempio, per tutti noi, della speranza dell’amore eterno. Quella che si continua a coltivare anche quando storie finite, divorzi o piccole delusioni che non hanno avuto il tempo di esplodere ti incontrano dopo che hai smesso di essere giovane, e ti lasciano svuotato/a, ma con curiosità immutata sul futuro. Ne coltivavano di certo anche Laurie e Lou quando - 45 anni lei, 50 lui - si incontrarono la prima volta a Monaco di Baviera. Per lavoro.
Inventare era vivere
Era il 1992. Entrambi erano già, ciascuno per sé, monumenti nella musica popolare, di generi e storie totalmente diverse. Nella Grande Mela a metà dei 60 lui era stato, dentro i Velvet Underground, l’inventore del rock decadente e metropolitano; un tipaccio che sapeva sublimare con la chitarra gli incubi collettivi dell’epoca, come disse Lester Bangs: «Ha dato dignità, poesia e una sfumatura di r’n’r all’eroina, alle anfetamine, all’omosessualità, al sadomasochismo, alla misoginia, al suicidio». Dopo i Velvet, aveva continuato fra successi e qualche caduta, fino alle pregevolissime invenzioni di musica e poesia, da Songs for Drella per Warhol a New York. Unico.
Non era uno che amava dormire sugli allori, Lou. E del resto nemmeno lei, Laurie, nel suo ramo: avanguardista per indole, ha sempre mescolato musica e multimedialità, installazioni nei musei e storie bislacche che racconta in scena accompagnandosi con il violino e ventate di elettronica. Nell’81 O Superman le aveva conquistato una popolarità internazionale che non l’ha più abbandonata. Anche per Laurie, inventare era vivere.
Più curiosi di loro due, non ce n’erano. A Monaco, racconta pianamente Laurie, «stavamo suonando con John Zorn al Kristallnacht Festival in ricordo della Notte dei Cristalli del 1938, che ha segnato l’inizio dell’Olocausto». Indossavano magliette rosse con scritto: «Abbiamo ritmo e siamo ebrei». L’eclettico John Zorn fu pronubo, a Monaco, nel chiedere agli artisti di mescolare le attitudini. Lou chiese a Laurie di leggere qualcosa con il suo gruppo, la complimentò e lei scrisse dopo la sua morte: «Mi è subito piaciuto, ma rimasi sorpresa che non avesse l’accento inglese».
Sapeva poco dei Velvet, era convinta fossero tutti inglesi. Scoprirono di non vivere lontani, a New York. Lui le disse: «Incontriamoci». La prima uscita fu all’Audio Engineering Society Convention: «Passammo un pomeriggio felice guardando amplificatori, cavi e parlando delle cose elettroniche da comprare».
Poi lui la invitò nell’ordine per un caffè, al cinema, a cena e a una passeggiata: «Da quel momento non ci siamo mai separati». Laurie era nubile, riservata ed esentata dal gossip. Lou aveva un inferno di passato e altre due mogli: l’umile Betty, sposa di un anno di burrasche, il 1973, e Sylvia Morales nel 1980.
Quelle battute ridicole
Struggente il racconto dell’evolversi del rapporto: «Lou ed io suonavamo insieme, diventammo migliori amici, e poi compagni. Abbiamo viaggiato, ascoltato e criticato il lavoro dell’altro, studiato cose insieme (la caccia alle farfalle, la meditazione, andare in kayak). Facevamo battute ridicole; smesso di fumare 20 volte, combattuto, imparato a trattenere il fiato sott’acqua; andati in Africa. Abbiamo cantato arie d’opera in ascensore, fatto amicizia con persone improbabili; ci siamo seguiti in tour quando possibile. Abbiamo avuto una dolcissima cagnolina (Lolabelle, ndr) che suonava il piano; condiviso una casa diversa dai nostri rispettivi appartamenti; abbiamo protetto e amato l’altro».
Nel 2008, il matrimonio. Un giorno Laurie passeggiava in California e parlava al cellulare con Lou: «Ci sono tante cose che non ho mai fatto e che volevo fare», gli disse. E lui: «Cosa, per esempio?». «Non so, non ho mai imparato il tedesco, non ho mai studiato Fisica, non mi sono mai sposata». Lou le propose nozze all’istante: «Ci incontriamo a metà strada. Arrivo in Colorado. Che ne dici di domani?».
Si sposarono a Boulder, nel giardino di un amico, «indossando i nostri normali vestiti da sabato». Quattro anni dopo il cancro al fegato, un trapianto che sembrava riuscito ma non lo era. Quando il dottore disse «È finita», Laurie se lo riportò a casa. «Non ho mai visto un’espressione così piena di meraviglia come quella di Lou quando è morto», scrisse lei, e aggiunse: «Sono sicura che verrà a trovarmi in sogno e sembrerà ancora vivo».
[3. Continua]
Marinella Venegoni, La Stampa 2/8/2015