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 2015  agosto 02 Domenica calendario

FLEUR JAEGGY “AMO IL VUOTO, L’ASSENZA DI RELAZIONI VORREI SOLO LA MACCHINA DA SCRIVERE”

Conosco da anni Fleur Jaeggy. Ammiro i suoi libri scarni. Mi affascinano i suoi silenzi. Interrotti per lo più da dubbi, ripensamenti, incertezze. Ha appena vinto il Premio Internazionale “Tomasi di Lampedusa” per la sua ultima raccolta di racconti Sono il fratello di XX (edito da Adelphi): «Mi piace la Sicilia», dice. «E mi tortura doverci andare », aggiunge. I suoi turbamenti si manifestano in lei nel segno della brevità. La parola deve essere breve. Concisa. Intonata a un’angoscia a tratti ilare come se gli stati d’ansia che l’avvolgono siano l’aria stessa che respira. Fleur non è una donna fragile. È una donna per certi versi surreale. A volte ho l’impressione che guardi il mondo con il microscopio. Che osservi gli altri come un entomologo studierebbe i propri insetti. Penso che sia una questione di proporzioni. Ama l’infinitamente piccolo: il dettaglio che svanisce, la frase nascente, le cose inanimate che si lasciano custodire nella memoria. Ha una comprensione e un attaccamento ai propri oggetti tutta particolare. Sono pochi, ma da essi non si separerebbe mai: una macchina da scrivere, un paio di cesoie da giardino, un cuore d’argento che le regalò Ingeborg Bachmann. A un certo punto del nostro lungo incontro milanese mi dice che un altro oggetto le appartiene, ma non riesce più a trovare: una rivoltella. Non so se è qualcosa che ha inventato al momento. Mi dice di averla cercata per giorni, per settimane. Un indecifrabile sorriso accompagna le poche parole. Ho il sospetto di essere risucchiato dentro lo spunto di un racconto.
Come inventi un racconto?
«Non lo invento. Resto lì ore davanti alla macchina da scrivere. È una piccola storia di consunzione. Guardo dentro di me. Guardo fuori di me. E non c’è nulla. Per mesi non c’è nulla. A volte per anni».
Che fai a quel punto?
«Opera di resistenza e di abbandono».
A cosa resisti o ti abbandoni?
«La resistenza è il frutto della disciplina. Impiego di tecniche. Creare attriti o subirli in vista di uno scopo. Quale? Sopravvivere, galleggiare, proteggersi. E quando la resistenza non ce la fa più subentra l’abbandono. È come nuotare. Bracciate nell’acqua. Sforzi. Mete da raggiungere. Ti illudi di divorare il mare, di resistergli. E quando non hai più le forze ti abbandoni ad esso. Al disordine subentra la calma. Alla frenesia la pace».
Sembri quasi sul punto della catastrofe.
«Non vorrei mai una catastrofe. Troppa polvere e macerie da rimuovere. Troppi indizi di pieno».
Meglio il vuoto?
«“Vuoto” è una parola giusta. Bisogna essere in un proprio vuoto. Vuoto è silenzio. È solitudine. È assenza di relazioni. A volte mi penso come una persona priva di personalità. Senza vita. Non vorrei niente. Salvo, forse, la mia macchina da scrivere. È lei la mia alleata. Il suo colore verde palude mi rassicura. Si chiama Hermes».
Tu hai scritto che il gelo crea il poeta.
«Sì l’ho scritto, con un bel punto interrogativo. L’ho scritto pensando a me. Al ghiaccio che avanza. Sempre meno movimenti. Ma l’ho scritto anche pensando al mio amico Iosif Brodskij».
Quanto amico?
«Credo abbastanza da poterlo ricordare. Mi colpiva la sua totale affezione al freddo. Gli piaceva. Lo cercava come qualcosa di familiare. Una qualità baltica indispensabile alla sua vita. Ripenso a certe notti a New York. D’inverno. A Brooklyn davanti all’Hudson. In un freddo spossante. Iosif usciva solo con la giacca. Ero stremata. Vederlo indifferente alle temperature più basse. Ecco vedi torna il gelo. La conoscenza ha bisogno del freddo».
Quanto ti conosci?
«So sempre meno di me stessa. E ti confesso che comincio a provare un certo fastidio di me».
Sei sempre così implacabile?
«È un’insofferenza introspettiva. Sono in questo momento qui con te. Avverto la tua presenza. Dovrei rispondere a qualcosa che mi riguarda. Rifletto: cosa avrò mai da dirgli? E poi: chi sono per poter dire qualcosa? Più mi penso e meno esisto».
Eppure hai una biografia.
«Purtroppo».
Mi sorprende l’avverbio.
«Perché?».
Dopotutto, i tuoi libri sono intrisi di sostanza vissuta. Fin dal tuo “I beati anni del castigo”.
«Fu un esercizio di fustigazione».
Hai un nome svizzero. Dove sei nata esattamente?
«A Zurigo. Ho vissuto infanzia e adolescenza nei collegi. Poi a Roma. E infine a Milano».
Di Roma cosa ricordi?
«Mi sono spesso considerata romana. Abitavo in via Lisbona. Frequentavo qualche ragazzo. Andavo a cavallo. Una vita gradevole e insulsa a un tempo. C’erano stati gli anni del collegio. A Roma studiai dalle monache. Presi la licenza media a Villa Pacis. Oggi quel collegio non esiste più. Quasi mi dispiace».
Cosa ti dispiace?
«Vi era qualcosa di gradevole nel buffo di quelle giornate. Baciamano alla madre superiora. Alla badessa si faceva la riverenza scandita in otto tempi. Mi sembra. Poi è finito tutto. Andai a Zug. In un collegio di monache che insegnavano a governare una casa. Dressage per bambine per bene. Tutte le ragazze del collegio volevano fare un grande matrimonio».
E tu?
«Avevo 17 anni. Ero la preferita. Un giorno, con altre ragazze, sfogliando una rivista di moda vedemmo annunciato un concorso per modella».
Partecipaste?
«Sì. La suora ci accompagnò a fare le foto da spedire. Pensavamo a un gioco. In realtà fummo scelte in due. Poco dopo iniziò la mia breve carriera di modella».
Quanto breve?
«Un paio d’anni. Allora la moda non mi piaceva. Firmai un contratto. Cominciai a viaggiare tra l’Europa e gli Stati Uniti».
Sfilavi?
«No. Erano servizi fotografici. Già allora ero poco socievole. Detestavo farmi fotografare. Forse volevo verificare fino a che punto potessi disamorarmi della mia immagine».
Ci sei riuscita?
«Oggi preferisco guardare più i miei pensieri che la mia immagine».
Sei sposata con un grande editore, Roberto Calasso, che ha fondato l’Adelphi. Come vi siete conosciuti?
«Nella seconda metà degli anni Sessanta. Ci conoscemmo all’Università di Roma. Roberto dice che indossavo un loden verde, una camicetta bianca e portavo una borsa a tracolla. Mi prese per una ragazzina. Dice che mi ha notato, o meglio: osservato. Ci sposammo nel 1968 a Londra».
Quell’anno pubblicasti il tuo primo libro.
«È vero. Fu la mia piccola rivoluzione nel gran caos che si annunciava. Lasciammo Roma per Milano. Mi capitava di tornare a Roma per la mia amica Ingeborg».
Intendi la Bachmann?
«Sì. C’eravamo conosciute in un bar. Era seduta su di uno sgabello. Sembrava protetta da uno scudo che la rendeva intangibile. Parlammo. Per caso. Fino a diventare amiche. Vere. Forse è la sola amicizia che rimpiango».
Cosa rimpiangi esattamente?
«La sua lievità. Le nostre chiacchiere notturne. Una certa dolce monotonia. Nel 1971 decidemmo di fare una vacanza. Partimmo da Roma per un posto non distante da Forte dei Marmi. Passammo un mese insieme. Colsi per intero la sua delicatezza d’animo».
Morì inaspettatamente un paio d’anni dopo.
«Fu straziante la sua fine e il vuoto assoluto che mi ha lasciato».
Morì per una vestaglia andata a fuoco mentre assopita stringeva una sigaretta accesa.
«La portarono al Sant’Eugenio. Ero lì, con lei, gli ultimi giorni.
Si era come acquietata. Nello strazio orribile che si intuiva sotto le bende c’era una forza affettiva straordinaria. Non riesco a dimenticare».
Non dimentichi cosa?
«La sua capacità di tenersi lontana dal male. Una sera andammo ad ascoltare all’Istituto Austriaco Thomas Bernhard. C’era anche Roberto. Bernhard era l’uomo più silenzioso che conoscevo. Nel silenzio mi trovavo benissimo. Finì la lettura. Uscimmo tutti e quattro. Era tardi. Improvvisamente si scatenò un’ilarità involontaria ».
Provocata da che?
«Non lo so. Forse la causa fui io. A un certo punto cominciammo a ridere. Fino alle lacrime. E lì scoprimmo che Bernhard sapeva essere un attore eccezionale. Cominciò a parlarci, quasi recitando, delle pietre di Irlanda, dei cimiteri viennesi, delle Piramidi troppo sporche per non essere un’insidia igienica. Fu memorabile quella capacità di passare con estrema agilità da un argomento all’altro. Quelle di Bachmann e di Bernhard furono vite sorprendenti».
Hai scritto un libro “Vite congetturali”. Vite, potremmo dire “ipotetiche”.
«Mi divertiva, o forse è meglio dire mi affascinava, che alcune di esse potessero aderire perfettamente alla mia visione mentale. Parlo delle vite di De Quincey, Keats e Schwob. Vecchi amori. Terribilmente malinconici».
Sotto il segno del laudano.
«Era molto in voga. Il laudano crea sogni e presenze».
Tu sogni?
«Forse no. Però sinceramente non lo ricordo. Più che sognare sono attraversata dall’insonnia».
Come la combatti?
«Non la combatto. Mi arrendo alla sua lieve violenza. È una grande seccatura. Mi stendo sul letto e rimango immobile. Non puoi resistergli. Poi arriva quel momento odiosetto che è l’alba e ti appisoli».
Sei un animale notturno?
«La notte mi piace. Ma ormai non c’è più differenza con il giorno. Non so che animale potrei essere».
Sei felpata e guardinga come una gatta.
«Ah i gatti! Ho amato particolarmente una gatta. In un racconto parlo di una particolare dote del gatto. Quella che gli etologi chiamano Übersprung».
Che cosa è Übersprung?
«Si tratta di un piccolo movimento. Il gatto punta la preda e quando è pronto fa finta di distrarsi. Poi gioca con la vittima. Poi guarda altrove. E infine colpisce. Meccanica di precisione. In un assalto leggero e agile».
Cosa ti suscita?
«Penso che sia un modo per distrarsi dall’agonia della morte: è il malinconico disfarsi del legame con la vittima, come ho scritto».
Scrivi pochissimo. Perché?
«Ho sempre meno cose da dire. Sto davanti alla macchina da scrivere come davanti al pianoforte. Mi esercito. Come con le scale. Un buon esempio di meditazione».
Che rapporto hai con la musica?
«Strettissimo, cominciai da bambina con mia madre che suonava il pianoforte. Ora è qui tra i pochi oggetti che amo. Un vecchio Steinway & Sons. Il migliore, per me, che ci sia. Una volta assistetti, per caso, a una lezione di Dietrich Fisher Dieskau. Spiegò come attraverso la musica e il canto si interpretano le parole. Portava gli esempi di Hugo Wolf e Franz Schubert. La musica è un grande esercizio mentale».
C’è relazione con la scrittura?
«Per me sì. Ma se mi chiedi perché non so risponderti».
Oltre agli esercizi mentali ci sono quelli manuali. Ti piace la manualità?
«Guardo con un certo sospetto il maneggiare più che la manualità di cui ho scarsa dimestichezza».
Maneggiare in che senso?
«Si possono maneggiare le persone e le cose. Qual è la differenza? Mi chiedo. Si maneggia tutto. I ricordi. I morti. I vivi».
Vuoi dire che tutto è utilizzabile?
«Qualsiasi cosa può essere utilizzata. Come utilizziamo le cose, così noi stessi. Che differenza c’è tra noi e le cose? Forse abbiamo una vita più breve».
Per questo ami raccontare di personaggi che vivono nella vecchiaia o nell’adolescenza?
«Non ci avevo mai pensato. Provai a scrivere su di una stronza di mezza età. Ma non mi riusciva. Una sera con la Bachmann parlammo della vecchiaia. La trovava orribile. Le dissi: tutto è orribile. Eppure, in quel momento, eravamo liete. Ma era come se un presagio mi lasciasse intuire la sua fine».
Torni mai nei luoghi di origine?
«Non mi capita tanto spesso. A Zurigo non ho più nessuno. Vivevo in una delle più belle case della città. L’hanno distrutta per fare posto a un cavalcavia. Ho come l’impressione che non esista più niente».
In un tuo racconto la nonna chiede alla nipote: cosa vuoi fare da grande? Nonna, da grande voglio morire.
«La trovo bella e tu?».
Trovo inquietante tanta determinazione.
«Preferivi una risposta più appiccicosa? Abbiamo iniziato questa “confessione” parlando del vuoto. Ecco. Il vuoto è una pianta che va costantemente annaffiata. Il desiderio di non esistere è un esercizio che si rinnova di volta in volta. Anche la creazione è una forma di distruzione. Anche chi non esiste muore a poco a poco».
Antonio Gnoli, la Repubblica 2/8/2015