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 2015  agosto 02 Domenica calendario

BORSA E IMPRESE QUELLA STRANA COPPIA CHE IN ITALIA NON FUNZIONA

Italcementi è stata acquisita da un gruppo tedesco. Un’operazione, come le tante altre che l’hanno preceduta di recente (Pirelli, Bulgari, Alitalia, Indesit, World Duty Free, Inter e Milan, per limitarsi ai nomi conosciuti) che non deve sorprendere.
La crisi del 2008, che perdura nell’Eurozona, e il rallentamento secolare della crescita dei Brics hanno creato molta capacità produttiva inutilizzata. In queste condizioni le imprese grandi e forti acquistano le deboli e piccole, per conquistare quote di mercato e tagliare i costi. La spinta alle fusioni è più forte nei settori più frammentati, soprattutto in Europa dove, a differenza degli Usa, i confini nazionali hanno condizionato la dimensione delle imprese. Inoltre, la globalizzazione ha ingigantito la dimensione del mercato rilevante per le imprese (ovunque nel mondo si consumano gli stessi beni e servizi), moltiplicando così le economie di scala: in sempre più settori, la crescita dimensionale è un imperativo.
Ma per alimentare l’ondata di fusioni e acquisizioni ci vogliono i capitali che le finanzino. Grazie alle politiche monetarie eccezionalmente espansive e all’afflusso degli ingenti capitali accumulati in passato da Cina, paesi esportatori di materie prime e paesi emergenti in forte crescita grazie ai loro avanzi delle partite correnti, il capitale non è mai stato così abbondante. Infine, il basso indebitamento medio delle imprese facilita il ricorso alla leva finanziaria per le acquisizioni.
L’Italia è particolarmente vulnerabile al fenomeno: le sue imprese sono piccole e il suo mercato dei capitali ristretto. La tipica impresa italiana che eccelle in una nicchia o segmento di mercato, in passato era relativamente protetta: la nicchia bastava a espandersi oltre i confini nazionali (le multinazionali tascabili), ma era troppo piccola per interessare i grandi gruppi. Non è più così: per le grandi imprese è diventato più facile e rapido innovare, raggiungere nuovi clienti e aumentare i margini acquisendo e aggregando piccole eccellenze, invece di crescere, faticosamente data la dimensione, per vie interne. Grazie allo stretto controllo familiare, le imprese italiane possono continuare a coltivare nicchie, ma prima o poi diventa conveniente vendere ( magari in occasione di liti familiari o passaggi generazionali, o quando sopravviene una crisi che le mette in ginocchio).
Questo scenario però non è necessariamente una minaccia mortale; può anche essere un’opportunità unica per crescere. Aumentando i ricavi al 6% l’anno, il massimo sostenibile alla lunga, ce ne vogliono 12 per raddoppiare il fatturato. Più rapido farlo con le acquisizioni, sfruttando il momento favorevole. Ma per questo, il ricorso al mercato dei capitali è indispensabile. Le imprese italiane tipicamente non lo utilizzano: ricorrono all’autofinanziamento per gli investimenti e al credito bancario per finanziare il capitale circolante. Il debito corporate è ancora risibile. Pochi si quotano, e lo sbarco Borsa è troppo spesso percepito come punto di arrivo, un specie di iscrizione a un club esclusivo. Così, si quota sempre una minoranza del capitale (appena 34% il flottante medio del listino), poi più nulla. Gli aumenti di capitale servono a ripianare i debiti e quasi mai fare acquisizioni. Il titolo così non raggiunge la liquidità minima necessaria agli investitori istituzionali, e langue. L’intero flottante della Borsa italiana vale circa 340 miliardi di euro, 50 meno della sola Google. Tolti 90 miliardi delle imprese pubbliche e 100 delle banche, il flottante dell’intero settore privato italiano (150 miliardi) vale quanto la sola Toyota, e 60 meno di quello della Nestlé.
Così la Borsa non serve a niente. Non dovrebbe essere un punto di arrivo, ma di partenza: le azioni quotate liquide sono la moneta più facile per fare acquisizioni; e la migliore garanzia da offrire per raccogliere debito. Gli imprenditori devono quindi quotarsi per far crescere il valore della società in Borsa, aumentare il flottante, chiedere capitali agli investitori per finanziare chiari programmi di acquisizioni, costruire una classe manageriale, e affrancare la società dalla famiglia. Tutte le imprese nascono familiari; ma diventano grandi aprendosi al mercato dei capitali. Per gli imprenditori che vogliono crescere, credo sia meglio avere il 10% di una grande torta, che il 60% di un pasticcino mignon.
Alessandro Penati, la Repubblica 2/8/2015