Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 02 Domenica calendario

È UNA CRISI DI CONVIVENZA E REGOLE

Gli ultimi dieci giorni dell’Italia – per dirla con un eufemismo – non sono stati felici. L’epicentro del terremoto è stata Roma, che è un po’ il concentrato di tutti i succhi del Paese: il caos nei trasporti pubblici, le polemiche sulla sporcizia, la paralisi dell’aeroporto. Il sisma però ha colpito anche altrove – ad esempio a Pompei, chiusa senza preavviso in altissima stagione. E da ultimo sono arrivate un paio di scosse forse ancora più devastanti, perché proiettano i propri effetti sul lungo periodo: un nerissimo rapporto Svimez sullo stato del Mezzogiorno, e uno appena meno fosco del Fondo Monetario Internazionale sull’occupazione.
Che cosa accomuna questi eventi, oltre alla loro capacità di mandarci in vacanza un po’ più pessimisti e depressi di quanto non fossimo già? A me pare che a tenerli tutti insieme sia il tema delle classi dirigenti – soprattutto ma non soltanto politiche. Da un lato il loro fallimento, o per lo meno la loro grave crisi: l’incapacità sempre più evidente d’imporre quel minimo di ordine e rispetto delle regole senza il quale la convivenza civile smette di essere tale – e si entra piuttosto nell’atmosfera di anarchia surreale.
Anarchia surreale alla quale hanno fatto pensare le cronache delle vicende romane, un’atmosfera da «Prova d’orchestra» di Federico Fellini. Dall’altro lato la pressante richiesta di intervenire che, nonostante i loro fallimenti, viene rivolta proprio a quelle stesse classi dirigenti: il «Fate presto!» – celebre titolo del Mattino di Napoli del 1980 ripreso dal Sole 24 Ore nel 2011 – che in questi giorni è riecheggiato a proposito del Mezzogiorno. La sensazione insomma che l’Italia stia colando a picco, e che la salvezza possa venirle soltanto da un’azione politica straordinariamente rapida e incisiva.
La crisi delle classi dirigenti – o se si preferisce dell’autorità – è storia vecchia. «Prova d’orchestra», per dire, è del 1978. Né è storia soltanto italiana. È vero però che il nostro Paese sembra essere andato molto avanti lungo questa via, e che il moto negli ultimi anni si è fatto ancora più veloce. Fra il 1992 e il 1994, com’è noto, abbiamo fatto a pezzi un ceto politico. Poi, per un decennio circa, la ferocia dello scontro fra berlusconiani e antiberlusconiani ha distolto la nostra attenzione: il problema non era più il fallimento dei politici in generale, ma quello dei politici di destra per gli elettori di sinistra, e di sinistra per gli elettori di destra. Con l’appassire del berlusconismo, però, il treno è ripartito: fra scandali, intercettazioni e recessione, l’ostilità nei confronti della politica nel suo complesso si è ravvivata. E non solo. La polemica si è allargata ben oltre la politica, attaccando anche altri settori del ceto dirigente pubblico: dai burocrati, accusati di essere tanto strapagati quanto inefficienti e corrotti, ai tecnocrati – segnati a dito, per paradosso, per la loro presunta incapacità tecnica.
Considerati gli episodi di inettitudine, inefficienza e corruzione ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni, definire ingiustificato il discredito che ha colpito la classe dirigente italiana sarebbe per lo meno bizzarro. Anche se dirlo esagerato, e in alcuni casi molto esagerato, lo sarebbe assai di meno. Giustificato, ingiustificato o esagerato che sia, a ogni modo, è evidente che l’atteggiamento pervasivo di sfiducia pregiudiziale verso chiunque occupi una posizione dirigenziale politica o di anche lontana origine politica ha contribuito a indebolire, nel settore pubblico, le catene di autorità e responsabilità. Tanto più in un Paese come l’Italia, nel quale quelle catene sono sempre state assai fragili, e i pretesti per difendere i propri interessi corporativi quanto mai robusti.
Privata di autorità sulla macchina pubblica, la classe politica è diventata ancora più inefficiente. E questo, in un gioco perverso, ne ha accresciuto ulteriormente il discredito. In cima a tutto s’è aggiunto infine il «Fate presto!» di cui dicevo sopra: la richiesta sempre più urgente e isterica che la politica salvi l’Italia dal naufragio. Ma come volete che una classe dirigente pubblica già di per sé poco efficiente, e poi screditata e sconnessa da catene di autorità e responsabilità decentemente funzionanti, risolva in fretta problemi antichi, che per altro in buona misura non sono di origine politica né politicamente risolvibili? E tuttavia, questa inevitabile incapacità ha contribuito a saldare il cerchio dell’antipolitica.
Già dal 1994, ma in maniera ancora più accelerata dal 2011, abbiamo cercato di liberarci dalla trappola cambiando i vertici, alla ricerca sempre più ansiosa di una classe politica finalmente virtuosa e capace. Ne abbiamo consumate varie, ma non ci siamo avvicinati alla soluzione dei nostri problemi. Tanto da far sorgere un dubbio: che magari uno dei problemi più seri sia rappresentato proprio dall’ansia e dalla fretta. Può sembrare assurdo parlare di pazienza – pazienza, non rassegnazione – di fronte alla metropolitana di Roma che viaggia con le porte aperte o al rischio di desertificazione umana e industriale del Mezzogiorno. Tuttavia è ben evidente che quelle porte e quel rischio hanno radici profonde decenni, che nessuna classe politica riuscirà «presto» a richiudere le prime né a scongiurare il secondo, e che se il Paese lo pretendesse da lei, finirebbe soltanto per bruciarla velocemente. Senza per questo trovarne necessariamente una migliore.
Giovanni Orsina, La Stampa 2/8/2015