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 2015  agosto 02 Domenica calendario

L’ISOLA PIÙ VELOCE DEL MONDO

KINGSTON
Donkey! Così viene chiamato uno dei più autorevoli candidati al ruolo di successore di Usain Bolt: donkey, l’asino. Javon Donkey Francis, vent’anni, ha gambe nere, lunghe e nerborute. L’anno scorso ha stabilito il nuovo record nazionale sui 400 metri in 45”35, meno di Bolt nel 2003. Al traguardo, ha imitato il gesto della saetta con cui Bolt celebra le sue vittorie. Per il suo allenatore, Michael Clarke, il ragazzo è semplicemente un prodigio. «Let’s go, Donkey!». Come tutte le sere durante i giorni feriali, Clarke impartisce direttive al suo pupillo e al resto della squadra in una pista adiacente allo stadio nazionale di Kingston, la capitale di quest’isola delle Grandi Antille. Con la camicia sbottonata fino all’addome per affrontare la calura soffocante, l’allenatore veterano con trent’anni di esperienza, responsabile del rinomato Calabar High School Team, rimane su una seggiolina da giardino al bordo della pista. Sotto un cielo plumbeo, giovani corridori di entrambi i sessi con anatomie da purosangue, escono di corsa in formazione, al ritmo scandito dalla voce grave e implacabile del signor Clarke. «Ai vostri posti… Via! Bene, bene, bene. Tempo?». La luce del sole comincia a spegnersi mentre Javon Donkey Francis, steso sopra un lettino, aspetta che un fisioterapista finisca di stiracchiare le sue estremità per potersi unire alle esplosive serie di sprint dei suoi compagni. «Fin da piccolo sognavo di diventare un velocista, non un calciatore», dice Donkey. «E sognavo di essere uno dei migliori. Ho organizzato la mia vita in vista di questo obiettivo. Penso che ci riuscirò. La disciplina è un fattore chiave. Voglio essere come Usain Bolt». Figlio di una guardia giurata e di una bambinaia, Donkey proviene da un’umile famiglia di cinque fratelli, che vive ancora a Bull Bay, nei pressi della capitale. Michael Clarke l’ha preso all’amo quando è passato dal liceo Calabar, e da allora lavora per affinare questo diamante grezzo.
Il vero Usain Bolt si allena a pochi chilometri, sull’emblematica pista blu dell’Uwi Mona Stadium. Bolt sgobba tre ore ogni sera per undici mesi all’anno, qui nella sede del Racers Track Club, dentro il campus dell’Università delle Indie Occidentali (Uwi nell’acronimo inglese). La Puma, che paga scarpe e magliette a Donkey Francis, versa a Bolt 10 milioni di dollari l’anno fino al 2017, secondo Forbes. Come molti altri grandi atleti giamaicani, Francis e Bolt sono di origini modeste. La superstar mondiale viene dalla William Knibb Memorial di Falmouth, nel Trelawny, dov’è nato, che conta 1.400 fra maschi e femmine (i ragazzi con divise color cachi e le ragazze con grembiule azzurro): le lezioni si tengono dentro casermoni poco illuminati e c’è una pista di atletica dove a metà mattinata può capitare di veder pascolare le capre.
Yohan Blake, l’altra grande star del Racers Track Club agli ordini del celebre allenatore Glen Mills, arriva sgommando sulla sua Chrysler rossa, con musica dancehall a tutto volume. Dopo aver parcheggiato accanto alla pista blu ed essersi sottoposto a una breve sessione di stretching, Blake indossa occhiali da sole aerodinamici e prende a galoppare come un puledro selvaggio, agitando contro il vento le sue braccia erculee. Un cartello accanto alla guardiola di sicurezza avverte che questo è «il terreno dove si allenano le leggende».
Sei volte campione olimpico e otto volte campione mondiale fra il 2008 e il 2013, Bolt non è nel momento migliore della sua folgorante traiettoria. Ha ventott’anni, la mezza età per un velocista: i mondiali dal 22 agosto a Pechino e l’appuntamento olimpico di Rio 2016 potrebbero essere le sue ultime grandi apparizioni. La Giamaica cerca già successori per la leggenda: non farà fatica a trovarne, fra la sua progenie. Ne è convinto Maurice Wilson, selezionatore della nazionale e allenatore capo del college di educazione fisica Gc Foster, che ha formato la maggior parte degli istruttori sguinzagliati nei college a caccia di promesse. Per il signor Wilson, l’equazione è semplice: «Ci sono quasi tremila atleti di alto livello su una popolazione che arriva appena a tre milioni di abitanti. Faccia i conti lei sul nostro talento competitivo». Come dice Edward Shakes, direttore del Gc Foster: «Quello che abbiamo fatto in questo Paese è prendere sul serio l’educazione fisica». E chiarisce: «Il nostro centro per la formazione di professori dipende dal ministero dell’Istruzione. Gli atleti possono accedere a un programma di borse di studio statali: così abbiamo evitato la fuga di talenti che in passato prendevano la strada di Stati Uniti e Inghilterra. Le grandi stelle oggi vivono qui. Il sistema che è stato introdotto fin dalle elementari, e prolungato fino all’università, è il segreto del nostro successo. A questo bisogna aggiungere che è sufficiente dare ai bambini un paio di scarpe e farli correre. Quasi tutti quelli che arrivano in alto, vengono da famiglie molto povere. I benestanti preferiscono golf o tennis».
Insieme a turismo, musica, zucchero e bauxite, la produzione di velocisti è uno dei motori principali in questa nazione dove l’aspettativa di vita supera i settant’anni, il reddito pro capite annuo si aggira intorno ai 3.800 euro e bisogna fare i conti con un indice di povertà che colpisce, fra alti livelli di criminalità, il 17 per cento della popolazione, composta per quattro quinti da neri e mulatti. Alle ultime Olimpiadi, Londra 2012, i giamaicani hanno portato a casa dodici medaglie, di cui quattro d’oro, nell’atletica leggera. «Vuole sapere qual è il nostro segreto?», dice l’allenatore capo del Gc Foster, Maurice Wilson. «Guardi dentro questa borsa». Testa pelata e rotonda come una palla da biliardo e quasi due metri di altezza, fasciati in una maglia con le insegne del college, scruta l’allenamento della sua squadra. I ragazzi si avvicinano, sudati e ansimanti, a una panca dove Wilson custodisce l’enigmatica borsa, contenente semplici barrette di canna da zucchero al naturale, che i giovani atleti mordicchiano prima di avviarsi verso casa. «Si è parlato molto dell’influenza del patrimonio genetico in questa specialità», dice Wilson. «Qui in Giamaica la maggioranza della popolazione è originaria dell’Africa occidentale e abbiamo un clima umido, non troppo freddo, che aiuta ad adattarsi alle competizioni. Gli alimenti freschi che consumiamo sono un altro fattore essenziale. Ma la cosa più importante è la struttura di ricerca e sviluppo di talenti. Come la Spagna, che ha un sistema rodato per scovare campioni di calcio fin da bambini, noi l’abbiamo per velocisti».
La sede del Mvp Track & Field Club sta nei sobborghi di Kingston, nel campus dell’Università tecnologica della Giamaica (Utech). La sigla del club, Mvp, sta per maximising velocity and power, massimizzare la velocità e la potenza. Il leader è un allenatore esperto dal ventre prominente e il vocione da orco, di nome Stephen Francis. Insieme a suo fratello Paul, Francis fondò questo club nel 1999. Nei periodi che precedono le gare, i fratelli Francis si concentrano sulla cinquantina di atleti migliori, combinando allenamenti serali sulla pista in erba con giornate di corse dalle primissime ore del mattino sulla pista adiacente allo stadio di Kingston. Qui è facile incontrare, alle sei del mattino, Shelly-Ann Fraser-Pryce, la donna più veloce della Terra.
La duplice campionessa olimpica, specialista dei cento, ha ventotto anni, è alta appena un metro e mezzo e pesa cinquantasette chili. «Anche mia madre è stata un’atleta e ha sempre odiato perdere. È una cosa che ho ereditato da lei. È qualcosa di innato nel nostro Dna, almeno nei sobborghi dove ho passato la mia infanzia. I nostri genitori portano nel sangue la cultura dello sforzo. Ho studiato al liceo Wolmer dove ho cominciato a gareggiare. Grazie all’atletica, sono la prima della mia famiglia a essersi laureata. In psicologia, studiando fra le Olimpiadi del 2008 e quelle del 2012. Il mio sogno è diventare la prima donna a conquistare tre medaglie d’oro consecutive nei cento metri». Francis è convinto che Shelly-Ann può farcela. Ed è convinto anche che il ricambio generazionale è garantito. Un altro grande campione, Asafa Powell, implicato in uno scandalo di doping, non fa più parte del suo club. «Posso dirle solo che il suo abbandono non ha avuto nulla a che vedere con quello scandalo: è per il suo carattere che ho deciso che non volevo più essere il suo allenatore». Lei cerca di controllare il doping? «È difficile. Su internet c’è gente che ti consiglia di prendere questo o quest’altro. Io cerco di assicurarmi che i miei ragazzi si tengano alla larga dalle sostanze proibite. La mia responsabilità si ferma qui. Poi ci sono anche certi che credono di essere più bravi di quanto siano veramente e prendono decisioni sbagliate. Senza dimenticare l’indubbia pressione che è stata aggiunta dalle medaglie conquistate dagli atleti giamaicani negli ultimi anni».
«Non permetteremo che tutto quello che abbiamo realizzato finisca per aria», proclama il ministro dello Sport, Natalie Neita Headley, nel suo ufficio situato nello stesso edificio di quello della premier socialdemocratica, Portia Simpson Miller. Il sorriso del ministro scompare quando menziono i casi di doping che hanno coinvolto Powell e Sherone Simpson – condannati entrambi a diciotto mesi – che hanno messo in dubbio l’onorabilità dei successi internazionali dell’armata dello sprint giamaicano. «Il controllo antidoping qui da noi esiste solo da cinque anni. Però oggi i nostri atleti sono i più testati e vigilati del mondo. L’impegno del nostro governo è assoluto. Stiamo parlando di un settore che ha fatto molto per lo sviluppo dell’economia locale e della nostra immagine nel mondo».
Se vogliamo cercare una leggenda, l’architetto di questo sistema di formazione è Dennis Johnson. Si formò all’Università di San José, in California. Imparò bene la lezione e la mise in pratica una volta tornato in patria, diventando il promotore della famosa pista in erba ancora oggi utilizzata nel campus della Utech, e trasmettendo in seguito le sue conoscenze ai due allenatori più noti dell’isola, Francis e Mills. Con i suoi settantasei anni, Mister Johnson indica con orgoglio la pista in erba della Utech e riflette: «Nel 1971 non avevamo soldi per fare una pista in materiali sintetici e abbiamo optato per il prato. Oggi continuiamo a usare l’erba perché è più morbida per le gambe. Lo sprint non è semplicemente correre veloci, richiede la conoscenza di una tecnica che parte dall’energia come fonte. Bisogna imparare a massimizzare la meccanica, e al tempo stesso saperla allentare. Quando cerco un velocista opto sempre per il più pigro, perché sarà quello che riesce a dosare meglio lo sforzo e a farlo esplodere quando arriva l’ora della verità. Bilanciare è il segreto. E anche lo sviluppo cardiovasco-lare, perché questa specialità coinvolge tutti i muscoli del corpo. La cosa che ho fatto è stato contribuire a unificare un sistema complessivo, che coinvolge le strutture sportive e scolastiche. Secondo me abbiamo un rifornimento di velocisti garantito almeno per altri cinquant’anni».
Scende la sera sopra la pista della Utech. Alcuni corridori si godono il fresco, dopo aver sfacchinato per ore. Un paio di bambini piccoli, figli di uno degli atleti, gironzolano sul prato e ci ruzzolano sopra come se fossero di gomma, ignari di ciò che il destino ha in serbo per loro.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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Quino Petit, la Repubblica 2/8/2015