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 2015  agosto 02 Domenica calendario

ALL’INFERNO E RITORNO “SCARICATO IN AFRICA DA ITALIA E VATICANO”

[Intervista a Roberto Berardi] –
920 giorni in carcere, 18 mesi al buio in cella d’isolamento, la porta che si apriva solo per l’unico pasto quotidiano. È stato pestato e torturato, ha contratto malattie, ha perso 35 chili. Ha visto strappare unghie e denti ad altri detenuti, ha visto bruciare genitali, ha sentito le grida e le violenze dei poliziotti sulle detenute.
Questa è la storia di Roberto Berardi, un imprenditore italiano che in Guinea Equatoriale ha costruito caserme, strade, dighe e ponti e che ad un certo punto si è scelto come socio l’uomo più potente dello Stato, Teodorin Obiang, “il principe”, vicepresidente della Guinea ma soprattutto figlio del dittatore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo.
Questa è la sua discesa agli inferi nel carcere di Bata. Mentre il governo italiano e il Vaticano, dice, si giravano dall’altra parte.
Lei ha lavorato in Africa centrale per 25 anni costruendo infrastrutture, nel 2007 si è trasferito in Guinea Equatoriale e ha creato la società Eloba con il vicepresidente del paese. Come è finito in carcere?
Da una transazione bloccata da una banca francese ho scoperto che l’Interpol e un tribunale della California avevano avviato un’indagine per riciclaggio internazionale su quella società. Era assurdo, non sapevo di cosa si trattasse, allora indago e scopro che venivano usate banche locali, con conti intestati a me, attraverso cui Teodorin faceva i suoi affari illegali. Ho subito preso contatti con il dipartimento di giustizia americano, volevo testimoniare.
Si sentiva in pericolo?
A quel punto o mi uccidi o mi arresti. E pensavo che far sapere tutto fosse l’unico modo di proteggermi.
Lei sapeva bene chi era il suo socio e quanto corrotta fosse la Guinea, avrà avuto il suo tornaconto.
Il mio socio era una delle persone più importanti del Paese e io non sono un missionario né un filantropo, ho fatto società con lui per ottenere appalti. Il rimorso che mi porto dentro è di aver lavorato per arricchire quei delinquenti. La mia idea era vendere le mie azioni e andarmene.
Ma non ha fatto in tempo.
In gennaio del 2013 mi hanno portato in commissariato e tenuto in isolamento nel sottosuolo per un mese e mezzo. Facevano pressioni psicologiche per farmi firmare carte in cui mi sarei assunto la responsabilità di tutto, non mi facevano dormire, mi tenevano sempre al buio perché non capissi se fosse giorno o notte. Dalla mia cella sentivo di continuo gente torturata, rantoli, urla, stupri. Non potevo vedere niente ma sentivo tutto. Poi mi hanno portato in un carcere militare dove si trovavano anche detenuti civili.
In quali condizioni?
Se esiste l’inferno non è diverso da quel luogo. Il piano terra è per i detenuti comuni, ce ne dovrebbero essere 110 e invece eravamo almeno il triplo, accampati come polli fra stracci e materassini, uomini e donne insieme, in condizioni igieniche da spavento: l’acqua corrente è arrivata dopo tre mesi. Ho preso la malaria, poi il tifo e un’infezione polmonare. Se non hai le famiglie che pagano le medicine puoi morire, poi loro dicono che ti sei suicidato.
Che accade alle detenute?
Sono costrette a scegliersi un protettore, altrimenti sono in balia di tutti. I protettori sono detenuti “privilegiati”, ex militari o ex poliziotti usati come spie. È schiavitù sessuale
Ha avuto un processo?
Una farsa: a porte chiuse, testimoni inventati, avvocato d’ufficio imposto da loro. Per uscire si deve negoziare con i magistrati, la corruzione è la norma su tutto: medicine, prostitute, visite delle mogli, sigarette. O la libertà.
Qualcuno su cui contare?
Ero l’unico bianco, ma invece di essere emarginato si è creata una incredibile solidarietà tra detenuti. Mi occupavo di loro, pagavo farmaci a tutti, e loro mi proteggevano. Due anni e mezzo in carcere mi sono costati 60mila euro, soldi che mi hanno salvato la vita. Grazie a un’ex detenuta, e pagando, ho fatto entrare in carcere medicine, cellulari, registratori con cui ho documentato le torture a me e ad altri.
I carcerieri lo permettevano?
Ogni volta che trovavano qualcosa arrivata dall’esterno erano pestaggi. La tortura fisica è sistematica, usano tutti i metodi: bruciature, lesioni ai genitali, ferite che imputridiscono, scosse elettriche, caviglie spezzate col martello, denti e unghie strappate con le pinze. E li lasciavano così, senza cure. Per 18 mesi sono finito in cella di isolamento, tre metri per due: eravamo in 14, quando sono uscito ne erano morti otto.
Chi l’ha aiutata ad uscire?
Appena entrato in carcere, avevo subito allertato l’ambasciatore in Camerun (che è competente anche per la Guinea), la Farnesina e il nunzio apostolico, visto che il Vaticano ha grandi relazioni con la Guinea Equatoriale.
Che tipo di relazioni?
Tanti soldi. Il governo della Guinea, per far passare sotto silenzio le sue nefandezze, investe in azioni o fa elargizioni alla Fao, all’Unicef o al Vaticano, che è uno dei principali beneficiari. E così quei dittatori si costruiscono l’immagine di bravi cristiani. Il nunzio apostolico, monsignor Piero Pioppo, riferì all’ambasciatore del Camerun che non si potevano rovinare i rapporti tra Stati per un caso come il mio, e tutti mi hanno voltato le spalle, compresa la Farnesina. Nei primi nove mesi nessuno è riuscito a vedermi, nemmeno il console. Negli ultimi sei mesi, grazie a una rete di amici, comitati e giornalisti, la situazione ormai era nota e sono stati costretti a correre ai ripari. Scrissi anche una lettera aperta a Renzi.
Le ha risposto?
No. In questo momento laggiù ci sono altri due italiani, e altri tre ai domiciliari. Il governo non deve comportarsi come con me. Questa vicenda evidenzia anche la pochezza internazionale del peso politico italiano in quei paesi.
Chi l’ha fatta uscire?
Le pressioni di altri paesi, anche africani, le diplomazie di altri Stati. Per ora non posso dire di più.
Francesca Fagnani, il Fatto Quotidiano 2/8/2015